Gli oscar del cinema western – 30

A cura di Domenico Rizzi
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UN TUFFO NEL PASSATO

Mentre Costner si sta ancora godendo i suoi trionfi, qualcuno pensa che il western debba fare qualche passo indietro, tornando agli albori della Frontiera, quando il West vero e proprio – quello che si estende oltre la linea del Missouri-Mississippi – era ancora da scoprire e gli Europei (Francia e Inghilterra) cominciavano a prendere possesso, sulla scia dei conquistadores spagnoli, delle terre del Nuovo Mondo.
Nel 1991 l’australiano Bruce Beresford dirige “Manto Nero” (titolo del libro originale “Black Robe”, in Italia “Fuochi morenti”) dal romanzo del nordirlandese Brian Moore (1921-1999) ambientato nelle foreste canadesi. L’epoca è il 1634, il protagonista principale è padre Laforgue (Lotaire Bluteau) un missionario gesuita con il compito di cristianizzare gli Indiani, inviato da Samuel de Champlain (Jean Brousseau) alla ricerca di una missione cattolica nel paese degli Uroni. L’impresa si rivela ardua, a causa della diffidenza di alcune tribù come i Montagnais e dell’ostilità di altre soprattutto irochesi. Infatti i Mohawk attaccano la spedizione, uccidendo una donna e catturando vari prigionieri. Al pericolo di scontri armati, si aggiunge per Leforgue il cruccio creato dalle intemperanze del giovane ed esuberante Daniel (Aden Young) assistente e futuro “Manto Nero” – così venivano chiamati i preti cattolici dai selvaggi – attratto dalle grazie delle lascive ragazze pellirosse.


Una scena tratta da “Manto Nero”

La giovane Annuka (Sandrine Holt) innamorata dell’aspirante sacerdote, seduce il suo carceriere accettando di far l’amore con lui, poi lo tramortisce e riesce a liberare i propri compagni, fuggendo nella foresta. Quando Laforgue riuscirà a raggiungere la missione cattolica costruita nel paese degli Uroni, scoprirà che nell’area si è diffuso il vaiolo, che sta mietendo molte vittime: battezzerà i moribondi, cercando poi inutilmente di convertire anche l’esploratore Chomina (August Schellemberg) padre di Annuka. Dopo un teso confronto con il missionario, gli Uroni accetteranno di diventare cristiani, ma 15 anni più tardi la loro colonia verrà annientata da un attacco dei Mohawk e la missione rasa al suolo.
“Manto Nero” è un film aspro, realista e amaro, che riflette adeguatamente le cupe atmosfere del romanzo di Moore, nel quale sono quasi sempre le zone d’ombra a prevalere. E’ l’America coloniale della prima conquista dei Bianchi, alle prese con tribù tanto diffidenti verso gli Europei quanto ostili fra loro, fino al punto di distruggersi senza pietà con le armi quando non lo fanno le malattie trasmesse loro dai Bianchi. A differenza di Michael Blake (“Balla Coi Lupi”) lo scrittore irlandese fa del revisionismo al contrario, mostrando tutta la ingiustificabile barbarie dei Pellirosse, la licenziosità delle loro donne costantemente affamate di sesso e la crudeltà degli uomini, capaci di uccidere per gioco anche i bambini catturati alle tribù avversarie (usanza che, peraltro, trova moltissimi riscontri storici nelle opere pubblicate sulla Frontiera): “…un uomo alto, con la testa tinta di rosso, gli occhi con due orridi cerchi gialli…si avvicinò al figlioletto di Chomina, lo acciuffò per i capelli e, con un gesto indifferente, come se uccidesse un pollo, gli tagliò la gola con un colpo solo…Poi, con orrore Laforgue vide fare a pezzi il bimbo con le asce e buttare dentro ai pentoloni, a cuocere, le sue membra sanguinanti.”


