Le guerre indiane dal 1680 al 1840 – 7

A cura di Domenico Rizzi
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19.


LA FRONTIERA

La rivolta di Pontiac non era stata l’unica ad insanguinare la Frontiera nella seconda metà del XVIII secolo. Nonostante fra i Cherokee e gli Inglesi vi fossero sempre stati rapporti di amicizia e collaborazione, suggellati nel 1730 dal trattato di Dover, dopo la costruzione dei forti Prince George in South Carolina e Loundon nel Tennessee le relazioni cominciarono a guastarsi.
L’azione dei missionari si era fatta sentire fin dal 1752 e molti di questi Indiani avevano accettato di convertirsi al Cristianesimo, ma nel 1758 la tensione causata dall’invadenza dei coloni sfociò in un atto di guerra.
Il ritratto di Cornstalk, lo Shawnee
Il “casus belli” fu provocato dal furto di alcuni cavalli ad opera dei Cherokee, a cui gli Inglesi replicarono con una rappresaglia, uccidendo qualche guerriero. In seguito a ciò, gli Indiani assediarono le fattorie e tagliarono le vie di comunicazione e nel 1759 il governatore della South Carolina, William H. Lyttleton, fece catturare alcuni capi, che vennero condotti a Fort Loundon.
Nel gennaio successivo le razzie indiane ripresero e diversi coloni furono uccisi, per cui gli Inglesi giustiziarono gli ostaggi. Poi il colonnello Archibald Montgomery, per ordine del generale Jeffrey Amherst, invase il paese dei Cherokee con 1.250 uomini, aiutato da guide della tribù dei Catabwa, di lingua sioux. Dopo un durissimo scontro ad Etchoe, gli Indiani dovettero ripiegare, ma le imboscate e gli atti di guerriglia continuarono per alcuni mesi, finchè un secondo contingente britannico, forte di 2.500 uomini e guidato dal colonnello James Grant, non devastò i villaggi nemici, distruggendo tutto ciò che si trovava sul suo cammino. Il trattato firmato nel 1761 costrinse infine i Cherokee a cedere all’Inghilterra una buona parte dei loro territori.
Pochi anni dopo scoppiarono le ostilità fra gli Shawnee e il governatore della Virginia, Lord John Murray Earl di Dunmore, che aveva esteso la colonizzazione ad alcune aree della Pennsylvania e del Kentucky. La protesta dei capi indiani, recatisi in delegazione a Pittsburgh per chiedere un risarcimento, provocò invece il loro arresto. Alcuni di essi furono poi uccisi dai coloni inglesi dopo il rilascio, scatenando le ostilità. Il villaggio di Yellow Creek pagò con 12 morti questo gesto insensato e da quel momento i Pellirosse si misero sul piede di guerra. Alla fine di aprile del 1774 i Bianchi vendicarono l’eccidio uccidendo proditoriamente una quindicina di Indiani, fra i quali sette parenti del capo Tahgahyute, un mezzosangue seneca chiamato anche Logan. A questo punto la guerra rischiava di diventare generale, essendo stati chiamati in causa anche gli Irochesi e i Delaware, ma l’abilità diplomatica degli Inglesi riuscì a scongiurare il peggio.
Un numeroso contingente di 2.500 uomini, comprendente unità di ranger e della milizia coloniale, invase le terre degli Shawnee, avanzando su due colonne principali. La prima, diretta da Lord Dunmore, seguì il corso del fiume Ohio, mentre la seconda, composta da un migliaio di effettivi, muoveva verso sud al comando del colonnello Andrew Lewis.
Lo scontro più duro avvenne il 10 ottobre 1774 lungo il fiume Kanawha, in un posto chiamato Point Pleasance. Il capo Hokolesqua, noto anche come Cornstalk, condusse 1.000 guerrieri all’assalto della colonna di Lewis, accampata alla confluenza del Kanawha con il fiume Ohio e la sbaragliò, uccidendone il comandante, 7 ufficiali, 66 sottufficiali e soldati e ferendo 140 uomini. Secondo testimonianze indiane, le perdite degli Shawnee non andarono oltre i 22 morti ed una ventina di feriti.
Ma la guerra non durò per molto tempo, perché in ottobre gli Indiani, consapevoli di non essere in grado di fermare l’avanzata britannica, si decisero a negoziare la pace.
Da alcuni mesi, nelle colonie nordamericane era in atto un fermento che avrebbe portato, entro pochi mesi, alla rivolta armata contro la madre patria.

