Vagabondi nel farwest

A cura di Gian Mario Mollar


Sebbene si parli di fatti dell’Ottocento americano, in questo articolo non ci sono pistoleri, saloon o assalti alla diligenza.
Quelle riportate sono tre storie di uomini semplici che, rinunciando ai pochi agi e alle molte costrizioni della cosiddetta civiltà, scelsero di essere liberi in modo originale e non conformista. Uomini che, come il Suonatore Jones di cui canta Fabrizio De André, offrirono “la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro, non all’amore né al cielo.”
Le tre esistenze di cui parleremo, per quanto distanti nello spazio e nel tempo, hanno in comune una sete di libertà non convenzionale, ricercata attraverso la solitudine nella natura e il vagabondaggio.
Anche se, probabilmente, nessuno di quei tre lesse mai i suoi libri né sentì parlare di lui, il padre spirituale di questo tipo di avventure fu senz’altro Henry David Thoreau (1817-1862), che scelse di abbandonare la vita borghese per rifugiarsi nella natura: “Andai nei boschi perché volevo vivere saggiamente, affrontare soltanto i fatti essenziali della vita, e vedere se non fossi capace di imparare quanto aveva da insegnarmi , e per non scoprire, in punto di morte, di non aver vissuto”.
Dal 4 luglio 1845 al 6 settembre 1847, Thoreau rimase per due anni, due mesi e due giorninei pressi del lago Walden, nella parte orientale del Massachusetts. Visse dei frutti del proprio lavoro, leggendo e godendo di un’armonia profonda con il creato. Nel corso della sua permanenza, scrisse un diario, dal titolo “Walden. Vita nei boschi”, le cui pagine, vibranti di vita e pervase di bellezza, sono, ancora oggi, fonte di ispirazione per vagabondi e sognatori.
Thoreau analizzava in modo critico la società del suo tempo e il culto per il lavoro, la proprietà e le ricchezze che la caratterizzavano: “Sono incline a pensare che non sono tanto gli uomini i custodi delle greggi, quanto le greggi guardiane degli uomini, perché quelle sono molto più libere di questi”.
Sosteneva che, in realtà, le cose che noi crediamo di possedere ci possiedono, impedendoci di vivere nel pieno senso del termine. Case, mobili, proprietà terriere non sono altro che “trappole legate alla cintura di un uomo”, che ne ostacolano i movimenti e lo distraggono dall’unica cosa che veramente conta: vivere.
“Datemi la verità, invece che amore, danaro o fama. Sedetti a una tavola imbandita di cibo ricco, vino abbondante e servi ossequiosi, ma alla quale mancavano la sincerità e la verità; partii affamato da quel desco inospitale. L’ospitalità era fredda come i gelati.”
La bellezza delle parole, e dei pensieri, di Thoreau si riflette nelle vite dei tre personaggi che stiamo per raccontare.

French Louie il trapper

Due volte all’anno, i monti che incombono sul villaggio di Speculator, nello stato di New York, risuonavano di un ululato selvaggio. Gli abitanti del posto, tuttavia, sapevano bene che non si trattava di un lupo, ma del vecchio Louie che stava scendendo in città per vendere le pellicce e fare festa. Il verso animalesco preannunciava forti bevute. Anche i bambini, che correvano incontro al vecchio trapper solitario, non sarebbero rimasti a corto di storie meravigliose e di qualche dolciume comprato all’emporio locale.
French Louie
Ma, una volta vendute le pelli ed estinta la sete, la foresta avrebbe nuovamente inghiottito il trapper.
Louis Seymour nacque in Canada, in una fattoria nei pressi di Ottawa, intorno al 1832. Sua madre morì quando era ancora un ragazzo e il padre sposò un’altra donna, che però non nutriva una forte simpatia per i suoi figli. Per questa ragione, all’età di diciassette anni Louie abbandonò la casa paterna e i suoi molti fratelli e si spostò nello stato di New York, dove venne soprannominato “French”, il francese.
French Louie non era molto alto, ma aveva una corporatura robusta e una forza straordinaria, che gli valse un impiego in diversi circhi itineranti. Quando non era impegnato con il circo, Louie lavorava nel taglio e trasporto dei tronchi lungo il Canale di Erie, un canale artificiale terminato nel 1825, che collega tutt’oggi i Grandi Laghi con l’Oceano Atlantico e New York.
La dura vita del log driver.
Quello del “log driver” era un mestiere non soltanto faticoso, ma anche pericoloso, che consisteva nel trasporto dei tronchi dal luogo in cui venivano abbattuti alla segheria. Prima della diffusione delle macchine a vapore o a scoppio, infatti, le segherie erano azionate dalla forza idraulica generata dall’acqua dei fiumi e sorgevano, in genere, in corrispondenza di cascate o di punti in cui la corrente era particolarmente forte. I tronchi tagliati venivano affidati alla corrente del fiume, per coprire la distanza che li separava dalla segheria, in cui venivano tagliati e trasformati in assi oppure ceppi da ardere, a seconda della necessità.
La prima fase consisteva, ovviamente, nell’abbattimento dei tronchi: ai tempi di French Louie le seghe non erano così diffuse e veniva ancora preferito l’abbattimento con l’accetta, che, sebbene più faticoso, conferiva al tronco un’estremità affusolata e più idonea a farsi trasportare dalla corrente rispetto al taglio della sega, che produceva un tronco di forma cilindrica e, di conseguenza, meno idrodinamico.


