Gli oscar del cinema western – 29

A cura di Domenico Rizzi
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KANGAROO WESTERN

La stampa e la critica cinematografica considerarono “Quigley Down Under” (in Italia “Carabina Quigley”) quasi come una risposta al successo di Costner e non è da escludersi che il film avesse segretamente proprio tale finalità. Per amore di verità, va invece precisato che il lavoro diretto da Simon Wincer, prodotto nel medesimo anno dalla Metro Goldwyn Mayer e sceneggiato da John Hill, aveva un retroscena che partiva da lontano. Infatti, negli intenti della produzione, avrebbe dovuto essere il proseguimento de “Il cacciatore di taglie” diretto da Buzz Kulik nel 1980 ed interpretato da Steve Mc Queen, morto proprio il 7 novembre di quell’anno appena cinquantenne.
Basato su un soggetto di John Hill, “Carabina Quigley” ha come protagonista un cowboy nordamericano – Mathew Quigley, interpretato dal bravo Tom Selleck, soprannominato “Carabina” perché usa soltanto il fucile – un esperto tiratore che il latifondista australiano Elliott Marston ingaggia per proteggere le sue proprietà dalle continue incursioni degli Aborigeni. Siamo nel 1880, l’Australia è un continente in via di colonizzazione e presenta molte analogie con il West americano, della cui storia il razzista Marston si dice profondo conoscitore, tirando spesso in ballo le prodezze di Wild Bill Hickok e la turbolenta vita di Dodge City, nel Kansas.


Carabina Quigley

Non appena raggiunta la sua destinazione, dopo avere viaggiato insieme ad una sua connazionale di nome “Crazy” Cora (Laura San Giacomo, italo-americana nata a Hoboken, New Jersey, come Frank Sinatra) che il marito ha scacciato di casa per avere fatto morire accidentalmente il figlioletto, Quigley, offre subito un saggio della sua abilità con il fucile, uno Sharps Buffalo Rifle 1874 modificato, con la canna più lunga di 10 centimetri rispetto al modello di serie. Ciò che Marston non aveva calcolato è il senso umanitario del tiratore nei confronti degli indigeni che dovrebbe sterminare, per cui l’alleanza fra i due finisce in una scazzottata e da quel momento Quigley si trova ad essere braccato – anche dall’esercito britannico, comandato dal maggiore Ashley-Pitt (Chris Haywood) in combutta con il proprietario terriero – insieme alla sua giovane compagna, con la quale instaurerà presto un rapporto sentimentale.
Il film non manca di stupendi scenari delle pianure australiane (fotografia di David Eggby, scenografia di Roger Cowland e Ken Phelan) combattimenti fra Aborigeni e sicari di Marston e rocambolesche fughe, inseguimenti, sparatorie e incendi. Catturato alla fine dagli avversari, dopo averli sterminati quasi tutti, Quigley viene torturato e infine obbligato a sostenere un duello alla pistola, da solo contro Marston e due dei suoi uomini, convinti che la bravura dell’Americano si limiti all’uso del fucile. Quando tutti e tre gli avversari giacciono al suolo colpiti a morte dalla sua Colt, il cowboy rivelerà al moribondo Marston: “Ho detto che non sapevo cosa farmene della pistola…ma non ho mai detto che non sapessi usarla.” Infine, l’apparizione quasi per incanto di centinaia di guerrieri indigeni sulle colline circostanti la fattoria – preceduta da un forte soffio di vento, componente “sciamanica” della misteriosa cultura aborigena – salva Quigley dall’arrivo delle truppe inglesi del maggiore Ashley, consentendogli di reimbarcarsi per gli Stati Uniti sotto falso nome insieme alla sua nuova conquista Cora.

Benchè non abbia quasi nulla in comune con “Balla Coi Lupi”, tranne la sensibilità del protagonista verso i nativi e la sua forte avversione per gli affaristi senza scrupoli come Marston, si tratta di una pellicola interessante e gradevole, sicuramente improntata al revisionismo imperante in quel periodo senza troppe esagerazioni, a parte l’insistito uso del fucile (monocolpo) da parte di Quigley anche quando se la sarebbe cavata meglio, nei combattimenti ravvicinati, con un revolver a 6 colpi.
Ma ciò avrebbe ovviamente rovinato la sorpresa finale.

