Le guerre indiane dal 1680 al 1840 – 15

A cura di Domenico Rizzi
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LA NUOVA FRONTIERA

Mentre gli Stati Uniti ponevano fine alla dominazione spagnola in Florida e i Seminole arretravano verso l’interno della regione, la Vecchia Frontiera si trasferiva sempre più ad occidente.
Il West dei primi decenni dell’Ottocento – Kentucky, Tennessee, Ohio, Louisiana, Indiana, Illinois, Mississippi, Alabama e Missouri – era passato, nel periodo 1810-1820, da 1 milione a 2.200.000 abitanti, rappresentando il 23% della popolazione USA, salita complessivamente ad oltre 9 milioni e mezzo di persone. Dalla conquista dell’indipendenza, nel 1783, la popolazione americana di razza bianca aveva registrato un aumento di 6.800.000 unità, quella nera di 1.270.000, costituendo, con 1.771.000 individui, oltre il 18% degli abitanti degli Stati Uniti.
Gli Indiani o Amerindi, invece, erano scesi a poco più di 460.000, concentrati, per l’80%, nell’area centro-occidentale.
La fortunata spedizione di Meriwether Lewis e William Clark nel 1804-06, aveva avuto un effetto trascinante sull’espansione verso ovest, mobilitando centinaia di cacciatori di pellicce alla conquista delle terre vergini situate al di là del fiume Mississippi. L’immensa prospettiva commerciale offerta dalle pelli di castoro esercitò infatti un richiamo irresistibile per i “trapper”, che si riversarono nel Nord-Ovest al seguito di Manuel Lisa – fondatore della Compagnia del Missouri nel 1808 – e John Jacob Astor, che aveva dato vita poco tempo dopo alla Compagnia Americana delle Pellicce. Nel frattempo, anche la Compagnia Canadese del Nord-Ovest e la Compagnia della Baia di Hudson, che vantava ormai un secolo e mezzo di attività – avevano infiltrato i loro cacciatori nelle aree corrispondenti agli attuali Stati del Montana, dell’Oregon e dello Washington. Più tardi sarebbe comparsa sull’alto Missouri anche la Compagnia Americana delle Pellicce di Kenneth Mackenzie, mettendosi in concorrenza con le altre società operanti nell’area del fiume Yellowstone e dei suoi affluenti.


La grande avventura di Lewis e Clark

Il secondo fronte aperto dagli Americani in direzione centro- meridionale aveva come obiettivo il Texas e il Nuovo Messico, territori appartenenti alla Spagna, come l’Arizona, la California e buona parte di Utah, Nevada e Colorado.
Dopo la lunga ricognizione compiuta nel 1806 dal tenente Zebulon Montgomery Pike, arrestato e poi rilasciato dalle autorità di Santa Fè, l’interesse dei mercanti del Missouri verso le regioni del Sud-Ovest era cresciuto notevolmente. Tuttavia, prima che potesse svilupparsi il commercio fra gli Stati Uniti e la colonia spagnola, qualche Americano aveva già preso l’iniziativa di assicurarsi alcune delle zone più fertili del Texas.
Nel 1820 Moses Austin aveva infatti ottenuto il permesso di condurre un consistente gruppo di coloni del Missouri in territorio texano, per insediarsi a San Felipe de Austin. Suo figlio Stephen avrebbe poi proseguito l’opera, aumentando considerevolmente la presenza degli abitanti di lingua inglese oltre il Fiume Rosso. Nel 1822 portò nel Texas 150 persone, due anni più tardi ne attirò altre 272, convincendo le autorità messicane che lo sviluppo della regione richiedeva necessariamente l’arrivo di altri Americani. Incautamente il Messico si lasciò indurre a concedere, pochi anni dopo, quasi 4.500 acri di terra ai nuovi coloni.
La cacciata degli Spagnoli dal Messico nel 1821 spianò decisamente la strada all’immigrazione dagli Stati Uniti. Una legge varata dalla nuova repubblica nel 1824 consentì infatti agli immigrati di ottenere terre in abbondanza nella regione, permettendo loro di portarsi dietro gli schiavi negri.
