La battaglia di Fort Smith

A cura di Raffaele D’Aniello

Con la fine della Guerra Civile, l’avanzata della frontiera americana, quasi immobile durante gli anni più duri della terribile contesa, riprese forza e vigore. Migliaia di emigranti si spinsero all’ovest in cerca di fortuna e di terra da occupare. Soldati smobilitati degli opposti eserciti, l’unionista e il confederato; profughi del sud gettati sul lastrico dalla guerra; operai del nord disoccupati dell’ultima ora, da quando la grande industria bellica del Nord vincitore aveva cominciato a ridurre la produzione causa la pace; emigranti stranieri e contadini poveri americani attirati all’ovest da l’Homestead Act di Lincoln, 160 acri di terra gratis a chiunque sapesse coltivarli e difenderli con il fucile in mano. Tutta questa folla variopinta, in realtà un complesso movimento di centinaia di migliaia di persone, si mosse a ovest con ogni mezzo utilizzando le piste e le strade già tracciate in precedenza dalla prima grande corsa all’oro della California.
Al di la del Mississippi, il grande fiume Padre delle Acque, però, gli eventi avrebbero avuto uno svolgimento diverso, che nella fertile vallata del Sacramento. In California le condizioni di vita molto favorevoli avevano reso le nazioni indigene miti e prive di tradizioni guerriere.


Un folto gruppo di cercatori d’oro

Gli indiani della penisola e delle verdi vallate erano cosi spariti senza lasciare tracce, uccisi a decine di migliaia, quasi senza opporre resistenza, dai coloni, dalle malattie, dal whisky e dallo sfruttamento schiavistico nei campi auriferi. Le Grandi pianure, invece, con il loro clima duro e inospitale, avevano forgiato con il lento ma costante lavorio di secoli, un gruppo di nazioni native che aveva fatto del coraggio la migliore e la più ambita delle virtù sociali sia dell’uomo che della donna. La naturale conseguenza di queste condizioni originò un sistema di vita tradizionale, basato su caccia e raccolta, che non favoriva l’aggregazione di grosse unità sociali e politiche, essendo ancora il clan e la banda la più comune delle suddivisioni delle tribù. Queste nazioni erano composte al massimo da alcune migliaia di individui, con un ordinamento politico molto frammentato, poco coesivo, estremamente democratico-individualista, dove l’unanimità delle decisioni politiche a qualsiasi livello era la norma assoluta.
Le comunità dei Lakota, dei Cheyenne, dei Piedineri, dei Pawnee degli Arapaho, per citarne solo alcune, pur non essendo società militaristiche nel significato occidentale del termine, tutte queste grandi nazioni native del continente nordamericano avevano concepito e dilatato nei secoli ideologie, concezioni, motivazioni e tecniche militari molto sviluppate e complesse, utilizzando e approfittando delle nuove possibilità offerte loro dall’introduzione del cavallo.


La vita nel clan

Il cardine di questo sistema guerresco erano le cosiddette Società Militari, vero fulcro della possibilità di offesa e difesa della tribù. In questo tipo di fratellanza, i sodalizi tra i maschi adulti, essendo associazioni di tipo orizzontale, permettevano una migliore coesione delle disperse bande e tribù, evitando i pericoli insiti nella vita dominata da una decisa frammentazione. In definitiva servivano a mantenere salda la coesione delle rispettive bande. Inoltre, trovandosi a operare in un ambiente esterno tremendamente ostile, le gilde guerriere riuscivano ad evitare, con un profilo militare estremamente basso, lo straripare della volontà di auto-affermazione del giovane guerriero. In questo modo si preveniva la creazione di una casta militarista ed espansionista, pericolosa per la naturale e indispensabile democrazia individualista che permeava la vita politica e sociale della tribù e della nazione.
Tra i Lakota e i Tsis’tsis’tas, quelli maggiormente impegnati nella cosiddetta Guerra di Nuvola Rossa di cui parleremo più avanti, le società militari avevano un particolare importanza e riunivano la parte più combattiva ed esperta degli uomini della tribù. In termini numerici si può affermare sicuramente che nelle confraternite guerriere si trovava la maggior parte di quel 25 % circa dei maschi adulti della tribù che si potevano ritenere guerrieri di professione e a tempo pieno, impegnati cioè nella maggior parte della loro vita sino ai 40 anni, in spedizioni di guerra di varia natura.


