Poteri misteriosi

A cura di Pietro Costantini

Nell’inverno del 1535, un inverno terribile, Jacques Cartier era a capo di una missione che esplorava – avanguardia fatale di un’imminente conquista – la silenziosa Baia del San Lorenzo, in nome della Francia e del suo re. In novembre il freddo s’era fatto intenso. Così tremendo da superare l’immaginazione e le forze di ogni buon marinaio francese. Già i primi uomini cedevano, sopraffatti dalla fatica, dal gelo e dalla malnutrizione.
Molti si ammalavano del micidiale scorbuto. Finalmente, un giorno, Cartier ebbe l’idea di chiedere aiuto a quegli strani “selvaggi” che, per la loro aria mite, gli erano sembrati fino a quel momento un po’ ingenui e “facili al giogo”. E quelli inviarono sulla sua nave un loki, il loro Uomo Medicina, lo sciamano guaritore della tribù. Il loki si procurò un po’ di foglie di sassofrasso (la thuya occidentalis o abete del Canada), ne ricavò un infuso che si chiamava annedda, e lo diede da bere agli ammalati di scorbuto, i quali guarirono tutti nel giro di una settimana.
Quella nuova e potente medicina era il primo regalo che gli Europei ricevevano dagli Indiani del Canada: talmente efficace che il sassofrasso, da quel momento, sarebbe stato chiamato in Europa col nome di “albero della vita”. Eppure dovevano passare tre secoli, prima che l’uomo bianco si degnasse di osservare con un po’ di attenzione la cultura dei Nativi nordamericani: basti pensare ai celebri studi di Morgan sulla società irochese, che stanno all’origine dell’antropologia moderna e che tanto entusiasmarono Marx ed Engels. Morgan, però, non s’era certo occupato della medicina indiana. Nei primi decenni dell’Ottocento, invece, il pittore statunitense George Catlin s’era messo a viaggiare tra i Nativi alla ricerca di bei soggetti per i suoi quadri. Ma il contatto con quei popoli così diversi cominciò subito ad ispirargli altri interessi.


Cartier e i Nativi

Alla sera, dopo aver messo a mollo i pennelli nell’ acquaragia, si armava di carta e penna e si dedicava a un ricco e puntiglioso epistolario. Le sue lettere non sono certo libere da pregiudizi del tipo di quelli che, oltre un secolo dopo, gli antropologi avrebbero sintetizzato nel concetto di “etnocentrismo”, cioè la mania di mettere la propria cultura al centro dell’universo. Ecco come in una delle sue lettere Catlin ci introduce all’argomento “medicina”: «In questa terra, Medicina è una grande parola e bisogna comprenderne tutto il significato per sviscerare e apprezzare l’anima dell’Indiano, impregnata di magie e di pregiudizi.» Poi passa a descrivere l’Uomo Medicina come «qualcosa di più di un semplice dottore o medico.» Catlin si rende conto, insomma, che l’Uomo Medicina degli Indiani ha ben poco a che vedere con la figura del medico moderno occidentale. Coglie la sacralità e l’importanza di un personaggio che custodisce l’atavico tesoro di conoscenza di quella che, nel nostro Medioevo, era definita la vis medicatrix naturæ, la potenza guaritrice della natura. Ed è ovvio che questa conoscenza (questa scienza) non può disgiungersi da una concezione magica della natura. Catlin scrive che gli Indiani non usano in realtà la parola “medicina”. Ogni tribù ha il proprio vocabolo e ognuno è sinonimo di qualcosa come “mistero” e “potere”. La malattia che l’Uomo Medicina si accinge ad affrontare con canti e danze, con infusi e soffi praticati con la bocca sulla pelle o “nell’anima” del degente, è mandata dal soprannaturale.
Uomo Medicina Iowa
Del resto, nell’animismo della loro religione ogni gesto quotidiano è permeato di mistero, fascino e trascendenza. Vegetali e animali, ogni cosa ha un’anima ed è sacra. Così l’uomo è parente della roccia e dei quadrupedi, dell’orso e dei fiumi; gli Irochesi, per la loro importanza nell’alimentazione, chiamano mais, fagioli e zucche “le tre sorelle”. Le piante usate dai guaritori sono sacre. «C’è un’altra cosa che il Creatore ha posto su questa terra – recita un canto irochese – l’erba e tutte le medicine e la diversa vegetazione.»
Benché i Nativi sapessero curare lo scorbuto usando semplicemente la foglia del sassofrasso, essi non attribuivano il potere terapeutico della pianta alle sue proprietà chimico-organiche, che assolutamente ignoravano. Né avrebbe saputo farlo la scienza medica dell’Europa di allora.
L’Uomo Medicina, il cui ruolo di benefattore era tenuto in alta stima, doveva ingraziarsi gli spiriti con appositi e spesso complessi rituali. In linea di massima, la causa della malattia era da attribuirsi a una rottura dell’armonia vitale. Spesso questa rottura conseguiva a una qualche dissolutezza commessa in precedenza dall’ammalato. A questo punto occorre capire come “nasceva” un Uomo Medicina.
Alce Nero, vecchio sciamano Sioux morto nel 1950, ebbe la sua prima premonizione – un sogno – all’età di nove anni. Il suo spirito guardiano gli mostrò un’erba che gli sarebbe servita per la cura dei malati e, così facendo, gli ordinava la sua futura vocazione. La pubertà e l’adolescenza sono comunemente indicate come le età prescelte, quelle in cui si dovranno ricevere, se sarà il caso, i primi segni del futuro impegno. Ma i destinati alla carriera di guaritore possono rivelare la futura vocazione non solo dall’intensità dell’esperienza visionaria, ma anche da alcune stravaganze temperamentali evidenti già in tenera età, come una particolare tendenza all’isolamento, ma anche una facile quanto esplosiva tendenza all’irascibilità. «Il mio primo dovere era di uscire a lamentarmi». Molto tempo dopo aver avuto la prima grande visione, Alce Nero non aveva ancora trovato l’erba e doveva prepararsi alla cerimonia del lamento. In quell’occasione rivide le sacre foglioline. Quello del lamento è un rito con precise regole. Per prima cosa bisogna essere assistiti da un altro stregone “vecchio e saggio”, al quale spetta, fra gli altri compiti, quello di riempire la sacra pipa e offrirne il fumo ai Sei Poteri, ai Quadrupedi e agli Uccelli dell’aria.
L’assistito deve rispettare un digiuno di quattro giorni, durante i quali gli è consentito di bere solo acqua. Quindi bisogna sottoporsi a un rito di purificazione dentro la capanna sudatoria che Alce Nero e il suo custode costruiscono con un intreccio di rami si salice e pelli di bisonte.