Nel frattempo, a partire dal 1822, la Repubblica del Messico aveva aperto la frontiera nord-orientale ai commercianti americani del Missouri, che dopo la spedizione condotta da William Becknell cominciarono a praticare la nuova Pista di Santa Fè con i loro carri carichi di mercanzie. Per almeno un decennio gli scambi furono elevati e proficui. Dopo che, nel 1824, un convoglio composto da 25 carri e scortato da 81 uomini aveva venduto merce del valore di 30.000 dollari ricavandone 180.000 in oro ed altri 10.000 in pellicce, Thomas Hart Benton persuase il Congresso a stanziare fondi per la pista e a disporre scorte militari per difendere i convogli dai frequenti attacchi di Pawnee, Kiowa e Comanche.
L’espansione americana era proseguita anche verso l’estremo Ovest toccato nel 1805 da Lewis e Clark. Con una convenzione stipulata nel 1818, Stati Uniti e Gran Bretagna avevano concordato la comune occupazione del territorio dell’Oregon. Tre anni più tardi, la Compagnia Canadese del Nord-Ovest e la Compagnia della Baia di Hudson fecero di Fort Vancouver la più importante base commerciale della zona, sotto la direzione del dottor John Mc Loughlin, divenuto famoso come “Il Re del Vecchio Oregon”.
In California, gli Spagnoli avevano cominciato a preoccuparsi seriamente dell’ingerenza dei cacciatori russi dell’Alaska verso la metà del XVIII secolo, inviando il capitano Gaspar de Portola per esplorare la regione allo scopo di presidiarla militarmente. Come conseguenza della ricognizione, vennero create postazioni di truppe a San Diego e a Monterey. Quindi, tra il 1789 e il 1823, la Spagna favorì l’insediamento di 21 missioni cattoliche, dislocate fra San Diego e Sonoma. Ovviamente, se questo esiguo baluardo poteva bastare ad arginare i Russi, non sarebbe stata sufficiente, un ventennio dopo, a difendere i possedimenti dall’invadenza statunitense.
Manuel Lisa
Anche la situazione del Texas si era fatta critica a pochi anni dall’iniziativa degli Austin. Nel 1827 gli “Anglos”, i cittadini di lingua inglese provenienti dagli USA, erano diventati 10.000, in massima parte giunti dal Kentucky e dal Tennessee, mentre i residenti di lingua spagnola ammontavano a sole 2.700 persone.
Inutilmente il generale messicano Manuel de Tiery y Teran lanciò un monito alla autorità di Città del Messico: “O il governo occupa il Texas adesso, o questo è perduto per sempre” (Jon E. Lewis, “Alla conquista delle Grandi Pianure”, Piemme, Casale M., 1998, p. 69).
I fatti avrebbero confermato, di lì a poco tempo, la sua pessimistica previsione. Nel 1830, anche per effetto del crescente arrivo di abusivi, gli Americani erano diventati 20.000, con un seguito di circa 1.000 schiavi, mentre i Messicani non superavano il numero di 3.000. L’insurrezione del Texas per liberarsi dell’occupazione messicana era ormai questione di pochi anni.
L’accoglienza dei Pellirosse occidentali nei riguardi di Lewis e Clark era stata più che cordiale, tant’è vero che nei due anni di viaggio attraverso più di 7.600 miglia, la spedizione non aveva perduto un solo uomo in scontri a fuoco: l’unica perdita, il sergente Charles Floyd, era deceduto in seguito ad una malattia.
Inoltre, una preziosa guida degli Americani si era rivelata Sacajawea, la giovanissima sorella di un capo degli Shoshone andata in moglie all’anziano cacciatore franco-canadese Toussaint Charbonneau, che l’aveva riscattata da una tribù sioux dov’era tenuta come schiava. Secondo alcune voci, la ragazza avrebbe avuto anche una storia sentimentale segreta con il capitano William Clark, uno dei due comandanti della missione.