UNA BOCCATA D’OSSIGENO

La riuscita commerciale di “Carabina Quigley”, con i suoi 21 milioni e mezzo di incasso, non è delle più esaltanti, avendone spesi 18 per la sua realizzazione, ma l’idea viene apprezzata per l’originalità e il genere caro a John Ford e Howard Hawks riprende fiato.
Dunque, il western cerca strade alternative addirittura in un continente diverso e qualche giornalista battezzerà il nuovo filone kangaroo western, alludendo all’animale simbolo dell’Australia. Questa variazione sul tema, sviluppando delle trame in un contesto che per molti aspetti non è troppo dissimile da quello della Frontiera americana, avrà un discreto impulso all’inizio del nuovo millennio, producendo lavori di sicuro richiamo, alcuni dei quali sono già stati menzionati in precedenza. Fra tutti faranno spicco, come si è detto, “Ned Kelly”, “The Tracker”, “Generazione rubata” e “Australia”. Anche in passato, comunque, escludendo gli esperimenti italiani, spagnoli e tedeschi, vi erano stati dei tentativi – a volte ben riusciti – di ricreare le atmosfere del West in altri Paesi. Si possono ricordare, fra i più noti, alcuni film di ambientazione sudafricana, relativi alla colonizzazione compiuta dai Boeri (“La carovana dei coraggiosi”, George Sherman, 1961) e gli scontri sostenuti dagli Inglesi contro il grande popolo nativo degli Zulu (“Zulu”, Cy Endfield, 1964 e “Zulu Dawn”, Douglas Hickox, 1979, ricostruzioni rispettivamente delle celebri battaglie di Rourke’s Drift e Isandlwana, avvenute entrambe nel gennaio 1879).
Sul tema di banditi e uomini della legge a confronto, nel 1961 il regista Ken Annakin aveva diretto “La furia degli implacabili” (“The Hellions”) un western sudafricano, ricalcando a grandi linee il soggetto di “Mezzogiorno di fuoco”, con il difensore della legge Sam Hargis (Richard Todd) costretto ad affrontare da solo una banda di scatenati criminali in una cittadina di frontiera. Con una certa elasticità, si può considerare western anche “El Topo”, diretto e intepretato dal cileno Alejandro Jodorowsky (“La montagna sacra”) con ambientazione messicana.

Fra il 1990 e il 1991 (26 western prodotti, dei quali 21 statunitensi) si registrano pochi titoli d’eccezione.
Geoff Murphy dirige “Young Guns II”, seguito del “Young Guns” del 1988 di Cristopher Cane, imperniati sulla figura di Billy the Kid (Emilio Estevez) con intenti biografici. Di un certo interesse è il contemporary western canadese “Clearcut”, di Riszard Bugajski, mentre la figura di Custer e gli avvenimenti a lui legati sono riproposti dalla TV americana nell’opera in due parti “Son of the Morning Star” diretto da Mike Robe e vincitrice di 4 Emmy Award (gli Oscar assegnati a lavori televisivi). Per la maggiore profondità dimostrata nell’indagine di personaggi ed avvenimenti rispetto a molti film del passato dedicati al famoso ufficiale (interpretato qui da Gary Cole) avrebbe meritato di apparire anche sugli schermi italiani, mentre ciò non è avvenuto.
Per quanto riguarda l’Italia, vi è un timido tentativo con il comico “Lucky Luke” diretto da Terence Hill, una co-produzione insieme agli Stati Uniti scaturita dall’omonima serie televisiva, con gli esterni girati nel New Mexico, nel Colorado e a Tucson, Arizona. Il Messico si riaccosta invece al genere con 2 contemporary western: “Mi querido Tom Mix” diretto da Carlos Garcia Agraz, ambientato nel 1920 e soprattutto con “El Mariachi” di Roberto Rodriguez, iniziatore di una trilogia.

Nel 1992 gli Stati Uniti producono 7 western su un totale di 10. Uno – “Cuore di Tuono” – è un contemporary western un po’ surreale che si svolge in una riserva indiana del South Dakota ai giorni nostri, con protagonista un agente F.B.I. (Val Kilmer) reincarnazione di un Sioux combattente a Wounded Knee, che cerca di scoprire un intrigo ordito da loschi speculatori ai danni degli Indiani. L’altro film è invece un’autentica storia western che si appresta a riempire nuovamente le sale di tutto il mondo con la regia e l’interpretazione di Clint Eastwood, che ne è anche il produttore.

