Un mito chiamato Geronimo

A cura di Vittorio Zucconi

Geronimo in un bel quadro
Se “Colui che Sbadiglia” potesse vedere il proprio nome cucito oggi, cento anni dopo la sua morte, sulla manica di un reggimento di parà americani, il 501°, potrebbe sorridere, forse di amarezza e forse di orgoglio.
Proprio lui, “Colui che Sbadiglia” soprannominato Geronimo, l’ultimo dei guerrieri Apache, il più indomito capo delle bande degli indiani del Sud Ovest che cinquemila giubbe blu a cavallo e cinquecento mercenari con artiglieria dovettero inseguire per cinque mesi e per tremila chilometri tra i canyon dell’ Arizona e del Messico prima di catturarlo con appena trentacinque guerrieri superstiti, è divenuto il grido di battaglia dell’ esercito che lo annientò.
“Geronimo”, era l’urlo lanciato dai parà per darsi coraggio quando si lanciavano sulla Normandia, non potendo gridare, o pronunciare, il suo vero nome, “Goyathlay”, colui che sbadiglia, scelto dalla madre quando lo mise al mondo nel canyon di No-dohyon, alle foci del fiume Gila, e notò quanto quel neonato sbadigliasse.
Neppure la mamma, pur donna di una nazione di guerrieri come erano i suoi Bedohonke, una tribù della nazione Apache, che cullava e avvolgeva nelle pelli di lupo quell’infante sonnacchioso, avrebbe potuto immaginare che lui sarebbe divenuto appena sedici anni più tardi, quando fu ammesso nel circolo dei guerrieri, uno di quegli “spartani” del West, di quegli eroi irriducibili e votati al massacro il cui nome avrebbe risuonato per sempre nell’ ammirazione e nel terrore dell’ invasore europeo.
Una famosissima fotografia
Soltanto pochissimi uomini lontani, sparpagliati nell’immensità del continente chei soldati blu implacabilmente conquistavano, dal Nord delle Praterie alle paludi della Florida, dai canyon assetati dell’Arizona alle foreste impenetrabili dei Mohicans, avrebbero raggiunto la statura superstiziosae storica di Geronimo: Toro Seduto e Cavallo Pazzo dei Lakota Sioux, Osceola dei Seminole della Florida, l’unica nazione indiana a non essersi mai arresa, Tecumseh degli Shawnee, uno dei primi martiri dell’invasione, caduto nelle prime “guerre indiane” del 1812, dopo che gli inglesi avevano già ucciso suo padre. Ma anche “Goyathlay” Geronimo, come tutti gli altri eroi della vana resistenza indiana, fu un eroe involontario, un guerriero qualsiasi, come tutti i maschi abili delle tribù diventavano a diciassette anni, convinto di dover dedicare la propria esistenza alla caccia, perché gli Apache, come i Sioux, gli Cheyenne, i Corvi, erano nomadi, dedicati alle reciproche, spesso simboliche schermaglie con le bande vicine, per rubarsi cavalli, per commerciare, per estendere il territorio di caccia, per semplice ambizione e voglia di farsi belli con le donne e gli anziani. Come tutti loro, anche “Colui che Sbadiglia” fu scosso brutalmente dal sogno della tradizione che durava da diecimila anni, da quando i primi di loro avevano raggiunto dall’Asia le terre che oggi sono al confine tra l’Arizona e il Messico, dall’incontro con la ferocia, la ingordigia e la doppiezza di uomini dalla pelle rosea e dagli occhi chiari che non aveva mai visto prima e non capiva che cosa volessero.
Ancora un bel ritratto
La storia delle “guerre indiane”, la saga che anni dopo il cinema avrebbe raccontato per invertire la storia illustrando bande feroci di “pellerossa” accaniti contro inermi carovane circondate a Fort Apache e destinate allo scotennamento senza l’arrivo della cavalleria, è esattamente quello che accadde, ma al contrario. Mentre Cavallo Pazzo nel Grande Nord assisteva al massacro sistematico dei villaggi Lakota e Cheyenne, mentre Tecumseh vedeva il padre e la madre cacciati e abbattuti come selvaggina in quello che oggi è l’ Ohio dai mercenari tedeschi di Lord Dunmore nel 1774, Geronimo si preparava all’ evento che avrebbe cambiato la sua vita, negli anni attorno al 1850. Fu allora che rientrando al proprio villaggio dopo una giornata trascorsa lontano a contrattare commerci e accordi con un altro villaggio, Geronimo trovò la madre, la moglie, i tre figli piccoli massacrati. Erano state le truppe messicane, non i “soldati blu”, a compiere la strage, ma anche i federales messicani erano al servizio del colonialismo bianco. Da quel giorno di disperazione, colui che sbadiglia divenne colui che ruggisce. Si unì a una banda di Apache votati alla resistenza armata contro tutti gli estranei nelle proprie terre, i Chiricauas, e fu guerra senza quartiere, interrotta da trattati solenni che i bianchi ignoravano e tradivano prima che l’inchiostro si seccasse. Per più di trent’anni, giocando al gatto e al topo nel terreno selvaggio e duro dei canyon, dei deserti, della polvere, della sete, a cavallo tra i territori senza frontiera del Messico e degli Stati Uniti, inseguito ora dai federales messicani, ora dai dragoni della cavalleria Usa, Geronimo divenne, prima che un formidabile “bandido”, un implacabile “desesperado” (Jerome, poi divenuto Geronimo, era il nomignolo affibbiatogli dai messicani), un mito destinato a sopravvivere per secoli. Dopo la guerra civile del 1861, Washington gli mandò contro il meglio e il peggio del proprio arsenale, i generali reduci dal massacro dei Lakota Sioux nel Nord, quelli che avevano soppresso le grandi tribù dei cacciatori di bufali senza mai davvero sconfiggerle sul campo, ma soffocandone i territori vitali, pagando e facendo pagare prezzi terribili, al Little Big Horn, con la strage del settimo cavalleria guidato dall’ incosciente Custer.