Mentre gli Spagnoli tentavano sterilmente di contrastare il progetto di conquista del presidente Jefferson, inviando nel 1804-06 ben quattro spedizioni verso il nord – una di esse si spinse fino al Nebraska, ma nessuna entrò in contatto con gli Statunitensi – la “Grande Louisiana” cominciava ad attirare l’attenzione di esploratori e uomini d’affari. Il fatto che fosse sconfinata e pressochè disabitata da uomini di razza bianca, pur essendo appartenuta alla Francia per diversi anni, non sembrava costituire un problema per i “mountain men”, che già nel 1806 avevano fatto di alcune aree il loro regno.
L’interesse americano verso le Grandi Pianure che si estendevano dal Missouri-Missisippi fino alle Montagne Rocciose venne invece raffreddato, almeno fino alla metà del XIX secolo, dalla negativa relazione fornita dal maggiore Stephen H. Long nel 1819, che parlava di aree desertiche ed inospitali, impossibili da sfruttare e praticamente inutili. Ciò avrebbe permesso agli abitatori di quelle selvagge solitudini – Sioux, Cheyenne, Arapaho, Piedi Neri, Pawnee, Comanche, Kiowa e molte altre tribù – di sopravvivere all’ondata colonizzatrice per vari decenni.


Porzione di una mappa del 1836 con stanziamenti di indiani
La massiccia invasione dell’Oregon e della California nel 1830-1850 affrettò invece la fine degli Indiani più occidentali in breve tempo. Su 133.000 Pellirosse stimati in California prima della conquista americana, completata nel 1848, ne sopravvivevano circa 80.000 al momento dell’annessione, ma nel 1867 questi erano ridotti a 20.000 e nel 1903 a soli 4.000.
Gli Indiani delle Pianure e gli abitatori delle lande desertiche in Arizona, Utah, Nevada e New Mexico non erano molto numerosi neppure al tempo dell’arrivo di Lewis e Clark e di Zebulon Pike.
Forse i cacciatori della prateria totalizzavano nell’insieme 150.000 persone, mentre quelli del Sud-Ovest semi-desertico – Pueblo, Apache, Navajo, Pima, Papago, Gosiute, Yavapai, Mohave, ecc. – erano suppergiù 50.000. Tutto il resto – Californiani, tribù costiere del Nord-Ovest e del Gran Bacino – potevano comprendere al massimo altri 200.000 individui agli inizi dell’Ottocento, confermando la stima globale di 400.000 nativi effettuata al momento dell’acquisto della Louisiana.
La scarsa propensione degli emigranti per le Grandi Pianure portò dunque ad una concentrazione degli insediamenti soltanto in alcune aree. Dapprima il flusso migratorio interessò il Texas, che nel 1835 possedeva già più di 30.000 abitanti di razza bianca; in seguito i pionieri presero di mira la fertile vallata del fiume Willamette, nel lontano Oregon. Dal 1830 in poi, la gente che affrontava il lunghissimo viaggio verso la costa del Pacifico potè contare su una serie di avamposti dove approvvigionarsi e riposare.
Questi forti furono soprattutto Fort Laramie e Fort Bridger nel Wyoming, Fort Benton lungo il fiume Missouri nell’odierno Montana, ed altri disposti lungo la pista – Fort Ogden’s Hole, Fort Hall, Fort Boise, Fort Walla Walla – fra l’Idaho e l’Oregon.
Guide intrepide ed esperte, quali il capitano Louis de Bonneville, Thomas Fitzpatrick, William Sublette, Jedediah Smith e Jim Bridger – fecero da battistrada alle prime carovane dirette all’estremo occidente. Quasi nel contempo, i fratelli William e Charles Bent, fondavano l’omonimo avamposto nel Colorado, invitando una parte dei Cheyenne e Arapaho a trasferirsi nella regione per commerciare con i loro trapper.
La spinta verso Ovest era dovuta alla fame di terre causata dall’incessante arrivo di Europei sul suolo americano. Difatti, dal 1820 al 1825 ne sbarcarono 49.000, dal 1826 al 1830 gli immigrati furono 103.000, mentre nel successivo quinquennio sarebbero saliti addirittura a 253.000.
Qualche Indiano d’oltre Mississippi, assistendo al transito delle carovane nel Nebraska e Wyoming negli Anni Trenta del XIX secolo, osservò che, continuando di quel passo, tutti i Bianchi dell’Est si sarebbero trasferiti in occidente, lasciando le loro città completamente vuote.