Guerrieri a cavallo

Le principali società militari dei Lakota, Akicita in lingua teton, erano presenti in tutte le sette principali tribù e si distinguevano tra loro per la diversità delle cerimonie e delle danze.
Queste le più conosciute:

-Tokala, Cuccioli di Volpe, famosa per il valore e la disciplina dei componenti, incaricata come polizia dei grandi campi estivi.
-Wici Ska, Insegne Bianche.
-Hoka, I Tassi.
-Sotka Yuha, Portatori di Lancia Disadorna, la cui ammissione avveniva solamente per intercessione dei capi principali della società.
-Cante Tinza, Cuori Forti, l’elite delle società di guerra hunkpapa, alla quale apparteneva Toro Seduto e della quale fu capo per molti anni.


I guerrieri facevano parte di aggregazioni particolari

-Miwatani, partecipavano alle spedizioni di guerra, ma senza operare come polizia di accampamento.
Presso i Tsis tsis’tas le società militari, Notaxé Vestototse, erano numerose e agguerrite:
-Wohk’seh ‘hetan ’iu, Cuccioli di Volpe, composta da un numero fisso di 150 guerrieri, sovrintendeva solitamente al mantenimento dell’ordine nel cerchio tribale e durante gli spostamenti.
-Ho’tami’ta’niu, I Soldati del Cane, la più numerosa e potente delle società guerriere cheyenne. Sino alla battaglia di Summit Springs, 1869, dove fu distrutta, formava un cerchio campale autonomo.
-Hirn’o tàno’his, Contrari, o Corda dell’Arco. Questa confraternita non aveva capi e i componenti rimanevano celibi. Usavano vivere ogni tipo di rapporto con gli altri alla maniera contraria, nel linguaggio, nel modo di vivere quotidiano, tranne che nel combattere. Dipinto il corpo di rosso si impegnavano in battaglia sino alla morte o alla vittoria, legandosi una lunga fascia alla vita e piantandola in terra con un piolo per non arretrare di fronte al nemico se non dopo averlo vinto o essere uccisi.
-Ma’ho’he ‘vàs, Scudi Rossi, conosciuti anche come i Guerrieri del Toro di Bisonte, con emblema una scudo dipinto di rosso raffigurante il sole.
-Hemó’Heoxeso, Soldati della Lancia.
-Ho’néhe Notaxeo’o, Guerrieri del Lupo.
-Hotamé Masahao’o, Cani Pazzi.

Nella seconda metà degli anni sessanta, finita la Guerra Civile e smobilitato il grande esercito dell’Unione, gli Stati Uniti si trovarono di fronte a un nemico abile, mobilissimo e sfuggente durante le grandi campagne, padrone di un armamento a volte primitivo ma micidiale, invincibile nella tattica di guerriglia, ma pronto a colpire con grande efficacia appena le condizioni sul campo aperto glielo avessero permesso, coraggioso sino alla temerarietà, considerato da osservatori imparziali “la miglior cavalleria leggera del mondo”.


Soldati durante la guerra civile

Dal 1862, anno della grande rivolta dei Dakota-Santee del Minnesota, le pianure a ovest del Mississippi si trovarono in uno stato di guerra continuo. La causa principale era la resistenza che le nazioni indiane delle pianure offrivano alla colonizzazione bianca. Per i popoli nativi, la posta in gioco era semplicemente la sopravvivenza del modo di vita tradizionale, in definitiva la loro stessa esistenza.
Per i bianchi degli Stati Uniti, che si avviavano già ad essere una potenza industriale di livello mondiale, la colonizzazione dell’ovest era innanzitutto una enorme, vantaggiosa speculazione immobiliare, giocata attraverso le grandi vie di comunicazione tra i due emisferi.
Una delle principale vie di penetrazione oltre il Mississippi era la pista Bozeman che dal fiume Platte puntava direttamente a nord attraversando i territori di caccia del fiume Powder, in direzione dei campi auriferi del Montana. Il fiume Powder era uno dei tanti affluenti del Missouri, il cardine di un territorio ancora vergine, una vastissima zona dalle caratteristiche ecologiche e venatorie pressoché intatte, popolata dagli ultimi grandi branchi di bisonti, da alci, antilopi, cervi, ricca di foreste e sorgenti.
Era assolutamente indispensabile alla vita dei 15.000 Lakota e dei 3.000 Cheyenne loro alleati, che vi cacciavano da circa ottanta anni, tra l’altro respingendo con continue e sanguinose guerre una decina di tribù nemiche che tentavano di strapparne il controllo. La zona del Powder era fondamentale per il sistema di vita dei Lakota. Fungendo da zona franca, quel territorio pressoché intatto, era come una sorta di enorme riserva di caccia, dove gli animali avevano tutto il tempo per riprodursi indisturbati dando di che vivere alle bande di cacciatori nomadi. Infatti, finché la pressione dei bianchi non si fece insostenibile, raramente le tribù Lakota e Cheyenne vi sostavano più del tempo necessario a rinfoltire le proprie riserve di provviste alimentari. Adesso occorreva resistere a tutti i costi, in quanto gli americani si apprestavano a chiudere definitivamente la partita.