Un’altra scena di “Manto Nero”

Alla fine, i selvaggi prendono dalla pignatta le carni dello sfortunato bimbo “non del tutto bollite” distribuendole ai guerrieri perché se ne cibino. (Brian Moore, “Fuochi Morenti”, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1999, pp. 155-56). Scene agghiaccianti come quella descritta si ripetono in tutta la narrazione.
Il regista Beresford sembra mantenersi in bilico fra l’ammirazione del missionario per il suo nobile scopo e quella verso gli Indiani che rifiutano di essere catechizzati, vedendo in ciò una subdola violenza alla loro cultura tradizionale.
I premi non mancano da parte del Canada e dell’Australia, soprattutto il Genie Award, un riconoscimento per il miglior lavoro televisivo e il miglior regista canadesi; altrettanto apprezzati la fotografia di Peter James e la sceneggiatura adattata da Brian Moore, mentre la colonna sonora di Georges Delerue si ferma alla nomination.
Scarsa è invece l’attenzione dimostrata dal pubblico delle sale, perché l’incasso di 8 milioni di dollari è inferiore di quasi 3 alla spesa sostenuta.

Il film rimane in ogni caso come un prezioso scorcio di un’epoca, raramente presa in esame dal genere western, realizzato con scrupolo, profondità e attendibilità storica.

L’ULTIMO DEI MOHICANI

Le escursioni nel periodo anteriore alla nascita degli Stati Uniti non si esauriscono con “Manto Nero”.
Infatti il 1992 si può considerare un anno di grazia anche per un altro film che riesce a spopolare, sebbene con una risonanza un po’ minore rispetto a “Unforgiven”, questa volta con uno fra i più classici soggetti letterari ambientati sulla Vecchia Frontiera. Infatti si tratta di un nuovo remake de “L’ultimo dei Mohicani”, tratto dal celebre romanzo di James Fenimore Cooper.


L’ultimo dei Mohicani

Le edizioni cinematografiche dell’opera letteraria sono state diverse e risalgono all’epoca del muto. La primissima risale al 1909 (“Leather Stocking”, di David W. Griffith) seguita nel 1911 da una produzione della Powers Picture Plays diretta da Theodore Marston, che aveva fra gli interpreti il futuro regista James Cruze nella parte di Uncas. Nel 1920, Maurice Tourneur e Clarence Brown assumono la regia di una seconda edizione del film, interpretato da Harry Lorrraine (Occhio di Falco) Alan Roscoe (Uncas) Henry Woodward (maggiore Duncan Heyward) Barbara Bedford (Cora Munro) Lilian Hall (Alice Munro) Wallace Beery (Magua). In un’epoca in cui l’Academy Award non è stato ancora istituito, il film viene definito “culturalmente significativo” dalla Biblioteca del Congresso. Il commento di diversi critici è altamente positivo riguardo al lavoro di Tourneur e Brown della Associated Producers: “Questo film è da citare, anche se non si tratta di un vero e proprio western… per lo splendore pittorico che ne fanno una delle opere più rappresentative del cinema muto… La magnifica fotografia degli straordinari ambienti naturali rimase unica nel periodo… Gli effetti di chiaroscuro a più piani di ‘L’ultimo dei Mohicani’ sarebbero in seguito diventati caratteristici dei migliori lavori di John Ford: è indubbio che Ford sia stato influenzato da questo film.” (Charles Silver, “I film western”, Milano Libri Edizioni, 1980, p. 27).
La vicenda viene replicata in un serial del 1932, ma è nel 1936 che il regista George Brackett Size ne dirige un’ulteriore importante versione di 91 minuti, ingaggiando Randolph Scott per il ruolo di Occhio di Falco (Natty Boompo) Philip Reed (Uncas) Bruce Cabot (Magua) Henry Wilcoxon (maggiore Heyward) Binnie Barnes e Heather Angel nelle rispettive parti delle sorelle Alice e Cora Munro. Dunque, l’opera di Cooper, scritta nel 1826, rimane indiscutibilmente di grande valore nel tempo.