Non sapeva dell’esistenza di un continente, al di là dell’Oceano Atlantico, che avrebbe rifornito l’America di milioni di braccia, prendendo il controllo assoluto delle terre scoperte da Colombo e relegando i Pellirosse in aree sempre più anguste.
Anche gli Indiani dell’Ovest avevano già combattuto gli Europei durante i secoli XVI, XVII e XVIII.
Dopo la rivolta di Popè contro gli Spagnoli nel 1680, Apache, Comanche e Navajo si erano affrontati più volte sul campo con i discendenti di Cortès, compiendo incursioni nei loro insediamenti, dove uccidevano gli uomini, rapivano donne e bambini e razziavano il bestiame.
A nord e a nord-ovest, anche commercianti e cacciatori britannici avevano avuto a che fare con i Pellirosse ostili, ma per molti anni ancora gli scontri di maggior rilievo sarebbero avvenuti soprattutto fra tribù rivali. Quando si inasprì la contesa fra Canada e Stati Uniti, agenti britannici cercarono di sobillare gli indigeni della fascia di confine con la Grande Louisiana e l’Oregon per respingere esploratori e trapper americani dalla contrada. Secondo quanto scrisse il generale Philip St. George Cook nel 1823, i Piedi Neri del Montana, oltre che perennemente in guerra con Assiniboine, Mandan, Minetaree, Crow e Sioux, erano la tribù più ostile e pericolosa verso gli Americani, essendo “incitati dai trafficanti inglesi.”
Anche lungo la Pista di Santa Fè i Pawnee e i Comanche portarono i loro assalti alle carovane dei mercanti del Missouri dirette nel Nuovo Messico provocando l’intervento dell’esercito. Infatti, nel 1828 il colonnello Henry Leavenworth lasciò la postazione di Jefferson Barracks, nel Missouri, con 4 compagnie del Terzo Reggimento Fanteria, per fondare il forte che da lui prese nome nel Kansas. Fort Leavenworth raggiunse dopo pochi anni una guarnigione di 440 uomini: diventerà poi un’importante base durante la guerra fra Stati Uniti e Messico nel 1846-47.
Preoccupati della minaccia portata agli emigranti dalle tribù insediate a nord del fiume Platte – Lakota-Sioux, Cheyenne, Arapaho ed altre – il governo deciderà nel 1849 di militarizzare Fort Laramie, una base commerciale situata nelle praterie sud-orientali del Wyoming.
Ma molto prima che questi eventi si verificassero, i cacciatori di pellicce avevano già sostenuto diversi scontri a fuoco con gli Indiani delle tribù occidentali.
Nella primavera del 1823 il Sesto Reggimento Fanteria attuò una rappresaglia contro un villaggio di Arikara lungo il fiume Missouri, per punire le azioni di guerra compiute a danno dei “mountain men”. Giacomo Costantino Beltrami, un magistrato italiano in visita al Midwest in quegli anni, scrisse in proposito nei suoi diari di viaggio: “Una compagnia americana, la Missouri Fur Company, ha inventato una nuova forma i sfruttamento dei paesi indiani, che è un altro attentato alla proprietà di queste popolazioni e si aggiunge alle vessazioni che la cupidigia delle nazioni civili esercita su di loro dalla scoperta dell’America. La Compagnia, dunque, ha assoldato un gruppo di uomini per esercitare la caccia laddove essa è più redditizia, per usurpare quindi e distruggere il solo mezzo di esistenza che rimane a questi infelici…” (Giacomo C. Beltrami, “La scoperta delle sorgenti del Mississippi”, Bergamo, 1955, p. 212).