Sioux e Cheyenne alleati

Per proteggere i convogli dei cercatori d’oro e dei coloni diretti a nord, e soprattutto per cercare di risolvere il problema della supremazia dei Lakota nel territorio, l’esercito americano decise cosi di stabilire una serie di postazioni militari lungo la pista Bozeman e, nella seconda metà dell’anno 1866, inviò una colonna guidata del Colonnello Carrington composta da otto compagnie del 18° Reggimento di fanteria, guidate dal famoso esploratore Jim Bridger. A 270 chilometri da Fort Laramie, Carrington distaccò una compagnia a Fort Reno, una postazione rimasta intatta dalla campagna del Generale Connor l’anno precedente. Il 13 luglio, 100 chilometri più a nord di Fort Reno, aveva cominciato la costruzione di un grande forte su uno degli affluenti del Powder, il torrente Little Piney, che dominava la parte centrale della pista Bozeman. Il 3 agosto successivo la palizzata di Fort Phil Kearny era completata e Carrington inviò altre due compagnie al comando del capitano Nathaniel Kinney, 150 chilometri più a nord, sempre sulla pista, per costruire la terza postazione che guardasse la parte più avanzata della pista Bozeman, Fort C. F. Smith.


Fort C. F. Smith visto dall’interno

Gli indiani della regione del Powder appartenevano ad alcune delle maggiori suddivisioni della nazione Teton; in particolare erano presenti quasi tutti gli Oglala, i Minneconjou, i Sicangu, i Sihasapa. Quasi al completo la nazione Cheyenne, con le due suddivisioni di Settentrionali e Meridionali e i Shutai. Presenti anche alcuni Mahpiyato, Nuvole Azzurre, conosciuti dai bianchi come Arapaho. Il villaggio indiano riunito, accampato nelle riparate valli a circa 90 km da Fort Kearny sul fiume Tongue, contava circa 1.000 tende, con una popolazione di 8.000 persone dei quali circa 1.500 guerrieri.
La guerriglia contro i soldati iniziò immediatamente. Nessuno, né soldati, né i trasportatori civili, era al sicuro fuori dalle staccionate e lungo la pista, se non in grosse carovane o schierato con interi reparti. La pista Bozeman risultò cosi di fatto intransitabile. In poche settimane i Teton uccisero più di 150 persone, tra civili e soldati, ferendone 25 e catturarono centinaia di cavalli e muli, distruggendo merci del valore di centinaia di migliaia di dollari.


Pitture di guerra

Alla fine del mese di dicembre del 1866, gli indiani ottennero la loro più bella vittoria. Il giorno 21, durante la Luna degli alberi scoppiettanti per il conto degli inverni dei Lakota, in una memorabile imboscata preparata con meticolosa cura e grande coraggio, circa 1.000 guerrieri appartenenti a tutte le bande riunite nel territorio del fiume Tongue, e guidati dai migliori
capi delle società guerriere, tra i quali Gobba, capo di guerra dei Minneconjou, sterminò un reparto di 79 soldati di fanteria e cavalleria, con due civili, comandato dal Capitano W. Fetterman. A fare da esca per attirare fuori dalle palizzate del forte i soldati, era un piccolo gruppo di guerrieri guidati da Tasunka Witko, Cavallo Pazzo. I soldati, presi in trappola lungo la pista Bozeman, non ebbero nessuna possibilità di scampo, si difesero strenuamente ma furono soverchiati dal numero e da un nugolo di frecce.


