Le guerre indiane dal 1680 al 1840 – 10

A cura di Domenico Rizzi
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TECUMSEH

Si chiamava in realtà Ticamthi o Tecumtha, equivalente a Tigre Accucciata ed era nato, secondo le testimonianze indiane, ad Old Chillicothe, territorio dell’Ohio, nel marzo 1768.
Suo padre Puckeshinwah, o Pekshinwah, era stato un valoroso capo degli Shawnee caduto nella battaglia di Point Pleasance, nell’ottobre 1774. La madre Methotasa era una donna della stessa tribù, sebbene spesso gli storici l’abbiano confusa con la prima moglie di Puckeshinwah, appartenente ai Creek.
Altre versioni la ritengono invece di origine olandese, Marguerite Mary Iaac, figlia di Frederick Iaac e Mary Galloway, rapita insieme ai suoi fratelli dai Cherokee durante un’incursione, quand’era ancora bambina.
Tecumseh
Trascorsi diversi anni come squaw presso questa tribù, era caduta nelle mani degli Shawnee quando questi avevano effettuato una delle loro tante razzie nel villaggio dei suoi catturatori. In seguito, Puckeshinwah si era invaghito di lei, sposandola.
Comunque Methotasa era cresciuta con una mentalità prettamente indiana, allevando il figlio secondo i principi della più ferma intransigenza verso gli invasori americani ed esortandolo a non cedere mai ad alcun compromesso nei riguardi dei Bianchi.
Dopo essere rimasto orfano, contribuirono all’educazione di Tecumseh anche il fratello maggiore Chicksika e la sorella Recumapease, che alcuni anni dopo, nel 1787, lo accompagnarono in una lunga visita presso i Cherokee ed i Creek. Probabilmente in questa occasione, il futuro condottiero si rese conto di quanto fosse indispensabile fondere tutte le tribù in un’unica, potente nazione.
A 26 anni Tecumseh aveva preso parte allo sfortunato corpo di spedizione sconfitto dal generale Wayne a Fallen Timbers. Un anno dopo il giovane si era dissociato dalla firma dei patti di Greenville, con cui gli Indiani avevano regalato molte delle loro terre ai coloni dalla pelle chiara.
Durante la prima giovinezza, Tecumseh aveva cambiato residenza varie volte, abitando in seguito presso i Delaware dell’Indiana fino all’età di 40 anni e trasferendosi più tardi fra i Kickapoo e i Pottawatomie. Ma la sede definitiva che il capo scelse per portare avanti i suoi piani divenne infine il punto di confluenza fra i fiumi Tippecanoe e Wabash, una striscia di terra donata dai Pottawatomie agli Shawnee, su cui sarebbe sorto l’esteso villaggio destinato, secondo il suo ambizioso progetto, a diventare la capitale di una grande confederazione di tribù.
Sebbene molti Bianchi sorridessero all’idea da lui sbandierata di creare uno “Stato Indiano” fra il Canada britannico e gli Stati Uniti, Tecumseh lavorò incessantemente alla realizzazione della sua opera. Per questo si spostò frequentemente dall’Indiana al Wisconsin, raggiungendo il Minnesota ed altre regioni, dove riscosse sempre larghi consensi in ogni villaggio indiano visitato.
In pochi mesi, il nuovo simbolo della resistenza pellerossa all’Uomo Bianco riuscì a far confluire oltre 1.000 indigeni – Shawnee, Wyandot, Delaware, Ottawa, Nipissing, Kickapoo e Ojibwa – a Tippecanoe, che veniva ormai chiamata “La Città del Profeta”.
Se gli Inglesi non davano troppo credito a Tecumseh, pur fingendo di appoggiarlo per contrastare gli Americani, il governatore del Territorio dell’Indiana, William Henry Harrison, lo prese in seria considerazione. Infatti, egli scrisse a proposito di questo condottiero che “ se non fosse per la vicinanza con gli Stati Uniti, potrebbe fondare un impero che rivaleggerebbe con le gloriose realizzazioni compiute nel Perù e nel Messico.” (John Tebbel-Keith Jennison, “Le guerre degli Indiani d’America”, Newton-Compton, Roma, 2002, p. 102).
