Gli oscar del cinema western – 34

A cura di Domenico Rizzi
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36.


FANTAWESTERN

Dopo “Il Grinta”, il western torna a sperimentare percorsi alternativi, discostandosi a volte dal solco classico quanto basta a fargli perdere ogni credibilità.
“Cowboys & Aliens” riecheggia vagamente l’inizio del romanzo di Edgar Rice Burroughs “Dejah Thoris, Princess of Mars” del 1917, nel quale il cercatore d’oro John Carter, assediato dagli Apache in una grotta, trova scampo sul fondo di un mare prosciugato di Marte, dove dovrà misurarsi con ogni sorta di mostriciattoli e creature strane.
Qui la vicenda “western” – le virgolette sono d’obbligo – diretta sullo schermo da Jon Favreau nel 2011, si svolge sulla Terra, propriamente in una landa desolata dell’Arizona nel 1873. Il soggetto è tratto da un fumetto di Scott Mitchell Rosenberg, editore e produttore cinematografico americano e la dinamica del film ne ha tutte le caratteristiche, inclusa l’assenza di attendibilità. La parte principale del colonnello Woodrow Dolarhyde, è assegnata all’esperto Harrison Ford, quella femminile di Ella Swenson a Olivia Wilde, mentre la sceneggiatura è opera di uno staff di tecnici. La trama, a tratti confusa e disordinata, contiene la presenza di creature extraterrestri, che ad un certo punto invadono in massa la contrada, costringendo gli abitanti ad ingaggiare una furibonda battaglia piena zeppa di effetti speciali, nella quale si smarriscono completamente le componenti del western, per sconfinare in un’opera che sta a metà strada fra il fantasy, l’horror, la fantascienza e la banalità.


Una scena tratta da Cowboys & Aliens

Il pubblico accoglie abbastanza bene la novità, assicurando almeno il recupero delle ingentissime spese di produzione, con un margine di profitto che non va molto oltre i 10 milioni di dollari. Girato negli Studios di Albuquerque, New Mexico, ottiene pareri discordanti dalla critica e non diventerà sicuramente un pezzo da cineteca. Particolare interessante è che inizialmente il tema era stato proposto dai produttori alla Bonelli Editore, come un’avventura di Tex da portare sugli schermi, con una risposta negativa.
La Walt Disney Production si ispira pure ad un fumetto celebre per proporre il rifacimento di “The Lone Ranger”, già tema di vari film precedenti e di una serie televisiva andata in onda fra il 1949 e il 1957 (in Italia con il titolo “Il cavaliere solitario”) una commedia dai risvolti surreali prodotta con un costo esorbitante che supera i 230 milioni di dollari, a stento recuperati con la distribuzione mondiale. Ne sono protagonisti John Reid, il cavaliere solitario (Armie Hammer) l’indiano Tonto (Johnny Depp) il cannibale Butch Cavendish (William Fichtner) Rebecca Reid (Ruth Wilson, cognata di John e sua antica fiamma) Dan Reid (James Badge Dale) ed una schiera di altri attori. Lo svolgimento della trama ha tutte le sembianze del fumetto, fra combattimenti, brutali uccisioni – Cavendish ammazza Dan Reid, fratello di John, strappandogli il cuore – e sparatorie con l’inevitabile lieto fine di simili vicende. La regia è di Gore Verbinski, la sceneggiatura di Ted Elliott, Terry Rossio, Justin Haythe, la fotografia di Bojan Bazelli e le musiche di Hans Zimmer.


The Lone Ranger

Benchè duramente attaccato dalla critica, il film ottiene 2 candidature all’Oscar (migliori effetti speciali e miglior trucco) e ben 4 nomination al Razzie Award quale peggior film, peggior regista, peggior attore protagonista e peggior sceneggiatura. Conquista il “premio” quale peggior remake!

SPARI, CRUDELTÀ E VENDETTE

Nel terzo millennio si mette in evidenza come regista anche di film western Quentin Tarantino, classe 1963, nativo di Knoxville, Tennessee, con lontane origini italiane. Grande estimatore di Sergio Leone, soprattutto per “Il buono, il brutto, il cattivo”, nonché di Martin Scorsese, Howard Hawks e John Sturges, allorchè si accinge a dirigere “Django Unchained” nel 2012 ha già all’attivo 8 film, fra cui “Bastardi senza gloria”, una cruda pagina di guerra del secondo conflitto mondiale.
Il film narra di un medico tedesco, King Schultz (attore Cristoph Waltz, già premio Oscar quale miglior attore protagonista nel precedente film di Tarantino) che acquista ed ingaggia lo schiavo Django Freeman (Jamie Foxx) per vendicarsi di alcuni fuorilegge.