Davanti alla sua capanna di assi

Dopo essere stati abbattuti e sfrondati alcuni alberi con la corteccia particolarmente spessa e ruvida, come per esempio le sequoie, necessitavano di venire puliti da una squadra di peeler, i pelatori. Per altri alberi, dalla corteccia liscia e sottile come quella dell’abete, tale procedimento non era necessario.
I tronchi venivano quindi tagliati a pezzi e legati a pariglie di buoi o muli, guidate dai cosiddetti bull whacker, che incitavano e percuotevano le bestie per farle trainare il pesante fardello. Si narra che le imprecazioni di questi carrettieri fossero così blasfeme e colorite da far staccare la corteccia dai tronchi. Quando né le imprecazioni né le frustate bastavano, i bull whacker camminavano sulla schiena di quei poveri animali con stivali ramponati. Quando c’era una pendenza sufficiente, i tronchi venivano invece fatti scendere lungo rampe e scivoli, appositamente ingrassati dagli skid greaser, incaricati di lubrificare le rampe con burro rancido, grasso animale o semplice acqua, a seconda della disponibilità.
La log drive vera e propria iniziava quando i tronchi raggiungevano il fiume: a questo punto entravano in azione i cosiddetti river pig, i maiali di fiume. Il loro lavoro è paragonabile a quello dei cowboy che vigilavano sullo spostamento delle mandrie di bestiame: pur essendo inanimati, infatti, anche i tronchi potevano “imbizzarrirsi” e incagliarsi, generando degli ingorghi di dimensioni gigantesche. Proprio come le vacche, poi, anche i tronchi erano contrassegnati da marchi che ne denunciavano la legittima proprietà.
Compito dei river pig era quello di assicurarsi che il legname scendesse senza intoppi: al minimo cenno di incagliamento, bisognava agire sul tronco con delle pertiche per impedire il verificarsi di una log jam, un ingorgo, oppure di perdere i tronchi. Il loro era un mestiere che richiedeva forza, ma anche abilità e nozioni di fisica, e comportava il costante pericolo di affogare o di venire travolti dal legname.
Quando non era in azione, questo esercito di timber beast, “bestie da legname”, viveva nel cuore delle foreste, in accampamenti di rozze baracche, dove il tempo libero passava tra sbronze, gioco d’azzardo e prostitute. La sera, intorno al fuoco, si narravano le leggende di Paul Bunyan, il gigante taglialegna dalla forza smisurata, capace di tagliare più alberi con un solo colpo d’ascia: un mito per esorcizzare la fatica e la paura della morte, sempre incombente.
Da tagliaboschi a trapper
Per vent’anni French Louie si destreggiò nel logorante lavoro che abbiamo descritto, fino a quando il suo amore per le foreste e la natura selvaggia lo portarono ad abbandonare il canale per diventare un trapper, un cacciatore di pellicce.
Dapprima si insediò nei pressi del lago Lewey, in Vermont, ma, quando la zona cominciò a diventare troppo affollata per i suoi gusti, si rifugiò in zone ancora più remote, spostandosi sul fiume Jessup e successivamente nei pressi del lago Indian, sperduto nella struggente bellezza dei monti Adirondack. La vita solitaria e l’amore per i boschi lo trasformarono in una sorta di eremita laico.
French Louie e un amico
A French Louie, tuttavia, non si addicevano tanto le preghiere quanto piuttosto il lavoro continuo, svolto con un’abilità eccezionale. Chi lo conobbe ha raccontato che dormiva non più di quattro o cinque ore al giorno, e che passava il resto del tempo a pescare o a piazzare trappole per catturare animali da pelliccia di ogni genere, dalle martore fino agli orsi, senza trascurare volpi e lontre.
Louie non usava trappole di acciaio e tagliole, ma soltanto lacci e trabocchetti: un metodo che richiede un’abilità manuale ben maggiore, oltre a una notevole conoscenza delle abitudini e dei percorsi affrontati dagli animali. Le sue trappole si sviluppavano lungo linee, per intercettare il passaggio degli animali. All’estremità di ogni linea, in genere, i trapper costruivano una capanna, dove soggiornare e raccogliere le prede: French Louie arrivò ad averne ben quindici. Si racconta che, in un giorno freddo d’inverno, un tagliaboschi di Speculator si trovò a entrare in una di queste capanne, e la trovò colma fino al petto di trote congelate. “Serviti pure!” gli disse il trapper, materializzatosi all’improvviso alle sue spalle.
Alla caccia e alla pesca French Louie affiancava anche la coltivazione di un piccolo ma ben fornito orto e l’allevamento di polli e daini selvatici. Aveva anche due cani: quando arrivava il momento di scendere in città, cacciava un cervo e lo scuoiava, lasciandolo sulla porta di casa affinché i due animali non patissero la fame in sua assenza.
Il vecchio trapper aveva un cuore d’oro ed erano in molti quelli che venivano a trovarlo. Lui non rifiutava a nessuno quattro chiacchiere e un boccone da mangiare, ma le condizioni igieniche a dir poco precarie dei suoi accampamenti spingevano spesso i suoi ospiti a declinare, anche a costo di sentirsi chiamare “piedidolci” dal generoso ma rude padrone di casa, che comunque non se la prendeva troppo.
Non lontano da lui, viveva un altro trapper di nome Sam Seymour, che era convinto di essere suo fratello: anche lui veniva dal Canada, anche lui si chiamava Seymour come Louis e anche lui aveva avuto una matrigna cattiva e molti fratelli, ma il trapper non fu mai troppo convinto di questa parentela.
French Louie era una specie di leggenda vivente, benvoluto da tutti. Le sue visite in città, due volte all’anno, erano una ricorrenza che meritava di essere festeggiata.