Il massacro di Fetterman e dei suoi soldati

Nei mesi che seguirono la battaglia di Fetterman, l’esercito americano iniziò una vasta opera di fortificazione delle postazioni militari esistenti, costruendo nel frattempo anche numerosi altri forti.
A nord, il Generale Terry, comandante del Dipartimento del Missouri, costruì i forti Totten e Ransom, per proteggere il corridoio che portava dal fiume James ai territori del Montana. Queste postazioni si aggiunsero a quelle costruite negli anni precedenti, quali Fort Sisseton posto alle sorgenti del fiume Big Sioux e Fort Abercrombie, situato sul Red River. Più a ovest i militari resero permanenti e rafforzarono ulteriormente le basi già esistenti. Vicino a Fort Union, sul fiume Missouri, i soldati costruirono Fort Buford e a 160 chilometri più a sud, oltre Fort Berthold, costruirono Fort Stevenson. La catena di fortificazioni si spingeva anche lungo il corso meridionale del Missouri, con forti che controllavano il cuore dei territori di stanziamento dei Lakota settentrionali quali i Forti Rice, Randall e Sully. Più a ovest, oltre i territori di caccia del Powder, il Generale Terry ordinò di costruire Fort Shaw e Fort Ellis ponendoli alle imboccature strategiche dei passi che portavano alla grande vallata del Gallatin, nel Montana.


Fort Buford

A sud, il Generale Augur comandante del Dipartimento del Platte, costruì alcuni forti lungo l’itinerario della ferrovia Union Pacific, iniziando dal punto dove questa lasciava la vecchia pista dell’Oregon, per inoltrarsi nelle Montagne Rocciose, a sud del ramo settentrionale del fiume Platte. Sorsero cosi i Forti Sidney, Russell, Sanders e Fred Steele che si aggiunsero alle ormai vecchie postazioni di Laramie, Sedgwick e McPherson. Più a nord i soldati costruirono Fort Fetterman, sul punto dove la pista Bozeman lasciava il Platte per dirigersi a nord verso i territori di caccia del Powder. In totale, i due dipartimenti potevano contare su 23 posti fortificati; circa 5.000 soldati e ufficiali componevano le guarnigioni, inquadrati su 9 reggimenti di fanteria, uno di cavalleria, il 2° Cavalleria, con l’appoggio di un battaglione di esploratori Pawnee.


Il battaglione di Pawnee

A parte il contingente di volontari indiani, il controllo sul territorio di tutti questi reparti fu però molto scarso. Ai reparti disponibili, alcuni dei quali molto al di sotto dell’organico previsto, mancava soprattutto la mobilità, in quanto la maggioranza delle forze a disposizione era composta da fanteria. I soldati erano come ancorati alle loro postazioni e spingersi oltre il raggio di sicurezza, della lunghezza di pochi chilometri, costituiva per loro addirittura un pericolo mortale. L’esercito, nonostante il grande sforzo compiuto, semplicemente non riusciva a garantire la sicurezza delle piste e per tutto il tempo della grande guerra indiana tutto il territorio delle pianure del nord controllato dai Lakota fu zona interdetta a qualsiasi bianco.
Il grande campo indiano del Powder, dopo la grande vittoria su Fetterman, si era frazionato in piccole bande, accampate lungo le valli degli affluenti dello Yellowstone per fronteggiare cosi il durissimo inverno che le attendeva. Una parte di guerrieri però continuò la guerriglia contro i soldati e le postazioni militari e civili, impegnandosi con incursioni e razzie anche contro le tribù nemiche del Missouri e del Montana.
I Lakota del nord, Hunkpapa, Sihasapa, Itazipicola, e Oohenonpa, attaccarono i vaporetti in transito sul Missouri, rubarono cavalli ai soldati dei forti, si gettavano sulle rare carovane di emigranti che si avventuravano sulle piste lungo il fiume. Soprattutto Fort Buford fu sottoposto a un incessante stillicidio di attacchi che impedirono a chiunque fosse bianco il transito sulle strade per l’ovest.


I resti di un vagone della Union Pacific

A sud, lungo la linea del fiume Platte, gli Oglala, i Minneconjou e una parte dei Brulé attaccavano i cantieri e i convogli della ferrovia Union Pacific in costruzione sul Platte, rallentandone notevolmente l’avanzata e costringendo il Generale Augur a impiegare due reggimenti di fanteria e metà del 2° Cavalleria per una scarsa e precaria protezione delle linee. Sulla pista Bozeman la situazione rimaneva di stallo. Circa 900 soldati presidiavano i tre forti posti a difesa di un traffico commerciale ormai inesistente. Gli indiani controllavano completamente il territorio e impedivano a chiunque di transitarlo.
Nell’estate del 1867, tornata finalmente la bella stagione, le tribù che avevano svernato sugli affluenti del Powder si riunirono ancora una volta per preparare la guerra, per distruggere i forti e scacciare definitivamente i soldati dai loro territori di caccia. In luglio, durante la Luna in cui le ciliege diventano rosse, nei cerchi indiani disposti lungo il Fiume dell’erba grassa, il Little Big Horn, si compì la tradizionale Danza del sole, che vide una grande partecipazione di danzatori, di sacerdoti, sciamani e di Heyoka, i buffoni sacri, con il compito di sdrammatizzare i lati più cruenti e impressionati della danza. Compiute tutte le cerimonie religiose, finalmente, alla fine del mese di luglio due grosse spedizioni composte i maggioranza da Oglala, Minneconjou, Brulé, Sans Arc, Cheyenne e Arapaho del nord, partirono in direzione dei forti della pista Bozeman.
Ne nacquero due scontri rimasti epici alla frontiera: uno di essi, la battaglia di Fort Smith rimase praticamente ignorato fino a tempi recenti e di conseguenza è difficile trovarne traccia nella maggior parte delle pubblicazioni. Sarà pertanto oggetto da parte nostra di un’attenzione particolare in quanto molto interessante per alcuni aspetti della guerra tra soldati bianchi e indiani delle pianure.