Nonostante l’avversione della maggior parte dei coloni americani verso gli Indiani, Tecumseh era abbastanza popolare e rispettato dalla gente della Frontiera. Di lui si diceva che possedesse un innato senso della giustizia e detestasse le torture inflitte ai prigionieri, pratiche alle quali non volle mai partecipare. Fra le molte illazioni circa le sue origini, circolava anche la voce, probabilmente infondata, che fosse figlio di un Bianco.
A destra: ancora Tecumseh
Nel 1796 Tecumseh sposò una ragazza mezzosangue di nome Manete e ne ebbe un figlio, chiamato Puckethei, ma il matrimonio non durò a lungo per i continui litigi. Poco tempo dopo che la moglie lo ebbe lasciato, il capo divenne amico di una splendida ragazza bionda di nome Rebecca Galloway, figlia di un agricoltore dell’Ohio. Da lei apprese, in una serie di incontri sempre più intimi, la lingua inglese e la storia del mondo, restando affascinato dalle figure di Alessandro Magno e Giulio Cesare. Sotto la guida di Rebecca, Tecumseh potè leggere anche la Bibbia e conoscere la figura del grande drammaturgo William Shakespeare. Studiando la storia d’America. si soffermò a lungo sulla figura di Pontiac, il condottiero che aveva cercato di unire gli Indiani in una comune lotta contro i Bianchi. Nella sua mente, il disegno di istituire uno stato interamente indiano si sviluppò sempre di più, fino a diventare una certezza.
La calda amicizia con Rebecca non poteva che sfociare in una proposta di matrimonio da parte di Tecumseh, ma la ragazza gli pose una condizione che equivaleva alla rinuncia a tutti i suoi piani: quella di vivere fra i Bianchi, abbandonando gli usi e costumi della sua gente. Il padre della fanciulla, James Galloway non si oppose alle possibili nozze, lasciando che fosse Rebecca a decidere: il leader emergente degli Shawnee, dopo avere riflettuto per un mese, con molta tristezza dichiarò che non avrebbe potuto sacrificare il futuro del suo popolo ai propri desideri personali. Fallito il matrimonio, Tecumseh non si impegnò mai più con una donna. Da quel momento ebbe infatti un solo obiettivo: la salvezza dei Pellirosse, il riscatto della loro dignità e la fondazione di qualcosa che nella sua mente somigliava ad uno Stato sovrano. Consapevole che gli Indiani dovessero acquistare prioritariamente l’autosufficienza economica, li invitò a copiare il modo di vivere dei Bianchi e le loro tecniche agricole, pur preservando rigorosamente l’essenza della cultura tribale.
Nel 1811 le sue aspettative avevano cominciato a dare buoni frutti e l’embrione dell’alleanza che potesse dare vita allo “Stato Indiano” si stava sviluppando rapidamente.
Purtroppo per lui, il fratello Tenskwatawa, autoproclamatosi Il Profeta, non possedeva minimamente le qualità di Tecumseh e in una fredda giornata di novembre avrebbe vanificato , con la sua avventatezza, tutti gl i sforzi compiuti dal condottiero.

IL CATTIVO PROFETA

Tenskwatawa
Esistono molti dubbi sulle origini del fratello di Tecumseh, soprattutto intorno alla possibilità che si trattasse del suo gemello, ma è comunque certo che quest’uomo fosse di carattere completamente diverso rispetto al condottiero degli Shawnee.
Nato verso il 1775, probabilmente a Piqua, sul Mad River (Ohio) durante la prima giovinezza si chiamò Lakawethika, equivalente a “Sonaglio”, prima di mutare il suo nome in Elskwatawa o poi in Tenskwatawa, che significa “Porta Aperta”.