Django Unchained

Dopo essere entrato in amicizia con l’ex schiavo ed averne riconosciuto le notevole abilità nell’uso delle armi da fuoco, gli promette di aiutarlo a ritrovare la moglie Bromhilda (Kerry Washington) dalla quale è stato forzatamente separato alla piantagione quando la donna è stata venduta a Calvin Candie (Leonardo di Caprio) un proprietario terriero dalle maniere brutali di Candyland, nel Mississippi. Fallito il tentativo di farsi cedere Bromhilda dietro pagamento di un lauto compenso, la parola passa alle armi, Candie e Schultz vengono uccisi insieme ad altri uomini e Django avviato in catene verso una miniera di carbone, dove prevedibilmente troverà la morte. Invece si libera con un trucco, torna a Candyland, distrugge la residenza di Candie a colpi di dinamite, elimina un buon numero di avversari e se ne va insieme alla moglie liberata. Sceneggiato dallo stesso Tarantino, ideatore del soggetto, con la scenografia di J. Michael Riva e la fotografia di Robert Richardson, ha una durata di quasi 3 ore e non risparmia sequenze di crudeltà e sadismo.
Il costo elevato di 100 milioni di dollari è ampiamente compensato dalla risposta del pubblico, che frutta un incasso quattro volte superiore, dei quali 125 milioni in sole tre settimane. Anche i riconoscimenti arrivano quasi a pioggia, perché “Django Unchained” si procura 2 Oscar (Cristoph Waltz miglior attore non protagonista e Tarantino miglior sceneggiatura originale) oltre a 3 candidature per il miglior film, miglior fotografia e miglior montaggio sonoro (Wyllie Stateman). Delle 5 nomination al Golden Globe, se ne aggiudica 2 (Cristoph Waltz e Tarantino) mentre il David di Donatello gli viene assegnato quale miglior film straniero. Anche all’italiano Franco Nero, protagonista del primo “Django” della storia, viene affidata una parte minore, quasi a voler stabilire una continuità – che in realtà non c’è – fra la nuova vicenda e il western diretto da Corbucci nel 1966.
Ormai sembra che il western si sia incanalato su un sentiero che ripercorre il solco del cruento filone italiano, tenendo conto delle esigenze dettate dal revisionismo e staccandosi nettamente dal genere tradizionale, di cui non rimane quasi più traccia nelle nuove produzioni. Del resto, la risposta del pubblico manifesta apertamente tale preferenza, accostandosi più volentieri alle trame basate sull’azione, le sparatorie e gli ammazzamenti in serie.


Meek’s Cutoff

A riprova di ciò, i più recenti esperimenti di ridare fiato al western classico hanno dimostrato un diffuso disinteresse delle platee, come è avvenuto per ”Meek’s Cutoff”, un film che racconta le peripezie di una piccola carovana in marcia verso il West, diretto dalla brava Kelly Reichardt nel 2011, sceneggiato dallo scrittore Jonathan Raymond, con la fotografia di Chris Blauvelt e l’impalpabile colonna sonora di Jeff Grace. Per gli amanti del genere più vicino alle origini, un ottimo lavoro recitato quasi in sordina – interpreti Michelle Williams, Bruce Greenwood e Rod Rondeaux – che mette in risalto le qualità umane di un indiano Cayuse (Rondeaux) nel soccorrere la spedizione smarritasi per avere seguito la “scorciatoia” suggerita da Stephen Meek (Greenwood) evidente allusione al destino storico della carovana Donner. Il personaggio chiave della storia è però una donna, Emily Tetherow (Williams) che diventa la principale interlocutrice del Pellerossa, inducendolo a condurre gli emigranti verso la salvezza.
Costato appena 2 milioni di dollari, ottiene una resa commerciale molto modesta, insufficiente a compensare la somma investita, ma pur nella sua semplicità può essere considerato un piccolo scorcio di autentico West.
Purtroppo, come si è spiegato, fors’anche perché molto lento nel suo svolgimento, non riscuote il giusto gradimento dello spettatore, meglio disposto verso i film d’azione.

THE REVENANT, IL TRIONFO

Hugh Glass, personaggio marginale della storia del West e sicuramente meno importante di Jim Bridger o Kit Carson, ha interessato le cronache soprattutto per il suo rocambolesco salvataggio in una situazione disperata, dopo che i compagni, avendolo dato per spacciato, lo abbandonarono senza lasciargli neppure un’arma per difendersi.
Nato a Philadelphia, Pennsylvania, nel 1783, era stato marinaio fino al giorno in cui cadde prigioniero dei pirati di Jean Pierre Lafitte, ai quali aveva accettato di unirsi per poi fuggire alla prima occasione in Louisiana. Successivamente, catturato dagli indiani Pawnee, diventò membro della loro tribù e ne sposò una squaw, trasferendosi a Saint Louis.