CLINT LO SPIETATO

Quanto sia difficile escogitare un soggetto originale anche dopo il grande ritorno del western, lo dimostrano alcuni film decisamente banali che seguono a ruota il trionfo di Costner. Per un uomo del calibro di Clint Eastwood, il discorso appare decisamente diverso. Da quando è diventato regista e produttore di se stesso – la sua casa di produzione, Malpaso, è stata fondata nel 1968 – ha sempre mirato ad attirare il grande pubblico, proponendo personaggi senza nome, dal passato oscuro e spinti dal desiderio di vendetta, così come quelli interpretati sotto la regia di Leone erano invece attratti essenzialmente dalla prospettiva di guadagno.


Gli spietati

Il protagonista di “Unforgiven”, distribuito con il titolo “Gli spietati” in Italia (una traduzione non letterale, perché il vero significato del termine inglese sarebbe “non perdonato”) esordisce come un pacifico allevatore di maiali, rimasto vedovo e con due figli ancora nell’età dell’infanzia. E’ un uomo che ha finalmente un nome – William Munny – e una famiglia, ma un passato che ha preferito seppellire dopo il matrimonio. Non si tratta del solito pistolero che, per forza di cose, ha fatto fuori qualche avversario, bensì di un autentico criminale che, al tempo in cui beveva smodatamente, è riuscito a sterminare interi gruppi di persone, incluse donne e bambini, come egli stesso ammetterà nel corso del film. Se la moglie era riuscita a riportarlo sulla retta via, la sua prematura scomparsa non gli ha permesso di ricadere nella folle condizione precedente soltanto per la presenza dei figli. Ciò che lo induce a rispolverare il suo vecchio clichè, seppure con una certa goffaggine a causa del tempo trascorso (Munny fatica a montare a cavallo, ruzzolando nel fango della porcilaia sotto gli occhi sgomenti dei due bambini, la sua mira è diventata imprecisa e il suo aspetto è notevolmente invecchiato) è la possibilità di guadagnare una discreta somma di denaro che gli servirebbe a salvare la propria fattoria dal fallimento a cui è destinata, dopo che i maiali si sono ammalati. La ricompensa è stata promessa da un gruppo di prostitute di un piccolo centro – Big Whiskey, Wyoming – dopo che una di esse, Delilah (Anna Thomson) è stata sfregiata in viso da un cliente troppo esigente. Senza indugiare, l’ex pistolero parte in cerca di un antico compagno di battaglie, il nero Ned Logan (Morgan Freeman) anch’egli ritiratosi dalle sparatorie per convivere pacificamente insieme ad una squaw pellerossa in campagna. Al duo si aggrega un giovane spavaldo che si spaccia per implacabile killer, soprannominato Schofield Kid (Jaimz Woolvett) ma la loro strada si presenterà irta di difficoltà, rappresentate dallo sceriffo Little Bill Daggett (Gene Hackman) che si è già liberato, massacrandolo di botte e traendolo in arresto, di un famoso cacciatore di taglie detto l”Inglese” (Richard Harris) richiamato a Big Whiskey dalla ricompensa promessa dalle compagne di Delilah.

