Pale, picconi e piccoli folletti

A cura di Luca Barbieri

Un cercatore d’oro
Nei film e nei fumetti sono quasi sempre arzilli vecchietti un po’ matti, con una statura quasi nanesca, magri come chiodi, senza denti ma in compenso con barbacce incolte da istrice; parlano spesso a vanvera e girano con muli sovraccarichi di arnesi da lavoro e di borracce colme di buon whisky.
Sono i cercatori d’oro, vere icone del genere western, gente caparbia ed ostinata capace di raccontare monumentali frottole su come si può diventare ricchi in meno di un’Avemaria sguazzando come salmoni nei gelidi e pericolosi torrenti di montagna oppure traforando come topi i fianchi di colossali montagne.
Ma, al di là dei luoghi comuni, come si cercava realmente il biondo e prezioso metallo nel vecchio West?
Generalmente il primo oro, sbriciolato dall’azione erosiva dell’acqua, si trovava mischiato al fango e al pietrisco nei greti dei torrenti e dei fiumi che avevano avuto la “fortuna” di bagnare, tra i monti, la mother lode (e cioè la vena madre).


Un anziano cercatore d’oro

Virgoletto il termine “fortuna” perché questi corsi d’acqua, una volta scoperto che contenevano qualcosa di prezioso, venivano rivoltati come calzini, rovistati fin sotto il più piccolo sassolino, addirittura deviati dal loro letto.
L’oro dei fiumi si trovava setacciando la fanghiglia del suo fondo dentro ad una padella traforata detta wash pan, oppure, nel caso dei cercatori più organizzati, tramite il vaglio oscillante, e cioè una cassetta di legno dalla curiosa foggia dentro la quale era montato un telaio e che faceva in grande lo stesso servizio del setaccio.
Un gruppo di cercatori
Su un livello decisamente diverso stavano invece le grandi compagnie che cercavano l’oro con metodi industriali: c’era chi sbarrava un tratto di fiume con delle dighe per poter rovistare liberamente nei crepacci del suo letto (river mining), chi scavava gallerie sotto i corsi d’acqua (coyoting) e chi addirittura inondava intere colline con possenti getti d’acqua per lavare via l’oro (hydraulic mining).
Il comune cercatore che voleva “vedere l’elefante” (in gergo diventare ricchi trovando l’oro) non poteva però permettersi questi ausili sofisticati e costosi e doveva quindi stare immerso per ore nei torrenti montani e ripetere ossessivamente per tutto il tempo lo stesso identico gesto: riempire il wash pan di fanghiglia di fiume e farlo oscillare in modo tale che il mulinello d’acqua che si veniva a creare trascinasse via gli elementi più leggeri, e cioè terra e sabbia, e lasciasse invece sul fondo i frammenti d’oro, a causa del peso specifico più elevato.


Si cerca l’oro in miniera

Un sistema ingegnoso, ma molto lungo e scomodo da mettere in pratica: una media giornaliera accettabile imponeva infatti al cercatore almeno una cinquantina di lavaggi, il che, considerando che ad ogni lavaggio andavano dedicati non meno di dieci minuti, voleva dire passare otto ore delle ventiquattro con ginocchia e piedi sommersi dall’acqua, spesso gelida. Non c’è da stupirsi, dunque, del gran numero di congelamenti agli arti inferiori occorsi ai cercatori d’oro, senza contare poi i terribili dolori alle reni causati dalla postura. Il cradle (“culla”, così era chiamato il vaglio oscillante in legno) evitava i malanni, ma non sempre si poteva usare e, in ogni caso, era decisamente più costoso ed esigeva una competenza che il cercatore medio non aveva.


In cerca di una buona concessione

Il concetto, comunque, era il medesimo: il fango del fiume veniva fatto cadere su un piano inclinato in legno foderato di tela, che aveva la funzione di filtrare acqua e terra trattenendo l’oro.
Ma il vero colpaccio non si faceva passando le giornate a mollo nell’acqua, bensì tra le rocce aguzze dei monti a cercare la mother lode. Una volta trovata, la si portava alla luce scavando la pietra con i picconi oppure frantumandola con la dinamite; quest’ultima operazione, però, era tutt’altro che semplice. In California, ad esempio, quando si rese necessario cercare l’oro ben dentro le viscere delle montagne, arrivarono minatori esperti, soprattutto dalla Cornovaglia. Questi fieri gallesi (chiamati “Cousin Jacks”) avevano una straordinaria capacità nello scovare metalli preziosi prigionieri nella pietra; furono loro ad esempio a trovare il più ricco filone di tutta la Sierra Nevada. In genere venivano ritenuta gente strana e un po’ matta.


Un gruppo di “bussatori”

In effetti erano terribilmente superstiziosi: ad esempio si procacciavano la benevolenza dei “Tommy Knockers” (una sorta di gnomi del sottosuolo che battevano con le nocche sui muri delle miniere) collocando all’ingresso di ogni scavo una o più statuette che li raffigurava; e per nessun motivo uccidevano i topi, né tolleravano che qualcuno lo facesse.


Un campo minerario

Ma le loro manie avevano un ben preciso fondamento: i “Tommy Knockers” che battevano sui muri erano i sinistri rumori delle crepe che si aprivano e che minacciavano sempre un imminente crollo, e i topi servivano allo stesso scopo, avvertendo i minatori di frane o inondazioni con le loro precipitose fughe: “quando i topi scappano lo fanno anche i minatori” si diceva. Niente folli superstizioni, dunque, ma sano buonsenso.

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