Scout a rapporto

La prima spedizione era composta da 500 guerrieri e si diresse verso Fort Smith, distante circa 50 km dal campo sull’Erba grassa; l’altra, che contava circa 900 uomini, si avviò lungo la pista di Fort Kearny. Erano presenti la maggior parte dei capi anziani e dei capi combattenti, Nuvola Rossa, Gobba, Ghiaccio degli Cheyenne e naturalmente Cavallo Pazzo, con le società guerriere che guidavano la marcia in maniera rituale e ordinata. Numerose donne avevano seguito la spedizione per incoraggiare i loro uomini durante la battaglia con canti e il tradizionale tremolo. Ad attenderli vi erano 300 soldati del 27° fanteria al comando del colonnello John Smith appostati nelle palizzate di Fort Kearny e 17 ufficiali e 347 soldati sempre del 27° al comando del tenente colonnello Luther Bradley, piazzati dietro le feritoie di Fort Smith. Il numero dei bianchi era inferiore a quello degli indiani, ma nelle ultime settimane i militari avevano sostituito le armi ad avancarica usate sino ad allora, con i nuovi fucili a retrocarica monocolpo Springfield-Allin a cartuccia metallica.
Il grande Nuvola Rossa
Come vedremo più avanti, queste armi davano ai soldati una notevole potenza di fuoco, praticamente invalicabile se affiancate da nervi saldi e munizioni illimitate e da una postazione possibilmente riparata.
Tutto ciò costituì una sgradita sorpresa per i guerrieri. Essi erano abituati a combattere contro soldati che disponevano di armi ad avancarica che potevano sparare al massimo due-tre colpi al minuto. Solitamente, durante una battaglia, i guerrieri si avvicinavano ai soldati quel tanto che induceva questi ultimi a sparare la prima raffica, poi dopo la prima scarica i si lanciavano addosso al nemico per colpirlo da vicino e ucciderlo a colpi di mazza o coltello. Adesso, invece, grazie alla superiore tecnologia dei Mila Hanska, il tempo utile a disposizione per gettarsi all’attacco era tragicamente diminuito sino a scomparire del tutto. Avrebbero potuto vincere il nemico solamente sul campo aperto e in particolari condizioni di supremazia strategica o tattica, soprattutto se fossero stati guidati in maniera abile e diversa dal solito. In poche parole avrebbero dovuto smettere di combattere alla maniera tradizionale, evitando l’assalto per conquistare i colpi rituali e imponendo ai giovani una condotta più disciplinata e meno rischiosa.
Il primo agosto, il gruppo di indiani diretto a Fort Smith, composto in gran parte da Cheyenne Settentrionali e Lakota e da alcuni Arapaho, al comando di Piccolo Lupo, Toro Rotolante e Molti Campi, arrivò nelle vicinanze della postazione usata come base di foraggiamento per i taglialegna e che era situata a poco più di quattro chilometri dal forte principale. La piccola guarnigione era tranquilla e intenta alle solite occupazioni. La sera precedente, alcuni cacciatori Absaroka avevano avvisato i soldati dell’arrivo in zona di un gran numero di odiati nemici Tagliagole, come i Corvi chiamavano i Sioux, ma nessuno aveva dato credito a quella storia.