Il confronto con gli uomini di Daggett sarà senza esclusione di colpi, causando il ritiro di Schofield Kid – che confessa in lacrime di non avere mai ucciso un uomo e di essere fortemente miope – e la morte violenta di Logan, torturato ed eliminato dallo stesso tutore della legge. La sequenza finale si svolge in un saloon mentre fuori imperversa un violento temporale. Munny uccide senza pietà, sparando anche contro uomini che non lo minacciano con le armi, rimettendosi istintivamente sulla vecchia strada. Come vuole il titolo inglese, “non è perdonato” per questa ed altre azioni precedenti, così come non lo sono né Logan, né il Kid e neppure lo sceriffo Daggett. Appartengono tutti ad un’accozzaglia di gente violenta, che rifugge dalla morale imperante, ma il cui agire, come vuole Eastwood, è difficilmente classificabile o giudicabile.
La figura del vendicatore si rifà indubbiamente a quella di Shane (“Il cavaliere della valle solitaria”) di Joe (“Per un pugno di dollari”) di Duncan (“Lo straniero senza nome”) e del Predicatore (“Il cavaliere pallido”) ma in questo caso va ben oltre i limiti. Benchè Clint abbia sempre dimostrato un’ammirazione sviscerata per John Ford – “Amo molto i film di Ford…Forse mi colloco nella loro tradizione, perché sono cresciuto nel West e mi sento vicino a questo genere di soggetti” (“Cahiers du Cinèma”, 1985; cit. in: Alberto Pezzotta, “Clint Eastwood”, Editrice Il Castoro, Roma, 1994, p. 6) – i suoi personaggi si discostano parecchio dai “redenti” che Ford ha celebrato nelle sue opere, da Ringo Kid (“Ombre rosse”) a Robert Hightower (“In nome di Dio”) e Ethan Edwards (“Sentieri selvaggi”) come pure da quelli di Delmer Daves (il Comanche Todd de “L’ultima carovana”) e di Henry King (il Jim Douglas di “Bravados”). L’immagine che Eastwood fornisce dei suoi protagonisti è decisamente spregiudicata e senza giustificazioni: “Mi piacciono gli eroi di oggi, con le loro debolezze e la loro mancanza di dirittura morale, e con un tocco di cinismo.


Ai tempi del Codice Hays (una serie di regole dettate da Will H. Hays, alle quali si sarebbero dovuti attenere i produttori nelle loro creazioni cinematografiche, stabilendo i limiti rigorosi del ‘moralmente accettabile’) non potevi sparare finchè non ti sparava un altro. Ma se qualcuno sta cercando di uccidere il mio personaggio, gli sparo nella schiena.” (“Film Comment”, 1978, riportato in: Pezzotta, op. cit., p. 7).
Parole che, fra l’altro, pongono molti interrogativi su quale fosse la vera natura del West storico, dove personaggi assurti a grande popolarità nella leggenda furono spesso dei sanguinari assassini.

UNA NUOVA VISIONE DEL WEST

Giudicando “Gli spietati” da un punto di vista squisitamente cinematografico, affiorano considerazioni diverse. Nel momento in cui Eastwood propone il suo film, il western è ormai saturo da decenni di uomini che usano la pistola per difesa, per vendetta o per dimostrare semplicemente la propria abilità. Per anni e anni i registi del genere hanno proposto le figure più disparate, rifacendosi tuttavia molto spesso ai canoni di comportamento enunciati in precedenza. Il “cattivo” – quello che uccide la gente a sangue freddo o pratica la tortura – non è quasi mai assurto al ruolo di protagonista principale; solo in qualche caso (“Io sono la legge”, di Michael Winner) la figura di primo piano eccede, sparando alle spalle ad un uomo in fuga, per evidenti motivi personali (il bandito ha sposato una sua antica fiamma) e apparentemente senza pentimenti di sorta. Will Munny ha superato questi confini, perché il suo stampo è e rimane quello di un criminale, al di là delle motivazioni che l’abbiano spinto ad agire in quel modo. Si tratta dunque di un personaggio del tutto nuovo, tanto atipico quanto amorale. E’ pertinente l’osservazione di un critico: “Se Munny è pentito del proprio passato di killer e dichiara che ‘è una cosa grave uccidere un uomo’, è anche vero che nel finale torna ad essere il Munny di una volta, capace di ammazzare facilmente e infallibilmente. Lo spettatore sa che uccide per vendetta, accecato dal dolore: ma per gli abitanti di Big Whiskey è sempre e solo il killer di un tempo.” Inoltre “Unforgiven è anche il primo western di Eastwood in cui non c’è una discriminazione netta fra bene e male…” (Pezzotta, op. cit., pp. 106-107). Clint mitigherà l’atteggiamento di questo personaggio molto più avanti nel tempo, girando nel 2008 “Gran Torino”. Il protagonista Walt Kowalski, reduce dalla Guerra di Corea, ha un passato altrettanto sanguinario di Munny, avendo ucciso dei nemici non solo per eseguire degli ordini, ma si riscatterà, dopo avere confessato ad un prete cattolico le sue colpe, sacrificando se stesso per proteggere una famiglia di immigrati asiatici.