La tomba di French Louie

La sua ora giunse all’età di 85 anni, nel 1915, a causa di quello che allora veniva chiamato “morbo di Bright”, un’infezione ai reni. Sebbene malato, Louie riuscì a trascinarsi in città e, lungo il tragitto, anche a catturare la sua ultima trota, per pagarsi il pernottamento. Alla sua morte, l’intera città si accollò le spese del funerale e, ancora oggi, il vecchio Louie è rimasto nell’immaginario collettivo di quei luoghi come un emblema di libertà e vita selvaggia.

Il mistero del Leatherman, l’Uomo di Cuoio

Sedici chilometri al giorno, a piedi. Per trentadue anni, dal 1857 al 1889. Senza una meta precisa ma sempre lungo lo stesso percorso, un anello di 580 km delimitato dal fiume Connecticut e dal fiume Hudson, percorso in 34/35 giorni dormendo in caverne e rifugi di fortuna, visitando le case di quelli che si dimostravano generosi con lui e che gli offrivano un po’ di cibo.
L’Uomo di Cuoio
Sono queste le coordinate spaziali e temporali del mistero del Leatherman, l’Uomo di Cuoio.
Il soprannome deriva dallo strano vestito che indossava in ogni stagione, fatto di pezzi di cuoio cuciti rozzamente insieme con dei lacci. Il cuoio, rigido perché ricavato da vecchi stivali, scricchiolava a ogni suo passo, annunciandone l’arrivo.
Nessuno lo vide mai cacciare o pescare. Gli abitanti delle fattorie lungo il suo percorso avevano imparato a predirne l’arrivo, sempre regolare, e le donne sfornavano pane per placare la sua fame proverbiale. L’uomo non parlava molto, al limite mugugnava qualche frase in un inglese incerto per ringraziare e, se gli si offriva ospitalità, rifiutava in modo cortese. Amava fumare tabacco, con una pipa che lo accompagnava sempre.
Sopravvisse a estati torride e a gelidi inverni, dormendo all’interno di caverne di pietra, che all’occorrenza riscaldava accendendo un fuoco. Prima di abbandonare i suoi rifugi, faceva in modo di lasciare una pila di legna per la volta successiva.