Guerrieri Crow

Adesso, erano circa le nove del mattino e i guerrieri ardevano dalla voglia di combattere. I capi non avevano preparato nessun piano e nulla fu fatto per attirare i bianchi fuori dal corrall che avevano costruito per difendersi da eventuali scorrerie. Le sentinelle appostate lungo la valle, videro quella gran massa di indiani e galopparono indietro a dare l’allarme. Non vi fu tempo per piazzare gli uomini dietro le piazzole di tiro e i dieci soldati della piccola guarnigione al comando del Tenente Sigismund Sternberg, un prussiano emigrato dall’Europa nel 1862 che aveva partecipato con coraggio alla Guerra Civile, e i nove foraggiatori civili, si sistemarono dietro a una rudimentale palizzata formata da rami e tronchi di salice, sdraiati a terra per non esporsi. A un tratto, a un cenno del comandante, i bianchi iniziarono un intenso fuoco con i loro Springfield a retrocarica. Gli indiani venivano avanti in una solida massa, dipinti con i colori di guerra delle varie Akicita, con i copricapi al vento e i cavalli ornati di code di volpe e piume multicolori.
Il tenente Sternberg incitava gli uomini in piedi, secondo la tattica in uso nelle guerre convenzionali: “In piedi uomini e combattete come soldati”, fu sentito urlare sopra il frastuono. Finita la frase, un colpo di fucile sparato da un tiratore indiano lo prese in testa, uccidendolo sul colpo. Per alcuni attimi, i soldati, privi del loro comandante si demoralizzarono e rallentarono il fuoco, cosa pericolosissima in quanto gli indiani serravano sotto e solamente un continuo fuoco di sbarramento li avrebbe fermati.


Indiani all’attacco

Per fortuna, tra i civili a contratto vi erano i fratelli Al e Zeke Colvin, già entrambi capitani rispettivamente presso l’esercito unionista e confederato. Il più anziano dei due, Al, prese il comando degli uomini e dietro la sua fredda, calma guida, aiutati anche dal suo fucile a ripetizione Henry a 16 colpi, calibro .44, che centrava ogni indiano arrivato a tiro, i soldati si rincuorarono e ripresero a sparare più in fretta che potevano. Suo fratello Zeke colpì un guerriero che tentava di incendiare la barricata con una fiaccola accesa ; il cavallo dell’indiano cadde ucciso al primo colpo, il cavaliere si alzò e corse indietro verso i suoi, ma Zeke lo prese in pieno uccidendolo dopo pochi metri. A un certo punto, Al Colvin urlò facendosi sentire sopra gli spari e il frastuono delle grida e dei nitriti dei cavalli: “Forse non usciremo vivi da qui, ma fate in modo che questo sia un giorno che gli indiani non dimentichino mai, fino a che vi sia uno Sioux vivo sulla faccia della terra!”
Nel frattempo gli indiani, avendo visto il giovane capo dei soldati cadere, come un sol uomo si lanciarono risolutamente in avanti, lanciando i cavalli al galoppo verso gli odiati Mila Hanska e i Vé’ho’e, gli Uomini Ragno, per arrivare al corpo a corpo, ma finirono direttamente in mezzo a una tremenda scarica di fucileria che vuotò parecchie selle. Di fronte a questo fuoco micidiale, i guerrieri si ritirarono e smontati da cavallo cominciarono a sparare e a tirare nugoli di frecce verso la staccionata. In breve tutti i muli e i cavalli dei difensori furono colpiti e alti nitriti di paura e di dolore si levarono dalla polvere e dal fumo che circondava il corrall. Il sergente Norton, ferito gravemente allo stomaco, fu portato nel fragile riparo di una delle tende dentro al recinto. Troppo debole per imbracciare il fucile, ogni volta che gli indiani venivano all’attacco strisciava fuori dalla tenda e si difendeva con il revolver. I guerrieri tentarono di snidare i soldati con il fuoco e incendiarono l’erba secca attorno al corrall. Le fiamme arrivarono a una trentina di metri dalle palizzate e davanti agli occhi terrorizzati dei bianchi si fermarono miracolosamente a pochi metri da loro, esaurendosi in bianche volute di fumo.


