La questione Custer

Una decisione inevitabile
Le consegne che il generale Alfred Terry – comandante del Dipartimento Militare del Dakota, facente parte, insieme a quello del Platte, del Missouri e del Texas, della Divisione del Missouri diretta da Philip Sheridan – diede a Custer il 22 giugno 1876 erano alquanto generiche: “Il comandante del Dipartimento (Terry) desidera che nella sua marcia lungo il Rosebud esamini accuratamente la zona superiore del Tullocks Creek e che faccia in modo di mandare una guida verso la colonna del colonnello Gibbon con informazioni circa i risultati delle sue esplorazioni. La parte bassa di quel ruscello sarà controllata da un distaccamento al comando dello stesso colonnello Gibbon.” Aggiunse che “il comandante del Dipartimento, che accompagnerà la colonna del colonnello Gibbon, desidera che si metta a rapporto da lui non più tardi del momento nel quale le razioni per la truppa saranno finite. Questo, naturalmente, se prima non avrà ricevuto ordini diversi”
Questi ordini, vennero così spiegati al generale Sheridan dallo stesso Terry dopo la catastrofe del Little Big Horn: “Calcolammo che la colonna del generale Gibbon non sarebbe arrivata alla foce del Little Big Horn prima del 26 giugno e che l’ampio giro che avevo proposto a Custer gli avrebbe portato via tanto tempo che Gibbon avrebbe potuto collaborare con lui nell’attacco agli Indiani che eventualmente avrebbero incontrato su quel torrente.”
Un ritratto giovanile
Ma Terry non sapeva quasi nulla né della direzione precisa presa dai Sioux, né della loro consistenza numerica. Appare evidente, dalle istruzioni impartite a Custer, che quella di dover combattere contro un nemico in forze, costituiva soltanto un’ipotesi remota. Di fatto, le direttive per il Settimo Cavalleria erano di compiere una ricognizione e di attendere poi il ricongiungimento con la colonna di John Gibbon, in una data ed in un luogo soltanto ipotizzabili.
Come si sarebbe dovuto comportare il tenente colonnello Custer quando, raggiunto il Little Big Horn la mattina del 25 giugno con i suoi 647 uomini, guide indiane e civili inclusi, gli venne segnalata dalle sue guide la presenza di un enorme accampamento pellerossa? Attenendosi agli ordini, avrebbe dovuto aspettare l’arrivo dei reparti di Gibbon, che erano costituiti prevalentemente da fanti. Che cosa avrebbero fatto, nel frattempo gli Indiani? Certamente se la sarebbero svignata, abituati com’erano a sgombrare i loro campi in pochissimo tempo. Ma il vero interrogativo è: come avrebbe giudicato l’esercito tale inerzia di Custer? Qui subentra un grave imbarazzo nel fornire una risposta convincente.
Non è difficile infatti immaginare che a Custer sarebbe quantomeno toccata l’accusa di essersi lasciato sfuggire il nemico sotto il naso, aggravata dal fatto di disporre di una formazione militare fra le migliori, consistente in ben 650 uomini con una scorta di munizioni quasi illimitata. E sicuramente molti avrebbero insistito sulla sua dimostrata incapacità durante la campagna di Hancock, sui suoi precedenti con la giustizia militare, per non mettere nel conto che il “generale” era caduto in disgrazia addirittura con il presidente degli Stati Uniti in seguito all’affare Belknap. I Repubblicani non lo amavano di sicuro, augurandosi soltanto un suo passo falso; le “lobby” affaristiche”, che egli aveva spesso attaccato, lo avrebbero fatto volentieri a pezzi ed anche qualche suo collega si sarebbe fregato le mani per il suo insuccesso.
Queste sono molto più che semplici illazioni e Custer, essendo tutt’altro che uno stupido, se ne rendeva perfettamente conto. Non solo, ma il “generale”, che era sotto le armi da quasi vent’anni, conosceva benissimo la mentalità dell’esercito. Fra tutti i reati che normalmente venivano giudicati dalla corte marziale, quello di codardia di fronte al nemico rappresentava da sempre il più grave, sul quale i giudici non transigevano e l’ipotesi di finire davanti al tribunale militare con questa imputazione era tutt’altro che remota. Vent’anni prima, il colonnello E. V. Sumner, responsabile di essersi lasciato scappare una grossa banda di Cheyenne era terminato sotto inchiesta, nonostante vantasse una lunga ed onorevole carriera. La storia della giustizia militare insegna infatti che non sempre l’avere rispettato scrupolosamente gli ordini costituisce motivo di assoluzione e l’espressione corrente che “un buon ufficiale non si arrende neppure davanti all’evidenza” poteva significare qualcosa di più di una semplice battuta.