Durante il periodo delle esplorazioni e della caccia sistematica agli animali da pelliccia, gli Indiani uccisero diversi Bianchi, alcuni dei quali vantavano una certa notorietà Fra questi, vi furono due membri della spedizione di Lewis e Clark – John Potts e George Drouillard, caduti sotto i colpi dei terribili Piedi Neri – e il giovane Jedediah Smith, abbattuto dai Comanche nel 1831 nell’arido bacino del Cimarron. Invece John Colter, scopritore dei “geyser” nell’attuale Parco di Yellowstone, nel 1808 sfuggì miracolosamente agli Indiani che avevano ucciso il suo amico Potts. Ma questo ed altri spaventi successivi, come una seconda fuga da un’altra banda di Piedi Neri, ne avrebbero probabilmente determinato la morte per itterizia pochi anni dopo.
Colter aveva lasciato quel “maledetto West” giurando di non rimettervi più piede.
Ma ad oriente del Mississippi, decine di migliaia di uomini e donne – contadini, diseredati, gente in cerca di ricchezza o desiderosa di iniziare una nuova vita in terre lontane – aspettavano solo il momento di partire per la loro grande avventura.
Il “destino manifesto” della nazione, nonostante le critiche degli scettici, si sarebbe compiuto.

NELLE TERRE DEI SAUK E FOX

Mentre gli Uomini Bianchi – alcuni affamati di terre da coltivare, gli altri attratti dal gigantesco affare rappresentato dalle pellicce pregiate – si spingevano sempre più verso occidente, gli Indiani del Middle West assistevano con preoccupazione alla loro inarrestabile avanzata. Tutte le tribù che vi si erano opposte nei precedenti due secoli, alle fine avevano dovuto cedere il passo a questi spietati invasori, il cui numero cresceva di anno in anno. Una dopo l’altra, le popolazioni native erano state sgominate dalla forza degli avversari, nonostante la loro tenace resistenza e la guida di grandi condottieri.
Non erano riusciti a fermare i Bianchi chiamati Inglesi né Powhatan, né Opechancanough e neppure Re Filippo e Pontiac, così come, più tardi, Tecumseh, Piccola Tartaruga e William Weatherford avevano fallito nel tentativo di arginare la travolgente marcia degli Americani.
I Sauk e i Fox, tribù algonchine federate dal 1730 circa, si trovavano in quella fascia che, agli inizi del XIX secolo, cominciava ad interessare i colonizzatori. I primi, chiamati Osakiwug, cioè “popolo della terra gialla”, vivevano dunque insieme ai Meskwa Kihung, il “popolo della terra rossa”, comunemente detto dei Fox, dal nome di un fiume lungo le cui rive erano dislocati i loro accampamenti.
Originariamente le due tribù provenivano dall’Illinois ed avevano sostenuto vari scontri, appoggiati dai Dakota, sia con i Francesi che con i Chippewa, ma verso il 1780 questi ultimi erano riusciti a prevalere. Per le tribù di ceppo sioux era così cominciato l’esodo verso occidente, mentre per i Sauk e Fox la permanenza nelle terre dell’Illinois si faceva sempre più precaria.
Nel 1804, con l’arrivo degli Americani, i due popoli furono costretti a cedere porzioni di territorio ai coloni e ciò diede inizio a disaccordi interni, che finirono per sfociare in vere e proprie ostilità. Infatti, durante la guerra del 1814 tra Inglesi e Americani, le tribù si divisero in fazioni opposte, schierandosi chi con l’uno e chi con l’altro contendente.
Un uomo, considerato valoroso ed intransigente difensore del diritto degli Indiani a conservare le proprie terre, portò i suoi seguaci ad affiancare Tecumseh nel conflitto che lo avrebbe visto perdente. Un altro, per certi aspetti più saggio e opportunista, appoggiò invece la causa degli Stati Uniti e ne ebbe alla fine qualche vantaggio in più.
Il primo rispondeva al nome di Falco Nero – ma il suo appellativo in lingua sauk era il quasi impronunciabile “Ma-ka-tai-me-she-kia-kiak, dal significato equivalente a “Sparviero Nero”. Il secondo era conosciuto come Keokuk o “Kiyo Kaga”, significante “Colui che si muove cautamente”.
Negli anni successivi al termine della guerra, il destino di quella che veniva considerata come l’unica tribù dei Sauk e Fox si svolse principalmente intorno a questi due leader molto diversi l’uno dall’altro.