Il circuito di Leatherman

Non si sa come, ma disponeva di un po’ di denaro, forse grazie alla benevolenza dei coloni della zona. Un negozio conservò un suo ordine: “una pagnotta di pane, una scatoletta di sardine, mezzo chilo di gallette, una torta, due etti di caffè, un quarto di pinta di brandy e una bottiglia di birra”.
Nessuno sapeva niente del passato dell’Uomo di Cuoio. Si ipotizzava che fosse francofono, a causa del suo accento e per un libro di preghiere in francese, trovato tra i suoi pochi effetti personali quando morì. In Connecticut si sparse la voce che il suo vero nome fosse Jules Bourglay e che venisse da Lione, in Francia.


Un’altra immagine di Leatherman, l’Uomo di Cuoio

Secondo questa storia, da giovane l’Uomo di Cuoio lavorava in una fabbrica di pellame ed era entrato nelle grazie del proprietario al punto di stare per sposarne la figlia. All’improvviso, un tragico incidente mandò tutto in fumo: secondo alcuni, fu un suo grave errore contabile, che lo fece cacciare dall’azienda, mentre, secondo altri, fu un incendio causato da una sua distrazione.
Leatherman da vecchio
La storia si diffuse al punto che, sulla sua lapide, venne inciso il nome di Jules Bourglay, ma in realtà si trattava di una bufala diffusa da un giornale locale, che non aveva alcun fondamento. La lapide venne poi sostituita con una che porta semplicemente il nome con cui tutti lo conoscevano: Leatherman.
Versioni più verosimili ipotizzano che fosse canadese, mentre altri pensano che avesse delle origini indiane, a causa della sua conoscenza delle erbe: un’igiene molto sommaria rendeva difficile discernere con certezza il colore della sua pelle.
Nel 1888, una società umanitaria di benpensanti fece in modo di farlo arrestare e ricoverare, ma l’ospedale lo rilasciò ben presto perché risultava “sano, a parte una sofferenza emotiva” ed era in grado di badare a se stesso. Lo trovarono morto l’anno successivo, nel 1889, a causa di un cancro alla bocca probabilmente dovuto all’abuso di tabacco.
Nel 2011, un’equipe scientifica esumò la sua tomba, sperando di trovare qualche elemento nel DNA che aiutasse a spiegarne almeno la provenienza, ma andò incontro a una delusione: dell’Uomo di Cuoio non rimaneva nulla, se non qualche chiodo arrugginito proveniente dal feretro, e il suo mistero rimase intatto.

Johnny Seme di Mela

John Chapman è un personaggio realmente esistito, ma la sua storia sconfina spesso nella leggenda.
Nacque nel 1774 a Leomister, nel Massachussets. Suo padre combatté nella Rivoluzione Americana con le truppe delle tredici colonie ed era uno dei cosiddetti minute men, gli “uomini del minuto”, così chiamati perché dovevano essere pronti per la battaglia con il preavviso di un solo minuto. Suo padre fece ritorno dalla guerra, mentre sua madre morì di parto. Johnny, fin da giovane, lavorò come giardiniere e vivaista.
Johnny “Appleseed”
Il soprannome “Appleseed”, seme di mela, deriva dal fatto che trascorse la sua vita viaggiando a Ovest e spargendo ovunque semi di mela, contribuendo così a diffondere questa specie di albero da frutto negli Stati Uniti. Le sue peregrinazioni coprirono l’Illinois, l’Ontario, la Pennsylvania e l’Ohio: ancora oggi, si possono trovare piante discendenti da quelle piantate da questo strano personaggio.
Johnny Seme di Mela era davvero un personaggio anticonformista: usava una pentola di latta come cappello, era vegetariano e camminava sempre a piedi scalzi. I suoi occhi azzurri erano orientati più al cielo che alle monotone incombenze che occupano la vita di gran parte degli uomini.
Chapman apparteneva alla Nuova Chiesa, una setta cristiana ispirata agli scritti di Emanuel Swedenborg (1688-1772), un ingegnere e inventore svedese che, in seguito a una serie di sogni, si trasformò in mistico e profeta.
Johnny Appleseed era anche un predicatore, che conduceva una vita di castità e preghiera, predicando tanto i coloni quanto gli indiani, che gli risparmiarono la vita in molte occasioni proprio per questo suo approccio insolito.
Tuttavia, vedere in questa figura semplicemente un folle che vaga per il Mid West spargendo semi di mela e predicando non sarebbe esatto. Le peregrinazioni di Johnny Appleseed, infatti, seguivano uno schema ben preciso: trascorreva l’inverno nei pressi di Pittsburg, in Pennsylvania, dove faceva scorta di semi di mela, e, con l’arrivo della bella stagione, Johnny si metteva in viaggio, cercando di indovinare gli spostamenti futuri di coloni ed esploratori. Giunto in una zona che riteneva confacente, si metteva a piantare meli, ma piantarli non era sufficiente, in quanto era anche necessario proteggerli dai cervi e dagli altri animali selvatici: a questo scopo, costruiva intorno a ciascun albero una recinzione. Nella stagione successiva, vendeva gli alberelli, ormai pronti a fare frutti, ai coloni, creando un business piccolo ma redditizio. Non solo: la creazione di questi frutteti permetteva all’eccentrico, ma non sprovveduto, predicatore di reclamare la terra, tanto che al momento della sua morte era il proprietario di ben 1200 acri di frutteti (circa 5 km2 ).
Un altro aspetto meno noto – e spesso volutamente taciuto – della leggenda di Johnny Seme di Mela è il fatto che le mele, a quei tempi, non si mangiavano. La varietà da lui prodotta, in particolare, produceva frutti piccoli, aspri e amari, che per diventare commestibili avrebbero necessitato di un innesto, ovvero dell’inserimento di uno o più rami proveniente da un’altra varietà. Johnny, però, rifiutava questa pratica, perché riteneva che facesse del male agli alberi.
Le mele erano però un ingrediente fondamentale per fabbricare alcolici, perché dalla loro fermentazione si ricavava non solo il sidro, ma anche una specie di whisky molto in voga all’epoca, chiamato Apple Jack. L’attività di Johnny, quindi, aiutava a portare un po’ di ebbrezza e allegria in una terra di duro lavoro e di costante pericolo, ed è forse questo uno dei motivi per cui il predicatore era così benvoluto dai coloni. Non a caso, negli anni Venti del secolo scorso, con l’avvento del proibizionismo, gran parte dei meli piantati dal nostro vennero abbattuti dagli agenti del governo, nel loro vano tentativo di mettere fine al consumo di alcol.
La sua vita trascorse tra frequenti peregrinazioni tra le foreste rigogliose del Midwest e morì all’età di circa settant’anni, il 18 marzo 1845, nello stato dell’Indiana.