Custer, i suoi familiari e ufficiali amici prima di una battuta di caccia

Proprio per questo, lasciarsi sfuggire gli Indiani dopo averli localizzati sarebbe stato interpretato dai suoi detrattori come pura vigliaccheria, dal momento che Custer disponeva di una formazione compatta e collaudata, composta da 31 ufficiali, 566 sottufficiali, graduati e soldati di truppa, 35 guide indiane esperte, appartenenti alle tribù dei Crow e degli Arikara e 15 civili fra esploratori, interpreti e addetti ad altri incarichi. Non è inutile rammentare ancora che le informazioni in possesso dell’esercito in quel momento, quantificavano le forze indiane in qualche centinaio di uomini, armati soprattutto con archi, frecce e lance e poche armi da fuoco, spesso di modello antiquato. L’unico che ne aveva verificato l’effettiva, preoccupante consistenza era il generale Crook, che però non ne aveva informato Terry.
Il Settimo Cavalleria possedeva invece, come dotazione regolamentare, fucili “Springfield” e pistole “Colt”, oltre ad un numero imprecisato di carabine a ripetizione. I suoi 160 muli trasportavano, oltre alle provviste, un carico di decine di migliaia di pallottole, con le quali sarebbe stato in grado di tenere testa a qualsiasi formazione anche numericamente superiore. Non si dimentichi che due episodi, fra i tanti accaduti nel corso delle guerre indiane, avevano lasciato viva impressione nell’opinione pubblica americana.
La prima era stata la vittoria ottenuta dal maggiore James W. Powell nei pressi di Fort Phil Kearny, Wyoming, il 2 agosto 1867. Con soli 32 uomini, armati di carabine “Springfield”, l’ufficiale aveva ripetutamente respinto centinaia di Sioux, uccidendone più di 40 e costringendo gli altri a ritirarsi con moltissimi feriti. La seconda era la strenua resistenza opposta per otto giorni dal maggiore George W. Forsyth e dai suoi 50 esploratori ad Arickaree Fork, nel Colorado orientale, contro circa 600 Cheyenne e Sioux. Anche in questo caso, nonostante l’esiguità dei difensori, gli Indiani erano stati costretti al ritiro con pesanti perdite, che superavano i 70 morti.


Il ritrovamento dei corpi di Kidder e del suo comando

Quali giustificazioni avrebbe potuto opporre Custer, di fronte a contestazioni che richiamassero un confronto con queste vicende? Probabilmente nessuna. Inoltre gli Stati Uniti stavano per celebrare il loro primo centenario dell’indipendenza e l’amministrazione Grant, dopo le recenti disavventure politiche, aveva bisogno di un’affermazione prestigiosa. Era ovvio che, non essendovi in corso delle guerre ufficialmente dichiarate, l’unica opportunità risiedesse nella rapida sottomissione dei ribelli indiani di Toro Seduto.
Nessuno avrebbe perdonato Custer se questi non avesse attaccato, come è altrettanto vero che nessuno l’avrebbe giustificato in caso di sconfitta o, peggio ancora, di ritirata.
Lo stesso Terry, nel suo rapporto al generale Sheridan in merito al massacro di Little Big Horn, scrisse che: “Custer…pensò che gli Indiani fuggissero. Nel timore che potessero allontanarsi, decise di attaccarli”. Ma non si trattò di una paura infondata da parte del “generale”. Il tenente Charles Varnum, comandante delle guide, dichiarò infatti: “Sapevamo che (i Sioux) avevano scoperto il comando di Custer, perciò li osservavamo. La costa sulla quale eravamo noi era più in basso della loro. Cavalcavamo tranquilli, quando ad un tratto scomparvero. Erano evidentemente corsi a dare l’allarme al loro campo, lasciando un uomo di guardia alla colonna”.
D’altronde, il sospetto di essere stati avvistati dagli Indiani divenne una certezza quando il capitano George W. Yates della compagnia F riferì a Custer che i suoi uomini avevano scoperto alcuni Sioux a rovistare fra i pacchi di gallette persi dai muli in movimento. Naturalmente, gli Indiani erano fuggiti non appena avevano visto i soldati tornare sui loro passi, andando certamente a riferire l’accaduto al loro villaggio. Infine, il generale Sherman, comandante supremo dell’esercito, dichiarò qualche tempo dopo che Custer, una volta avvistato il grande accampamento indiano, “non aveva altra scelta che attaccarlo”.
Ha ancora senso sostenere che Custer potesse decidere di aspettare, mandando a chiamare i rinforzi del colonnello Gibbon, che sarebbero apparsi all’orizzonte soltanto due giorni dopo?

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