Guerrieri che osservano l’attacco pronti a intervenire

A un certo punto gli indiani tentarono un altro attacco frontale e la fucileria dei bianchi riprese intensissima. Un guerriero, con in testa un magnifico copricapo di piume, si lanciò coraggiosamente all’attacco presso l’ingresso sud della palizzata che trovò sbarrato da un pesante carro. Tentò di scavalcare l’ostacolo ma uno dei difensori, presa accuratamente la mira, lo colpi in pieno sbalzandolo di sella. L’indiano fu ucciso all’istante e il suo corpo rotolò all’indietro, fermandosi dentro l’acqua limacciosa del torrente che lambiva quel lato delle difese. Un altro guerriero in sella a un magnifico cavallo dipinto e decorato di due lunghe code di pelliccia che toccavano il suolo, si lanciò alla carica contro i soldati, ma fu ucciso appena arrivò vicino alla staccionata. In quegli attimi disperati gli indiani tentarono la carica decisiva. Un folto gruppo di guerrieri a cavallo si diresse verso la zona sud e si lanciò alla carica guidato da quello che agli occhi dei bianchi sembrava essere il capo. Indossava un bellissimo copricapo di piume multicolori e montava uno scattante cavallo soriano.
Al Colvin, intuendo che il momento diventava cruciale per la sopravvivenza di tutti, si diresse immediatamente da quel lato. I difensori smisero di sparare: avevano capito che il Capitano si apprestava a un tiro di precisione. Colvin si chinò, caricò il suo Henry, prese accuratamente la mira posizionando il mirino alla minima distanza e attese alcuni secondi trattenendo il respiro. Finalmente, sparò e con un colpo solo centrò il guerriero disarcionandolo. Immediatamente dopo, come in un atto liberatorio, i soldati fecero fuoco tutti assieme e il fronte indiano si spezzò in due tronconi defluendo lungo i fianchi della postazione.
Vedendo cadere i loro uomini migliori uno dopo l’altro, il gruppo da combattimento si ritirò, dopo aver cercato di recuperare i propri caduti. Dalle basse colline sovrastanti la pianura, al riparo di alberi e rocce, i guerrieri armati di fucile iniziarono l’assedio e per cercare di bruciare la palizzata tentarono anche l’uso a grandi distanza di frecce incendiarie.


Soldati a difesa del forte

I guerrieri si stendevano a terra, inarcavano i pesanti archi con l’uso delle gambe e lanciavano le frecce. In questo modo un dardo riusciva a superare notevoli distanze, oltre la normale portata limitata del braccio umano. Fu tutto inutile. Il continuo fuoco di sbarramento dei soldati impediva agli indiani di avvicinarsi. Archi, lance, mazze da guerra, fucili antiquati con poca polvere, e il coraggio del corpo a corpo, non valevano nulla contro fucili a retrocarica che colpivano senza gloria anche a 4/500 metri di distanza.
Lentamente, ma inesorabilmente, il vigore dell’attacco si affievolì. I guerrieri erano stanchi, avevano combattuto con valore per ore e dopo una dura cavalcata notturna. La maggior parte degli uomini si ritirò dal combattimento, alcuni limitandosi a sparare un colpo di tanto in tanto, per cercare di colpire qualche avversario imprudente o indurlo a uscire dai ripari. Nel tardo pomeriggio, verso le 17, un gruppo di soccorso uscito tardivamente da Fort Smith, arrivò sul luogo dello scontro e disperse i pochi guerrieri rimasti a colpi di un obice da montagna Modello 1841-12 pounder.
Ai bianchi tutto sommato era andata bene: avevano avuto solamente tre morti, tra i quali il loro giovane comandante e alcuni feriti. I militari si erano comportati discretamente bene sotto il fuoco nemico, a parte due casi che riportiamo in quanto sintomatici delle condizioni di stress e di tensione che comportava il subire un attacco da parte di nemici considerati all’epoca barbari e selvaggi. Durante la battaglia, ricordiamo che iniziò alla nove della mattina e si concluse circa alle cinque del pomeriggio, un soldato sulla palizzata ovest fu preso dal panico e non sparò un colpo per tutta la battaglia, rimanendo come impietrito davanti agli attacchi indiani. Nel pieno dell’assalto indiano un altro soldato, sconvolto dalla paura tentò di suicidarsi, ma fu fermato in tempo dai commilitoni; situazione molto frequenti durante i terribili attimi che costituiscono l’esperienza distruttiva della battaglia.
Questi sono episodi molto frequenti nelle battaglie dell’epoca delle armi da fuoco. Negli eserciti moderni, in occasione di scontri o battaglie, un’alta percentuale dei soldati coinvolti nei conflitti non spara neppure un colpo contro i nemici che avanzano verso di lui, essendo questo un atteggiamento solitamente dovuto alla paura della propria morte o altrimenti alla remora, profondamente cristiana, che ha un uomo nell’uccidere un altra persona, anche se in effetti in questo preciso caso, secondo l’opinione corrente tra i bianchi americani dell’ottocento, la persona è rappresentata da un selvaggio assetato di sangue e considerato privo a volte delle caratteristiche basilari dell’uomo. Sul campo di battaglia, la percentuale di chi non si impegna assolutamente in nessuna azione militare, addirittura anche nello sparare un colpo, può arrivare a volte a interessare il 20-30 % dell’intera forza combattente.