I prigionieri di Magua

Attraverso le varie edizioni cinematografiche, ciascuna delle quali ha apportato anche sensibili modifiche al romanzo, la sua importanza resta immutata, anche perché contiene l’episodio storico del massacro di Fort William Henry, un avamposto inglese ubicato sul Lago George (attuale Stato di New York) che, dopo la resa ai Francesi del marchese di Montcalm, subì la barbara rappresaglia degli Indiani francofoni (Ottawa, Ojibwa, Pottawatomie, Abenaki e Uroni). Violando deliberatamente la promessa fatta da Montcalm agli Inglesi se si fossero arresi, essi assalirono proditoriamente la colonna britannica del tenente colonnello George Munro in marcia nella foresta, facendo una strage indiscriminata. Dei 2.500 uomini della guarnigione, alla fine 308 risultarono morti – caduti in combattimento durante l’assedio o in conseguenza dell’ultimo attacco indiano – e quasi 1.700 furono i dispersi. Le persone catturate dai Pellirosse superarono le 300 e fra esse vi furono anche donne violentate e ridotte in schiavitù come sempre accadeva in simili frangenti. Cooper descrisse efficacemente la scena in un passo del suo libro: “La morte era dovunque, nei suoi aspetti più terrificanti e disgustosi. La resistenza serviva soltanto ad infiammare l’animo degli Indiani, che infierivano con colpi furiosi, anche dopo che le vittime erano ormai fatte a pezzi e avevano cessato di vivere…” (James F. Cooper, “L’ultimo dei Mohicani”, E. Elle, Trieste, 1993, p. 229).
Michael Mann, che è anche produttore insieme a Hunt Lowry, imposta il suo remake su canoni decisamente inconsueti, dando grande risalto alla spettacolarità dell’azione – i combattimenti nella foresta, il bombardamento francese del forte, l’inseguimento di Magua, che ha rapito Cora Munro, da parte di Natty Boomppo, Uncas e suo padre Chingachgook, l’atroce supplizio a cui gli Uroni destinano il maggiore Heyward – come pure alle scene di intimità fra Alice e il cacciatore bianco. Le sequenze di maggiore intensità emotiva, sceneggiate da Cristopher Crowe e dallo stesso Mann, sono sostenute da un commento musicale di Trevor Jones e Randy Edelman che riesce a far accapponare la pelle: è attinto dal motivo “The Gael” del compositore e cantante scozzese Dougie McLean.


La famosissima scena finale

Daniel Day-Lewis è il protagonista principale, nella parte di Boomppo-Lungo Fucile, altrove chiamato anche Occhio di Falco o Cacciatore di Cervi; Eric Schweigg impersona il giovane Uncas e il noto Russell Means suo padre Chingachgook, mentre un altro attore nativo, Wes Studi, assume il ruolo dell’infido Magua e Steven Waddington quello del maggiore Duncan Heyward. La scenografia è di Wolf Kroeger e i costumi dell’abile scelta di Elsa Zamparelli. Girato prevalentemente nelle Blue Ridge Mountains della North Carolina, il film richiede un impegno di spesa di 40 milioni di dollari che gli scettici giudicano imprudente, ma la resa commerciale li smentirà ampiamente, totalizzando oltre 75 milioni nel solo Nord America.
Le differenze sia rispetto al romanzo cooperiano che ai film precedenti sullo stesso tema sono notevoli. Mann cambia radicalmente anche il finale, facendo sì perire Uncas, come nelle pagine del libro, per mano di Magua, ma quest’ultimo muore in un accanito duello contro Chingachgook, abbattuto da una mazza di guerra. Com’è noto, nel libro l’Urone viene invece ucciso dalla carabina di Occhio di Falco mentre cerca di arrampicarsi su una parete rocciosa, e Cora – suicida in un burrone nel nuovo film per evitare di concedersi a Magua – nel romanzo viene uccisa a coltellate da un guerriero urone. A differenza dell’opera di Cooper, nella versione cinematografica di Mann perisce – eroicamente, per essersi offerto spontaneamente al sacrificio al posto di Alice Munro – anche il maggiore Heyward, ucciso da una fucilata di Occhio di Falco mentre gli Uroni lo stanno bruciando vivo legato al palo della tortura.

La critica accoglie con molto favore il film di Mann: l’impressione maggiore è stata suscitata dalla musica, mentre il “Washington Post” ha elogiato la “spettacolarità dell’ambientazione”. Il premio Oscar gli viene tributato nel 1993 per il miglior sonoro, curato da Doug Hemphill, Mark Smith e Simon Kaye; una nomination al Golden Globe la ottiene per la miglior colonna sonora a Trevor Jones e Randy Edelman; addirittura 7 sono le designazioni al BAFTA, delle quali 2 premiate (miglior fotografia a Dante Spinotti; miglior trucco a Peter Robb-King).