Alce Nero (Hehaka Sapa)

Giorni e notti, sulla cima di un colle, abbandonato anche dal suo assistente, l’iniziando è ora pronto per il pianto e per essere invaso da terribili visioni. Dopo il lamento, finalmente Alce Nero trova l’erba che cercava. Nell’età omerica come in quella amerindiana dal XVI al XIX secolo, periodo del quale abbiamo documentazione, la medicina è un sapere iniziatico e visionario e il guaritore è un uomo che “vale molti uomini”.
Oggi gli antropologi definiscono sciamano quel personaggio che i coloni chiamavano Medicine Man, anche se non tutti sono concordi nel rilevare una perfetta coincidenza tra la figura dello sciamano e quella dell’Uomo Medicina. Certo i tratti in comune sono parecchi. In primo luogo la doti di guaritore; anche il compito di dirigere riti e cerimonie spesso coincide, come anche quello, assai soprannaturale, di “psicopompo”, vale a dire di guida delle anime e di intermediario fra il mondo terreno e l’aldilà. Ma in favore di una diversa identità fra uno e l’altro va detto che alcune etnie o tribù identificano lo sciamano con la figura di “uomo sacro”. Almeno nel nome, i Sioux stabiliscono le differenze. Pejuta Wicasa è l’Uomo Medicina, mentre Wicasa Wakan è il vero e proprio sciamano. Anche i Navaho fanno delle distinzioni. Lo sciamano è, come nell’originario significato della lingua tungusa (i Tungusi abitano la Siberia orientale e la Mongolia), “colui che sa”, mentre l’altro ha il ruolo di “cantore”: a lui spetta memorizzare, tramandare e rappresentare i canti rituali nelle opportune occasioni, quando lo sciamano, come un superiore in grado, glielo ordina.
Wicasa Wakan
All’Uomo Medicina ci si rivolge in caso di malattie non gravi, ma quando la faccenda si fa più seria interviene “colui che sa”, l’uomo capace di estirpare il maligno e ristabilire l’armonia perduta. Negli anni Settanta e Ottanta del Novecento la figura dello sciamano conobbe in Occidente una certa fortuna, grazie soprattutto ai libri dell’antropologo Carlos Castaneda. Ma dopo le aspre critiche degli ambienti accademici alle tesi dell’autore, il fascino e le magie dello sciamanesimo, degli allucinogeni e dei funghi sbiadirono all’orizzonte come i connotati di don Juan Matos, il brujo Yaqui del quale Castaneda aveva raccontato efficacemente le gesta e i poteri.
I metodi sciamanici possono essere in qualche misura paragonati alle cure psicoanalitiche, se non altro perché a chi vi si sottopone necessita una buona dose di fiducia, per non dire di fede. Ma, soprattutto per l’interpretazione dei sogni, considerati un linguaggio dell’anima capace di evocare, come dice il proverbio, i desideri più remoti. Lo sciamano è allora in grado di fornire una lettura a seguito della quale si dice che certi malanni, facilmente di natura psicosomatica, scompaiono. A quanto sembra, non pochi medici bianchi in visita nelle riserve canadesi hanno dovuto, forse loro malgrado, constatare l’efficacia delle cure di questi Uomini Medicina, o sciamani che dir si voglia.

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