Un ulteriore aspetto importante di “Unforgiven” è il ruolo recitato dalle donne, in particolare dalla prostituta sfregiata, che a Munny ricorda la dolce parentesi di quiete vissuta insieme alla moglie scomparsa prematuramente. Forse è proprio questo contatto ad indurlo, dopo il completamento della sua atroce vendetta, ad andarsene insieme ai due figli in un luogo in cui nessuno riuscirà più a rintracciarlo, lasciando dedurre allo spettatore che Will trascorrerà i suoi giorni da pacifico allevatore, sotterrando nuovamente un passato scottante. Secondo un’altra opinione, “è ancora una donna a far cambiare il protagonista in quello che è probabilmente il primo western seriamente dalla parte della donna. (Roberto Lasagna, “Il cinema americano degli anni Novanta”, Graphos, Genova, 1996, p. 77).
Rilevante anche la presenza del giornalista-pubblicista Beauchamp (Sal Rubinek) un pavido millantatore che si qualifica come biografo di personaggi famosi: uno scribacchino che, dopo avere preteso di decantare le gesta dell’Inglese (Harris) si schiera dalla parte di Daggett, tentando infine di accattivarsi le simpatie di Munny. La sua figura ricorda a grandi linee quella del giornalista apparso ne “Il pistolero”, che John Wayne prende a pedate, spingendolo ad interessarsi delle presunte gesta dello sceriffo Thibido, spaccone e codardo almeno quanto l’uomo che lo vuole intervistare. Sembra invece difficile che Eastwood abbia pensato ad un accostamento con l’avventuriero Ned Buntline, autore di racconti e articoli su Buffalo Bill ed altri eroi del West, perché questi – trasformatosi in commediografo, attore e discutibile impresario teatrale – si era creato una fama (meritata) di agitatore di popolo, terrorista e delinquente comune. Fra l’altro, gravato anche del sospetto di avere ucciso una delle tante donne che avevano convissuto con lui.
L’incasso mondiale de “Gli spietati” risulta, come vi era da aspettarsi, veramente strabiliante, anche grazie alla fama di Eastwood: 159 milioni di dollari. Le spese di produzione sono rimaste contenute in meno di 14 milioni e mezzo, ma neppure ciò deve sorprendere, dal momento che la Malpaso è stata creata con lo scopo di mantenere bassi i costi per scongiurare clamorosi crolli.
Le premiazioni ripagano ampiamente la regia, la sceneggiatura di David Webb Peoples, la fotografia di Jack N. Green, il montaggio di Joel Cox, nonchè tutto lo staff tecnico. Particolare che non è a tutti noto, Eastwood dà il suo contributo anche alla colonna sonora, composta insieme al figlio Kyle e a Lennie Niehaus. Da giovane, Clint coltivava infatti la passione per la musica.

La giuria degli Academy Award propone 9 nomination, assegnando alla fine 4 Oscar: miglior film e miglior regia a Eastwood, miglior attore non protagonista a Gene Hackman e miglior montaggio a Cox. Anche per il Golden Globe, “Gli spietati” spunta 4 nomination, ottenendo due premi per la miglior regia e il miglior attore non protagonista a Gene Hackman, mentre il BAFTA (5 designazioni) premia ancora lo stesso Hackman. Il National Board of Review Award inserisce la pellicola fra le 10 migliori del 1992, mentre la London Critics Circle Film Award lo definisce “il film dell’anno”. La sfilza dei premi non si esaurisce certo qui, ma include decine di altri riconoscimenti di giornali e associazioni americane ed europee.
Il western celebra un altro dei suoi successi memorabili. Qualcuno obietta che Clint Eastwood, facendo eccessive concessioni alla violenza e mettendo da parte la morale, abbia sferrato un colpo basso: rimane però il fatto che nessuno ha la capacità di bissare in tempi brevi il suo trionfo.
Il genere è rinato, riempiendo le sale e scatenando nuovamente l’entusiasmo del pubblico, grazie a Costner e all’attore preferito di Leone e Don Siegel. Difficile sarà, per parecchio tempo, individuare i continuatori della loro opera.

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