DALL’O.K. CORRAL A GERONIMO

Il momento sembra più che favorevole al rilancio sul mercato di nuovi western. Ci pensano il cinquantenne George Pan Cosmatos – fiorentino di nascita da genitori greci, regista di “Rappresaglia”, “Cassandra Crossing” e “Rambo II. La vendetta” – con la sua riedizione della sfida all’O.K. Corral, dal significativo titolo di “Tombstone”, ultimato nel 1993, e il noto Walter Hill, che, attingendo a modo suo dalle memorie del tenente Britton Davis (“The Truth about Geronimo”) imbastisce una romantica conclusione della resistenza del più famoso fra i condottieri apache.
Partendo da “Tombstone”, è, come si è detto, una riedizione, ma questa volta con un maggiore rispetto delle fonti storiche. Il film offre un ritratto verosimile della cittadina dell’Arizona fondata nel 1877 dal cercatore Ed Schieffelin, senza trascurare nessuno dei personaggi che la resero popolare in tutto il West. Wyatt Earp è impersonato da un baffuto Kurt Russell, Doc Holliday è il fin troppo affascinante Val Kilmer, Powers Boothe un crudele Curly Bill Brocius, Michael Biehn il pistolero psicopatico Johnny Ringo, Stephen Lang il pavido e sbruffone Ike Clanton. Il cast è molto ricco e comprende quasi tutti i personaggi che ebbero a che fare con la famosa faida culminata nella sparatoria dell’O.K. Corral, da Virgil Earp (Sam Elliott) il fratello Morgan (Bill Paxton) Billy Clanton (Thomas Haden Church) l’ambiguo sceriffo di contea Johnny Behan (Jon Tenney) il sindaco John Clum (Terry O’Quinn) ad una schiera di donne che nei precedenti film sull’argomento non figuravano nemmeno: Josephine Sarah Marcus (Dana Delany) futura sposa di Wyatt, la precedente compagna di Earp, Mattie Blaylock (Dana Wheeler- Nicholson) e le mogli dei fratelli dell’implacabile giustiziere, interpretate da attrici meno note.


Tombstone

Per chi aveva ancora negli occhi le scene di “Sfida infernale” di Ford o di “Sfida all’O.K. Corral” di Sturges, si tratta di una novità assoluta: Cosmatos, pur con alcune modifiche apportate alla vicenda reale (sceneggiatura di Kevin Jarre, autore del soggetto; scenografia di Katherine Hardwicke) intende attenersi il più possibile alla storia. Infatti la sparatoria nei pressi del recinto dei cavalli si conclude in una trentina di secondi, lasciando sul terreno 3 morti – i fratelli Mc Lowery e Billy Clanton – come raccontano le cronache. Bellissima la fotografia di William A. Fraker, buona la colonna sonora di Bruce Broughton. A parte la trovata delle fasce rosse indossate dai componenti della banda Clanton-Mc Lowery e qualche bravata di troppo compiuta da ambo i contendenti in un saloon – memorabile il confronto fra Holliday e Ringo, che si sfidano anche recitando battute in latino – il copione segue le vicende narrate dal “Tombstone Epitaph” e dal suo rivale “The Nugget”, i due maggiori giornali della cittadina. Non è neppure da escludersi che l’uccisione di Johnny Ringo, nella realtà trovato morto con un colpo di pistola al capo, sia avvenuta per mano di Holliday, come racconta Josephine Marcus nel suo libro di memorie, peraltro contestato da alcuni storici accreditati. Certamente la dinamica è opera del regista, che ha inteso rendere più plateale l’eliminazione del fuorilegge da parte del dentista tisico in un duello alla pistola.
La figura di Wyatt Earp (Russell) giganteggia ovviamente su tutti, ma Holliday tiene perfettamente il passo con il protagonista principale. Le donne acquistano finalmente un ruolo di maggior peso rispetto ai film precedenti sull’O.K. Corral – nei quali comparivano solo personaggi di fantasia – sebbene non riescano ad avere voce in capitolo nelle decisioni più importanti degli Earp, fermamente convinti che “gli unici legami importanti siano quelli di sangue”, come ha insegnato loro il padre Nicholas.