Soldati e scout

La giornata del primo agosto, comunque, fu salva grazie ai nuovi fucili a retrocarica e al coraggio dei due capitani che erano riusciti a tenere in pugno i soldati rimasti senza guida. I guerrieri, ritirandosi, avevano portato via i loro morti e i feriti, tranne il corpo del guerriero caduto vicino al torrente sul lato sud, che fu scalpato e la cui testa, spiccata dal busto fu messa su un palo alzato vicino all’ingresso del corrall. Fu pertanto difficile valutare le perdite degli indiani. Secondo una media ponderata delle fonti disponibili, ammontarono probabilmente a una trentina tra morti e feriti. Furono perdite dolorose, pesanti per il punto di vista indiano, che non dimentichiamolo, considerava fallita una spedizione che aveva avuto anche un solo guerriero ucciso.
Il giorno dopo l’attacco di Fort Smith, il 2 agosto del 1867, il secondo gruppo d’assalto indiano, quello più numeroso, con Cavallo Pazzo, con Gobba come portatore di pipa, e con Ghiaccio e Nuvola Rossa come osservatori anziani, composto in massima parte da Lakota, giunse nelle vicinanze di Fort Kearny. Anche in questo caso non fu predisposta alcuna manovra per fare uscire i soldati dalle postazioni principali. Le attenzioni dei guerrieri più giovani e indisciplinati, probabilmente quelli non inquadrati nelle società militari, si spostarono verso alcuni soldati e civili che si trovavano alcune miglia fuori dal forte per tagliare la legna nella zona boscosa del torrente Little Piney.
Improvvisamente, alcuni giovani si staccarono dal grosso e cercarono di disperdere e catturare la mandria di muli e di cavalli che pascolava vicino al campo dei taglialegna. I soldati che proteggevano i civili, circa 30 uomini della compagnia C, 27° fanteria, al comando del Maggiore James Powell, avvistarono gli indiani e si resero subito conto di non poter raggiungere il forte. Si ripararono dietro alcuni cassoni di carro smontati dalle ruote e disposti in cerchio precedentemente sistemati su ordine del comandante. Una barriera precaria ma efficace, in quanto costituita da solide assi nelle quali il previdente maggiore aveva fatto intagliare delle feritoie per i nuovi fucili Springfield-Allin. Il Maggiore Powell, calmo e deciso ordinò agli uomini: “Stanno arrivando. Prendete posizione e tirate per uccidere”.


Dopo la battaglia

Gli indiani si lanciarono coraggiosamente all’attacco, per la maggior parte a piedi, ma si trovarono immediatamente davanti a un volume di fuoco come mai avevano visto. Alcuni guerrieri caddero colpiti dalle pallottole dei soldati cosi vicino ai carri che non fu possibile nemmeno recuperarne il corpo. I più coraggiosi serrarono sotto proteggendosi con i pesanti scudi di cuoio di bisonte, ma furono immediatamente colpiti I guerrieri tentarono ancora alcune cariche disperate, ma non giunsero mai vicino al cerchio dei carri, respinti come erano dal fuoco intensissimo. Finalmente dopo quattro ore e mezza di battaglia si ritirarono, lasciando cinque cadaveri sul campo, ma riuscendo a portare via la maggior parte dei caduti e dei feriti, assommanti in tutto a circa cento uomini. Nel cerchio dei cassoni di carro i soldati avevano perso un ufficiale, il Tenente Jenness, e cinque soldati.
Nel caso delle guerre contro le nazioni native delle pianure che abbiamo esaminato, perdite cosi gravi per l’attaccante erano assolutamente inconcepibili e anche se i guerrieri indiani a volte singolarmente, come abbiamo visto, si lanciavano in attacchi suicidi per dimostrare il loro coraggio, ciò era estremamente raro e limitato all’iniziativa di singoli guerrieri, mai a un intero gruppo organizzato. La mentalità dello spreco di vite umane per raggiungere un obiettivo sul campo di battaglia, mentalità che portò l’occidente alle carneficine senza senso della Guerra Civile Americana e a quelle immani della Prima Guerra Mondiale, mentalità che possiedono tutte le civiltà militariste, sia di livello tecnologico avanzato che non, come nel caso degli Zulù, era semplicemente assente dal comportamento militare degli indiani delle pianure e i Lakota, assieme i loro preziosi e fedeli alleati Cheyenne e Arapaho, non facevano eccezione.

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