Di costituzione gracile e carattere pigro, si lasciò ben presto contagiare da uno dei peggiori vizi introdotti dagli Europei, quello dell’alcool. Abbandonato dalla madre e disprezzato dai contribali, lasciò il villaggio per andare a vivere in mezzo ai Bianchi delle città, trasformandosi in un vagabondo rissoso e indisponente, tanto che nel corso di una rissa perse l’occhio destro. Lavorando saltuariamente, fece anche il mozzo e riuscì ad imparare la lingua inglese e a conoscere le abitudini del popolo americano, ma si impadronì pure di una serie di trucchi insegnatigli da un prestigiatore da baraccone.
Dopo l’improvvisa morte del veggente Lalawethika, avvenuta nel corso dei negoziati di Greenville, Tenskwatawa ebbe un’idea folgorante. Gli Shawnee e i loro alleati avevano bisogno di un nuovo profeta e sarebbe stato sciocco sprecare l’occasione offertagli dal destino. Con una decisione repentina, l’uomo trovò la forza di parlare al suo popolo riunito e giurò di avere avuto una visione inviatagli dal Grande Spirito. All’improvviso, l’impudente bevitore si proclamò alfiere del proibizionismo, attaccò duramente gli Americani e mise in guardia gli Indiani dal proseguire sulla strada del vizio, che avrebbe fatto il gioco dei loro nemici. Superando gradualmente lo scetticismo dei suoi ascoltatori, il nuovo leader religioso cominciò a dettare norme di condotta molto rigide, che comprendevano il rifiuto delle bevande alcoliche, il ritorno alle usanze dei padri e l’abbandono dei costumi introdotti dagli Americani. Dopo avere fatto breccia nel cuore di alcuni contribali, Tenskwatawa non esitò a proclamarsi guida spirituale del popolo pellerossa, aggiungendo ai suoi comandamenti nuove regole morali, come l’invito ai giovani ad occuparsi assiduamente delle proprie famiglie e particolarmente degli anziani e delle persone bisognose.
Tecumseh era rimasto più sorpreso che convinto da quella incredibile performance: benchè non avesse mai amato lo sciagurato fratello minore, riusciva a tollerarne la presenza, assistendo incuriosito alla sua improbabile escalation. Forse però, in quel momento il condottiero pensava che i principi etici e gli appelli alla fratellanza lanciati da Tenskatawa potessero giovare alla propria causa.
L’unificazione degli Indiani e soprattutto la fondazione di uno Stato avrebbero richiesto grandi sinergie, un impegno lungo e costante e la fede in un obiettivo comune. Il ritorno ai costumi atavici invocato dal neo-profeta, non poteva che accelerare questo processo, richiamando il popolo pellerossa a fare quadrato intorno alle sue tradizioni etiche e religiose più antiche. Del resto anche Tecumseh dovette presto constatare il carisma che Tenskatawa si stava creando, perché la sua credibilità era in continua crescita, diffondendosi a macchia d’olio fra i Wyandot, i Delaware, i Pottawatomie, i Chippewa, gli Ottawa e i Kickapoo. L’atteggiamento assunto dai nativi dopo il nuovo corso avviato da Tecumseh e dal fratello era divenuto fermo ed intransigente nei confronti dei Bianchi: le tribù respingevano qualunque negoziato, rifiutavano di vendere altre terre e qualcuna si era messa a reclamare quelle cedute in precedenza. Inoltre, bandivano i trafficanti d’alcool, accettando di trattare solo con coloro che offrivano fucili, pistole e polvere da sparo.
Ma uno Stato, seppure in embrione, necessitava di una capitale simbolica e Tippecanoe, voluta da Tecumseh come punto di raccolta principale degli alleati indiani, ne stava assumendo i contorni. Sfruttando abilmente la popolarità acquisita in poco tempo, Tenskwatawa insistette perché il grande villaggio si chiamasse “La Città del Profeta”.