Bellissima la fotografia di William A. Fraker, che sfrutta sapientemente l’aridità del paesaggio desertico e l’abbondanza di colore nelle scene di massa. Se il film non è destinatario di alcun premio, realizza tuttavia un incasso di tutto rispetto, con oltre 56 milioni di dollari rispetto ai 25 sborsati.
Per gli appassionati del vero West, un lavoro spettacolare e appagante, che riconduce la vicenda dell’O.K. Corral sui suoi giusti binari, ma qualche critico – troppo innamorato dei duelli fasulli ormai in auge grazie allo spaghetti western – non accetta che la sparatoria decisiva si svolga in una manciata di secondi, dimenticando che il West, oltre alle imprese leggendarie e ai miti inventati dal cinema, ebbe anche una storia ufficiale che non si può ignorare.
Meno fortunato il nuovo tentativo di Walter Hill – regista di “I cavalieri dalle ombre lunghe” – di accostarsi all’epopea delle guerre indiane con un film incentrato sulle ultime fasi della lotta di Geronimo contro le truppe del generale Crook, prima di arrendersi al generale Nelson Miles. La trama di “Geronimo. An American Legend” (in Italia semplicemente “Geronimo”) è attinta da un soggetto di John Milius, da cui lo scrittore Robert J. Conley ricava in seguito il romanzo omonimo nel 1994.


Geronimo, an american legend

La storia è improntata al revisionismo più classico, anche a costo di falsare personaggi ed avvenimenti. Geronimo è interpretato da un vero Pellerossa, quel Wes Studi di etnia cherokee, che impersona il cattivo Magua ne “L’ultimo dei Mohicani” di Mann, ma non è la prima volta che sia un Indiano a recitare questa parte. Sebbene in qualche film precedente il ruolo sia stato affidato ad un Bianco (“Geronimo!” diretto da Arnold Laven nel 1962, che vedeva Chuck Connors nei panni del guerriero apache) in “Ombre rosse” la parte del condottiero, molto marginale, era sostenuta da Chief White Horse, un attore nativo, così come in “Geronimo” (Paul Sloane, 1939) dove il ribelle apache era recitato dal cherokee Chief Thundercloud. Il cast è nutrito e qualificato, con Gene Hackman nella parte del generale George Crook, Robert Duvall (scout Al Sieber) Matt Damon (sottotenente Britton Davis) Jason Patric (tenente Charles Gatewood) Steve Reevis (scout Chato) Kevin Tilghe (generale Nelson Miles). La fotografia è di Lloyd Ahearn II, le musiche del prestigioso Ry Cooder. Girato a Moab (Utah) Tucson (Arizona) e Culver City (California) presenta un’ottima ambientazione e una recitazione tutto sommato convincente, benché la realtà storica appaia piuttosto alterata, con l’intento di perorare la causa dei nativi (Apache) contro l’invadenza degli “Occhi Bianchi” (Americani). Ciò lo spinge spesso ad assumere toni patetici, enfatizzando la figura di Geronimo assai più di quanto non racconti Britton Davis nel suo libro di memorie.
Il patetico finale contiene un fondo di verità storica, laddove Geronimo esorta tardivamente i suoi seguaci ad essere uniti: “I Chiricahua sono rimasti così in pochi…Non dovrebbero odiarsi fra di loro.” (Robert J. Conley, “Geronimo. Una leggenda americana”, Interno Giallo Mondadori, Milano, 1994, p. 158). Infatti, il legame fra le varie suddivisioni tribali di ceppo apache era sempre stato debole e la solidarietà alquanto episodica, come testimoniano diverse fonti storiche.

L’insuccesso commerciale del film (meno di 19 milioni di dollari incassati a fronte di una spesa di 35) non dipende sicuramente dall’impostazione del film, né dai toni assunti dalla narrazione, che debordano spesso nella retorica. Nel 1993, anno di uscita di “Geronimo”, il timore è che il pubblico – che aveva salutato in maniera entusiastica il ritorno del western nelle sale – sia già sufficientemente appagato dai film di Costner, Eastwood e Anthony Mann. Comunque l’opera di Hill ottiene una nomination per il miglior sonoro, curato da Chris Carpenter, Doug Hemphill, Bill W. Benton e Lee Orloff, senza conseguire l’Oscar. Neppure la stampa in genere si mostra troppo favorevole al progetto e soltanto il “The Observer” di Londra lo definisce, forse un po’ provocatoriamente, “uno dei migliori western di tutti i tempi”.

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