Ancora una volta, come già nel passato, il contrasto dilaniante fra due ideologie opposte si sarebbe concluso con l’eroico sacrificio della parte più intransigente.
Stava per scoppiare l’ennesima guerra di frontiera fra Indiani e Bianchi e la sua conclusione, visti i risultati precedenti, poteva essere soltanto ovvia.

FALCO NERO

Era nato alla foce del Rock River, Illinois, nel 1767.
Le sue prime esperienze di guerra risalivano probabilmente all’epoca in cui stava per terminare la lotta per l’indipendenza americana, quando Falco Nero aveva 15 anni.
Il ragazzo si era infatti distinto in più di un’occasione nelle battaglie contro i tradizionali nemici della sua gente, che erano molti. A 20 anni aveva già guidato i Sauk, come capo di guerra, in una vittoriosa spedizione contro gli Osage, di lingua sioux e poi si era preso un’altra soddisfazione sconfiggendo i potenti Cherokee. In seguito, Falco Nero aveva preso parte a numerosi scontri con le medesime tribù, riuscendo quasi sempre ad ottenere affermazioni di prestigio.
Nel 1812, allo scoppio della guerra anglo-americana, il leader non aveva esitato a prendere le parti dei Canadesi, provocando così la prima seria spaccatura all’interno della sua tribù, allorchè Keokuk, molto più giovane di lui, si era dichiarato favorevole alla causa statunitense. Falco Nero si era scontrato con i nemici dalla bandiera a stelle e strisce a Frenchtown, Fort Meighs e Fort Stephenson, ma probabilmente aveva anche appoggiato Tecumseh nella battaglia del fiume Thames.
Fin dalla prima giovinezza, il condottiero si era sentito attratto dalle gesta di Pontiac e soprattutto dal suo progetto di unificare gli Indiani per frenare la dilagante conquista dei Bianchi, obiettivo perseguito dallo stesso Tecumseh e da suo fratello Tenskwatawa.
Terminata la guerra, il rivale Keokuk aveva pattuito con gli alleati americani il trasferimento dei propri seguaci nelle terre dello Iowa. Invece Falco Nero, ostinatamente fedele ai suoi principi e per nulla disposto a cedere a pressioni, era andato in cerca di alleanze, guadagnandosi quelle dei Winnebago, dei Pottawatomie e dei Kickapoo. Da quel momento era nato un clima di tensione, sfociato ripetutamente in azioni di guerriglia, fra i Pellirosse ed i coloni provenienti da oriente.
Come Tecumseh, anche il capo dei Sauk nutriva grande fiducia negli amici inglesi. Infatti si recò più volte a Fort Malden, nell’Ontario, per sostenere le ragioni del suo popolo e denunciare l’invadenza americana, ma le autorità britanniche lo sostennero soltanto a parole, evitando di compromettere, con interventi diretti, i rapporti con il potente vicino.
Nel 1831 i coloni americani, stanchi di essere minacciati, si rivolsero al governatore dell’Illinois, John Reynolds, invocando la sua protezione. Questi chiamò alle armi la milizia dello Stato, inviando 700 uomini al comando del generale Edmund P. Gaines. L’ufficiale però, il 20 giugno scrisse che i Sauk: “…a prescindere dai loro sentimenti di ostilità, sono decisi ad astenersi dall’uso di asce e armi da fuoco, se non per difesa personale” ed aggiunse di averne “persuaso un terzo ad attraversare il Mississippi per occupare altre terre” dicendosi invece sorpreso che fossero le donne ad incitare “i mariti a combattere, non a lasciare le case e a spostarsi.” (J.Tebbel, Keith Jennison, op. cit., pp. 130-31).
Dopo un primo, improduttivo incontro fra Gaines e Falco Nero, intavolata una nuova trattativa gli Indiani acconsentirono a passare il Mississippi, dietro la promessa dei coloni di fornire alla sua tribù una congrua quantità del raccolto di grano.