Purtroppo, il progetto degli Indiani, sostenuto soltanto a parole dagli Inglesi del Canada, urtava fortemente contro gli interessi degli Americani.
Il primo a preoccuparsene seriamente fu il governatore del Territorio dell’Indiana, Harrison.
Con lui, Tecumseh e il Profeta avrebbero avuto vita dura.

HARRISON

William Henry Harrison
William Henry Harrison, virginiano come Washington, era nato nel 1773, all’epoca del Boston Tea Party. Suo padre era stato uno dei primi a sottoscrivere la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, assumendo la carica di governatore della Virginia dopo la cacciata degli Inglesi.
Benchè avviato agli studi di medicina, William aveva scoperto ben presto di non nutrirvi troppo interesse, preferendo arruolarsi nella milizia statale che doveva sgominare gli Indiani della Frontiera. Come soldato si era dimostrato eccellente e da ufficiale – era riuscito a salire fino al grado di colonnello – aveva rivelato indiscusse qualità di comando.
Essendo figlio di un rivoluzionario ed avendo vissuto, durante l’infanzia, i momenti cruciali della guerra di indipendenza, sapeva valutare la consistenza e la fattibilità di un progetto insurrezionale. Dunque, a dispetto di molti pareri contrari che lo giudicavano un allarmista, prese nella più seria considerazione le dichiarate intenzioni di Tecumseh di dare vita ad una nazione interamente indiana e studiò attentamente le mosse e la strategia del suo avversario. Quell’uomo, annotò nelle proprie carte, non era meno pericoloso dei grandi condottieri pellirosse che lo avevano preceduto, da Re Filippo a Pontiac: permettergli di portare avanti indisturbato i suoi disegni, avrebbe potuto produrre effetti disastrosi quanto la rivolta di Metacomet nel XVII secolo. Poiché le tensioni fra la giovane repubblica americana e gli Inglesi non si erano allentate, bisognava inoltre impedire che il Canada trovasse fra gli Indiani dei formidabili alleati.
Tecumseh stava gestendo la situazione nel migliore dei modi, esortando la sua gente a copiare le cose migliori portate dai Bianchi, ma rifiutando fermamente i vizi della civiltà. Così gli Indiani si astenevano dal bere l’acquavite, ma imparavano le tecniche agricole degli Americani; rinnegavano la religione dei Bianchi, ma acquistavano volentieri fucili e pistole per la propria armata.
A destra: Tenskwatawa
Tuttavia, anche i punti deboli del progetto di Tecumseh erano parecchi. In primo luogo, i suoi accorati appelli e le trionfalistiche profezie di Tenskwatawa erano riuscite a radunare poco più di 6 o 7.000 persone, con un potenziale di combattenti di poco superiore alle 1,000 unità. Liberarsi degli Americani, cioè di una nazione di 7.000.000 di individui che ormai si stava espandendo verso occidente, non sarebbe stata assolutamente un’impresa facile.
Secondariamente, il capo degli Shawnee non si sentiva sicuro dell’appoggio britannico in caso di conflitto con gli Stati Uniti. Infatti, le autorità canadesi che aveva incontrato più volte, gli ribadivano le loro promesse di aiuto, rimandandolo a casa carico di doni, ma sembravano alquanto evasivi proprio sul progetto di uno Stato indiano fra l’Ohio e la regione dei Grandi Laghi. Nonostante ciò, la sua fede nel risultato finale pareva incrollabile: “Sono determinato ad unire tutti gli Indiani e non darò pace ai miei piedi finchè non vi sarò riuscito.” (J. Tebbel – K.Jennison, “Le guerre degli Indiani d’America”, Newton Compton Ed., Roma, 2002, p.102).