Geronimo e alcuni suoi guerrieri

Fu il generale Crook, che come colonnello aveva subito una sonora sconfitta da Cavallo Pazzo presso il fiume Rosebud anni prima, a condurre la spedizione punitiva finale. Inseguì Geronimo, ridotto a guidare una miserabile banda di trentacinque guerrieri macilenti accompagnati da centonove vecchi, donne, bambini, per quasi tremila miglia, con un’armata per i tempi imponente, cinquemila soldati regolari, centinaia di ausiliari indiani, pezzi di artiglieriae le prime mitragliatrici Gatling sperimentate vent’ anni prima nella guerra civile. Geronimo fu circondato tra i Monti di Sonora, in Messico, e si arrese. Era il 1886. L’Italia era un regno unificato da venticinque anni, Roma la capitale da ormai sedici, mentre l’Ultimo Apache si arrendeva. Fu chiuso in un campo di concentramento per indiani riottosi. Ne fuggì. Fu di nuovo inseguito e catturato. Lo rinchiusero nel forte militare di Fort Sill, in Oklahoma, ancora oggi sede della scuola di artiglieria dell’ esercito, costretto a fare il contadino, a coltivare un orto, sotto i fucili dei soldati. Addomesticato e vecchio, a settantasei anni, fu trascinato a Washington, nel 1905, per sfilare, come i sovrani barbari nei trionfi imperiali romani, nella parata inaugurale dietro a Theodore Roosevelt, tra gli uh, ah, oh del pubblico che finalmente vedeva, sdentatoe inoffensivo, l’Apache del terrore, il “feroce” Geronimo. Tirò il suo ultimo sbadiglio nel 1909, soffocato dalla polmonite. Eppure, la sua storia non finì con la sepoltura nel cimitero di Fort Sill.
Di ritorno da una razzia
Per un secolo, e ancora due anni or sono, qualcosa di lui è tornato ad agitare la memoria e la cattiva coscienza dei conquistatori bianchi. La sua tomba fu violata. Il suo teschio asportato da Samuel Prescott Bush, studente a Yale e tra i fondatori della società segreta “Teschio e Ossa” in quella università, e trafugato. Samuel Prescott Bush era il padre di George H Bush e il nonno di George W Bush, entrambi membri della società del teschio. Una leggenda, probabilmente, che di tanto in tanto riaffiora, ma che nessuno ha mai confermato o smentito in maniera convincente, perché i miti esisteranno per sempree il nome dell’ultimo spartano arreso allo strapotere del nuovo impero d’occidente non morirà mai. Di lui,e del suo nome, come dei nomi di quelle nazioni guerriere divenute sistemi d’arma nell’ esercito Usa – “Apache” è il nome del più formidabile elicottero militare – si sono ormai appropriati i vincitori. Cucito sulla giubba di chi lo sconfisse.

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