Un simpatico quadro con Johnny Appleseed

Il giornale Fort Wayne Sentinel riportò questo necrologio: “Il deceduto era ben noto in tutta la regione per la sua eccentricità, e lo strano abbigliamento che era solito indossare. Faceva il vivaista, ed è stato un visitatore regolare di questa regione per più di dieci anni. A quanto si dice era nativo della Pennsylvania ma la sua casa – se ne aveva una -negli ultimi anni era dalle parti di Cleveland, dove vivono dei suoi parenti. Si pensa avesse delle proprietà considerevoli, eppure si negava gran parte delle comuni necessità della vita – non tanto forse per avarizia, quanto per le sue particolari nozioni in materia di religione. Era un seguace di Swedenborg e credeva devotamente che più avesse sopportato in questo mondo, meno avrebbe dovuto soffrire e più grande sarebbe stata la sua gioia nell’aldilà – si sottoponeva a qualsiasi privazione con allegria e soddisfazione, credendo, facendolo, di assicurarsi un buon posto nella vita ultraterrena.
Anche con il tempo più inclemente, viaggiava scalzo e quasi nudo, a meno che non si imbattesse in vecchi vestiti. Malgrado le privazioni e l’esposizione alle intemperie, ha vissuto una vita estremamente lunga, non meno di ottant’ anni al momento della sua morte – sebbene chiunque avrebbe pensato che ne avesse soltanto sessanta. Portava sempre con sé qualche opera sulle dottrine di Swedenborg, che conosceva alla perfezione, ed era sempre pronto a discutere e conversare sui suoi precetti, con grande perspicacia e profondità. La sua morte è stata piuttosto improvvisa. È stato visto per le nostre strade un giorno o due prima.”
Finiva così la parabola terrena di Johnny Seme di Mela e c’è da sperare che egli abbia veramente trovato nell’aldilà quello che si aspettava. Ancora oggi, comunque, è ricordato come uno dei primi ambientalisti, e la sua storia è stata narrata in tantissime versioni, dai cartoni di Walt Disney alle canzoni punk dei Nofx.

Conclusioni

Con Johnny Appleseed finisce questo viaggio in tre vite tanto lontane dalla consuetudine. Certo, è probabile che all’epoca questi tre uomini fossero considerati dai loro contemporanei degli eccentrici, quando non proprio dei miserabili, e che venissero trattati con la condiscendenza che di solito si riserva ai pazzi o ai mendicanti. Tuttavia, almeno ai miei occhi, le loro storie conservano un’urgenza e una sete di libertà e vita autentica che meritano di essere ricordate.

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