Secondo i Sauk, l’accordo venne violato dai Bianchi, che consegnarono loro soltanto una misera parte di quanto avevano concordato. Perciò, nel corso dei mesi successivi, gli Indiani attraversarono più volte il fiume per riappropriarsi di ciò che ritenevano di loro diritto. Intanto Falco Nero si impegnò a fondo per dare vita ad una grande federazione indiana, guadagnandosi l’appoggio anche di alcune bande sioux e del profeta winnebago Waubeshill, noto come Nuvola Bianca, un uomo considerato di grande carisma.
Probabilmente confidando nel sostegno divino, il leader si decise a rimettere piede nelle antiche terre dei Sauk per riappropriarsene.
Nell’aprile del 1832, 2.000 Pellirosse – fra i quali oltre 500 guerrieri – ritornarono nella vallata del fiume Rock, dove sostarono in attesa di rinforzi da parte dei Pottawatomie e dei Winnebago. Ma le speranze di Falco Nero andarono subito deluse, perché al suo contingente si unirono soltanto piccole bande dal peso militare trascurabile, mentre l’aiuto che si aspettava dagli Inglesi si rivelò una mera illusione.
Intanto il suo gesto non era passato inosservato fra gli Americani, che questa volta si decisero a stroncare la ribellione mobilitando migliaia di uomini.
La guerra di Falco Nero stava andando incontro, come tutti i precedenti tentativi di scacciare i Bianchi, ad un tragico epilogo.

LA DISFATTA DI BAD AXE

Falco Nero
Forse neppure Falco Nero aveva mai creduto seriamente ad una concreta possibilità di vittoria sull’Uomo Bianco, ma sicuramente il condottiero non si aspettava che il nemico si sarebbe accanito contro la sua gente come fece durante quell’estate.
Non appena ebbero inizio gli scontri nel Wisconsin, anche un osservatore sprovveduto si sarebbe convinto subito dell’esito finale sfavorevole agli Indiani.
Un’avvisaglia di ciò che doveva accadere in seguito avvenne in una località denominata Wisconsin Heights, il 21 luglio 1832. Si trattò di una scaramuccia, nella quale tuttavia Falco Nero ammise di avere perso 6 guerrieri. Incalzati dalle truppe del generale Henry Atkinson, i Sauk e i loro pochi alleati riuscirono però a guadare il fiume Wisconsin ed a trasferirsi, attraverso il territorio nord-orientale dell’Illinois, verso Il Mississippi River, nei pressi della foce del torrente Bad Axe.
Il generale Winfield Scott poteva disporre di forze di gran lunga superiori a quelle del capo pellerossa in ritirata. Il suo esercito era stato rinforzato da compagnie provenienti dagli avamposti situati intorno ai Grandi Laghi e dalla Louisiana. Fra i molti ufficiali che guidavano questi uomini, vi erano anche il capitano Abraham Lincoln, al comando di una compagnia di volontari e il tenente Jefferson Davis, destinati in futuro a ben altre responsabilità.
Quando i militari riuscirono ad individuare il luogo in cui Falco Nero si era accampato con i suoi 500 seguaci, ebbe inizio una delle battaglie più tragiche della storia della Vecchia Frontiera.
I combattenti pellirosse non erano più di 150 o 200, mentre le forze che davano loro la caccia ammontavano a 1.600 uomini. Inoltre, un battello armato – il “Warrior”, al comando del capitano Throckmorton – stazionava sul fiume, circa 120 miglia a nord di Prairie du Chien, impedendo ai Sauk di attraversare il corso d’acqua a nuoto.
Il 1° agosto 1832, poco dopo le quattro del pomeriggio, la nave da guerra aprì il fuoco con un cannone da 6 libbre, dopo avere atteso, secondo le parole del comandante, ““ll tempo necessario affinchè ponessero al riparo le donne e i bambini””(J. Tebbel, K. Jennison, op, cit., p. 133). Lo scontro causò 25 morti fra gli Indiani, mentre nessun caduto si ebbe fra le forze imbarcate sul “Warrior”, costretto tuttavia a rinunciare all’impresa dopo circa un’ora, avendo esaurito le scorte di combustibile.