The Revenant

A quell’epoca aveva già 38 anni. L’anno seguente firmò l’ingaggio come trapper per la compagnia delle pellicce di Andrew Henry e William Ashley che era diretta alle Montagne Rocciose. L’impresa fu tutt’altro che semplice e nel 1822 i cacciatori dovettero sostenere un durissimo combattimento con gli Arikara, perdendo 14 uomini: Glass ne uscì con una ferita ad una gamba, ma ciò non gli impedì di proseguire la sua missione.
Proprio nel corso di una spedizione, nel settembre 1823, fu assalito e ridotto in fin di vita da un orso grizzly. Ritenendo che il malcapitato non avesse alcuna probabilità di sopravvivenza, il capitano Henry lasciò John S. Fitzgerald e Jim Bidger a vegliarlo, ordinando loro di dargli sepoltura non appena fosse spirato. I due trapper, trascorse alcune ore, concordarono di abbandonarlo e se andarono, portandosi via anche il suo fucile. Ciò che Glass riuscì a fare dopo l’abbandono ha dell’incredibile e non ebbe altri testimoni che lui stesso. Il cacciatore, ripresosi quanto bastava a trascinarsi sul terreno, dapprima a forza di braccia o poi con l’ausilio di una rudimentale gruccia, percorse infatti 320 chilometri, fino a raggiungere Fort Kiowa, sul fiume Missouri. Con grande magnanimità, una volta rintracciati i 2 uomini che lo avevano piantato in asso, li perdonò entrambi. Hugh Glass sarebbe stato ucciso nel 1833, insieme a due compagni, lungo il fiume Bighorn del Wyoming, da una banda di Arikara, all’età di 50 anni. Fin qui la sua storia vera.


Una scena del film

Il cinema si era ispirato alla vicenda con “Uomo bianco va col tuo dio!” (“Man in the Wilderness”) diretto da John Huston nel 1971 e interpretato da Richard Harris, che nella pellicola assume il nome di fantasia di Zachary Bass. Nel 2015 il regista messicano Alejandro González Iñárritu ci riprova, questa volta con un impiego di mezzi poderoso, tanto che le spese di produzione lievitano fino a 135 milioni di dollari. La parte di protagonista viene assegnata a Leonardo Di Caprio, attore celeberrimo e versatile che insegue da anni il miraggio dell’Oscar, dopo avere avuto ben 6 nomination in pellicole precedenti e un Razzie Award per la peggior interpretazione nel film “La maschera di ferro”.
La vicenda descritta nel nuovo film, intitolato “The Revenant” (“Il redivivo”) prodotto dalla 20th Century Fox e sceneggiato dallo stesso Iñárritu insieme a Mark L. Smith, segue, pur con qualche libertà, quella realmente vissuta da Glass, arricchendola di battute e situazioni che le conferiscono, oltre ad una buona credibilità, una veste decisamente originale e suggestiva, sostenuta dall’ottima fotografia di Emmanuel Lubezki, sapientemente valorizzata dalla scenografia di Jack Fisk. L’ambientazione sceglie appropriatamente la natura incontaminata di varie regioni, dal Canada fino all’Argentina, nella Terra del Fuoco; i costumi di Jacqueline West sono aderenti al periodo in cui si svolge l’episodio, il 1823.

Il risultato dal punto di vista commerciale è, secondo le previsioni, uno dei migliori della storia del cinema: oltre 530 milioni di dollari in pochi mesi. La critica è quasi tutta favorevole, con 12 candidature all’Oscar, 5 al Golden Globe e 8 al BAFTA. “The Revenant” vince 3 Academy Award, rispettivamente per la miglior regia di Iñárritu, il miglior attore protagonista Di Caprio e la miglior fotografia di Lubezki. Anche i Golden Globe sono 3 (miglior film drammatico, miglior regista e miglior attore protagonista in un film drammatico) mentre i premi BAFTA sono 5 (miglior film, miglior regista, miglior attore protagonista, miglior fotografia e miglior sonoro allo staff composto da Lon Bender, Chris Duesterdiek, Martin Hernandez, Frank A. Montaño, Jon Taylor, Randy Thom).
Questa volta si può parlare veramente di un ritorno alla grande del western, con un episodio che attinge alle cronache dei primi anni della Frontiera selvaggia. Un’altra considerazione è che finalmente un film biografico sia stato coronato dal pieno successo di pubblico e di critica, com’era avvenuto raramente nel corso della lunga storia del genere.
Subito dopo, però, il western ritorna su binari che odorano di spaghetti western, seppure con molti risvolti psicologici e situazioni che lo avvicinano sempre più al thriller.

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