Naturalmente, l’enorme disparità di forze raccomandava di usare tatto e prudenza, lavorando incessantemente per aumentare sempre di più il numero degli adepti. Se l’alleanza si fosse arricchita dell’appoggio delle tribù del Sud-Est, soprattutto di quelle del ceppo muskogee, avrebbe potuto in seguito allargare la sua influenza sui popoli che abitavano lungo il Mississippi, nel Minnesota, nel Missouri, nello Iowa ed anche più ad occidente.
Tecumseh riteneva Harrison un uomo astuto e pericoloso e si guardava bene dal sottovalutarlo. Aveva appreso con rammarico che il 30 settembre 1809 il governatore era riuscito a convincere una parte di alcune tribù – Pottawatomie, Delaware, Miami, Kickapoo – a cedere oltre 200.000 ettari di terra in cambio di una somma di poco superiore ai 10.500 dollari. Alla protesta del leader degli Shawnee, Harrison lo aveva tranquillizzato, dicendogli che la sua tribù era rimasta fuori dall’accordo e non avrebbe subito alcun esproprio. Meno di un anno dopo, il 12 agosto 1810, fra i due esponenti avvenne un incontro molto importante a Vincennes, durante il quale Harrison giunse a promettere di fare il possibile perché agli Indiani fossero restituite le terre cedute. Dal canto suo, Tecumseh, che sembrava stanco delle vane assicurazioni degli Inglesi, giocò una carta a sorpresa, offrendo agli Americani la sua alleanza in caso di ostilità con il Canada.
Purtroppo, nei mesi successivi non accadde nulla di rilevante, perché il governatore non fece i passi annunciati a favore dei Pellirosse, lasciando questi ultimi nella inutile attesa di ciò che non si sarebbe mai verificato. Alla fine, stanchi di essere presi in giro dagli Stati Uniti quanto dall’Inghilterra, molti guerrieri accampati a Tippecanoe si misero a depredare fattorie dei Bianchi sorte nei dintorni, suscitando le proteste dei coloni, che si recarono da Harrison per invocare protezione.
Era la primavera del 1811 e Tecumseh si recò nuovamente a Vincennes, promettendo di cessare gli atti di brigantaggio se gli Americani avessero restituito le terre al suo popolo, ma la risposta del governatore fu molto evasiva. Poi, il leader della nascente nazione unificata partì verso sud-est, per conquistare alla sua causa i Creek, i Choctaw ed i Chickasaw, ma Harrison ne venne subito informato dalle sue spie e ordì immediatamente un piano d’azione, pensando di sorprendere la coalizione durante l’assenza del suo comandante principale.
A settembre, quando Harrison diramò gli ordini di allestire una grossa spedizione militare, l’autorità suprema presente a Tippecanoe era Tenskwatawa, riconosciuto dalla maggioranza dei convenuti come “Il Profeta”.
Conoscendolo meglio della gente che si faceva abbindolare dalle sue previsioni, a cui faceva talvolta seguire falsi prodigi, il fratello gli aveva più volte raccomandato di non attaccare battaglia con i Bianchi fino al suo ritorno. Ma Tenskwatawa si sentiva ormai più potente di Tecumseh.
In un’occasione, essendo venuto a sapere di un’imminente eclissi di sole, aveva annunciato che la terra si sarebbe oscurata all’improvviso, a dimostrazione del potere illimitato che il Grande Spirito aveva concesso al suo profeta.
Quando giunse la notizia che le truppe di Harrison si stavano avvicinando minacciosamente al villaggio di Tippecanoe, Tenskwatawa promise a tutti un grande incantesimo, che avrebbe fermato le pallottole degli Americani, rendendo gli Indiani invulnerabili.
Molti vecchi guerrieri, memori delle sconfitte del passato, non lo credettero: i giovani, senza i saggi consigli di Tecumseh, si lasciarono invece incantare dal ciarlatano che prometteva miracoli.
Di lì a pochi giorni, i fucili di Harrison non avrebbero avuto pietà di loro, mandando in frantumi sia le loro illusioni, che la credibilità di chi le aveva stoltamente alimentate.

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