La mattina seguente arrivarono anche i reparti dell’esercito e delle milizie, circa 750 uomini guidati dal generale Henry Atkinson e dal colonnello Henry Dodge, per cui Falco Nero venne a trovarsi tra due fuochi. Bersagliati dal tiro implacabile dei cecchini, gli Indiani che riuscirono a trovare scampo furono assai pochi, forse soltanto un centinaio. Abbattuti lungo le rive e in acqua, mentre cercavano un’improbabile salvezza, i Sauk e i loro amici soffrirono oltre 150 perdite, contro gli 8 soldati caduti nel combattimento. In seguito, però, fu accertato che altri uomini di Atkinson avevano perso la vita, portando a 21 il totale complessivo dei morti. Ma il maggior numero di vittime l’esercito l’aveva subito nelle settimane precedenti la battaglia di Bad Axe, a causa di un’epidemia di colera responsabile del decesso di alcune centinaia di persone.
Il giorno seguente, una banda superstite di Sauk, al seguito del capo-guerriero Kinnekonesaut, fu attaccata di sorpresa da 100 Sioux al comando di Wabasha, che appoggiava l’azione dei soldati. Fu una nuova carneficina di inermi, poiché gli spietati Dakota uccisero 68 persone e catturarono 22 donne e bambini. Ancora una volta, si dovette assistere al tragico spettacolo di Indiani che infierivano contro altri Indiani, una vergognosa costante che non era mai mancata nelle guerre precedenti, da quella di Re Filippo in avanti.
Per questo Falco Nero, sfuggito alla caccia dei soldati di Dodge e rifugiatosi a Prairie La Crosse, un villaggio degli alleati Winnebago, comprese l’inutilità di battersi ancora e decise di arrendersi.
Il 27 agosto il capo si consegnò alle truppe americane, che lo caricarono sul battello “Winnebago” per trasferirlo, incatenato, a Fort Armstrong, sull’isola di Rock Island, a disposizione del generale Winfield Scott. Alcuni mesi dopo, questi dispose che i capi sauk e fox venisero condotti a Washington per conferire con il presidente degli Stati Uniti, Andrew Jackson.
La conseguenza inevitabile dell’insurrezione indiana fu la requisizione di gran parte dei loro possedimenti e di quelle degli alleati schierati con essi. Sauk e Fox persero quasi 2 milioni e mezzo di ettari di terra, i Winnebago oltre 1.800.000, in cambio di una rendita di 20.000 dollari l’anno per un trentennio. Ovviamente Falco Nero venne spodestato dalla sua leadership e si ritirò a vivere in una riserva nello Stato dell’Iowa, mentre il rivale Keokuk venne accreditato come il principale referente della tribù.
Nel 1837, dopo un nuovo viaggio a Washington del fiero condottiero e di 34 altri rappresentanti della sua nazione, fra i quali il nuovo capo riconosciuto Keokuk, il governo americano diede il colpo di grazia alle speranze dei Sauk, espropriandoli questa volta di 10 milioni e mezzo di ettari.
Una delle ultime apparizioni in pubblico dell’anziano leader fu durante i festeggiamenti organizzati a Fort Madison, nel Wisconsin, per celebrare il 106° anniversario della nascita di George Washington. Falco Nero si presentò vestito dei suoi abiti migliori, ostentando la consueta fierezza, in compagnia della moglie e del figlio. Ormai la sua vita era giunta quasi al termine.
Morì infatti dignitosamente il 3 ottobre 1838 nella sua baracca sul fiume Des Moines, all’età di 71 anni. Keokuk, che nel 1845 cedette le riserve dell’Iowa agli Americani accettando di trasferirsi nel Kansas, gli sopravvisse di un decennio, spegnendosi nel giugno 1848 nella nuova dimora di Sauk Agency. Aveva 68 anni.
Nella lunga storia delle guerre combattute dagli Indiani contro l’invasore bianco, il suo nome non avrebbe meritato la considerazione delle generazioni successive. Quello di Falco Nero, divenne invece l’ennesimo simbolo della fierezza di un popolo che non voleva rinunciare alle proprie terre ed alle sue ataviche tradizioni.
Gradualmente ma in modo inesorabile, la macchina della civiltà avrebbe travolto e calpestato questi uomini, colpevoli soltanto di essersi opposti ad un costume di vita che significava la fine della loro cultura.

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