LA RIVOLUZIONE AMERICANA

Le spese sostenute dalla Gran Bretagna durante la guerra dei Sette Anni e nella successiva insurrezione di Pontiac formarono la premessa per un inevitabile scontro fra la popolazione delle colonie e la corona, sempre più incapace di comprendere le esigenze dei sudditi americani.
In conseguenza del notevole sforzo finanziario sostenuto, gli Inglesi applicarono nuove imposte e inasprirono quelle già esistenti, suscitando una protesta crescente dal 1765 in poi.
Da anni le 13 colonie (New Hampshire, Massachussets, Connecticut, Rhode Island, New York, New Jersey, Pensylvania, Maryland, Virginia, Delaware, Georgia, North e South Carolina) avevano sviluppato economie floride ed in continua crescita, consolidando i rispettivi assetti territoriali ed assumendo sempre più l’aspetto di un’enclave autonoma nel variegato mosaico dell’impero britannico.
Dopo aver debellato a più riprese i Pellirosse, i coloni aspiravano ad allargare i loro possedimenti verso occidente, al di là della catena dei Monti Appalachi, in direzione dei Grandi Laghi e del fiume Mississippi.
L’ascesa al trono di Giorgio III si era rivelata un pesante freno alla loro azione, perché l’Inghilterra – temendo che l’eccessivo potenziamento delle colonie nordamericane accentuasse le spinte autonomiste di alcuni territori – aveva posto un severo divieto al superamento dei confini imposti. Con un discusso proclama del 1763, infatti, il re aveva definito “Indian Country” le regioni ad occidente degli Appalachi, ordinando ai coloni di evacuare le proprietà tribali.
In secondo luogo, vi era addirittura il timore che l’espansione verso ovest potesse creare conflitti intercoloniali, nei quali la madre patria avrebbe dovuto necessariamente svolgere un ruolo da paciere.
Da ultimo, l’aumento della pressione fiscale, ufficialmente dovuta alle spese di guerra, ebbe il potere di alimentare il diffuso malumore fra i colonizzatori americani di lingua inglese.
La protesta iniziale riguardò l’introduzione dei dazi e delle carte bollate. Se la prima tassa venne accolta abbastanza pacificamente, in quanto gravava solamente sui prodotti importati dall’esterno, la seconda (Stamp Act,1765) causò la prima vera ribellione dei cittadini, che ammucchiarono la carta bollata e vi diedero pubblicamente fuoco, ottenendo nel 1766 la revoca dell’imposizione. Quasi nessuno degli oltre 2 milioni e mezzo di Nordamericani pensava però, in quel momento, ad una vera e propria lotta per l’indipendenza e Giorgio III rimase, ancora per un decennio, l’indiscusso sovrano delle colonie del Nord America.
A destra, un ritratto di Franklin
Negli anni successivi, la pressione fiscale inglese riprese a crescere, imponendo nuove tasse sulla carta, sul vetro, sulle vernici e sul tè. Il 5 marzo 1770 un gruppo di dimostranti venne disperso a fucilate dalla guarnigione di Boston, che uccise 5 dimostranti. Poi, nel giugno 1772, un’altra banda di contestatori incendiò un “cutter” delle dogane inglesi al largo del Rhode Island. In dicembre, esistevano già nel Massachussets decine di gruppi di protesta denominati “Comitati di Corrispondenza”, presenti in 75 città e villaggi. Contemporaneamente in Virginia ed altrove si costituivano le “Assemblee Permanenti” per seguire l’evolversi della situazione e prendere decisioni comuni.
Tutto ciò non lasciava ancora supporre lo scoppio di una vera rivoluzione, perché il distacco dalla madre patria veniva invocato soltanto dal minoritario Movimento Radicale. Benjamin Franklin, rappresentante delle colonie a Londra, scrisse infatti al riguardo: “In mezzo a noi sembra esistano spiriti violenti che sono favorevoli ad una rottura immediata, ma io confido che la generale prudenza del nostro Paese riconosca che, grazie alla nostra crescente forza,(..) le nostre richieste saranno appagate…” (Winston Churchill, “L’età della rivoluzione”, Bur, Milano, 2003, p. 175)
Per acquietare la protesta, il governo inglese si decise ad abolire i dazi ed altre gabelle, ma mantenne l’imposta sul tè, non foss’altro che per riaffermare il proprio diritto ad imporre tasse ai propri sudditi d’oltre oceano.
John Adams
Per reazione, i coloniali incominciarono ad approvvigionarsi di questo prodotto in Olanda, mandando in crisi la Compagnia delle Indie Orientali, venutasi a trovare, in poco tempo, con milioni di libbre di thè invenduto. Per risolvere la questione, la Compagnia decise di abbassare notevolmente il prezzo del prodotto e ne spedì tre navi cariche nel porto di Boston, nella speranza di riconquistare i consumatori americani. Questi però, dopo essersi consultati fra loro, mandarono una squadra di sabotatori, travestiti da Indiani, nel porto di Boston e una notte di dicembre del 1773 gettarono a mare l’intero carico.
John Adams, futuro presidente degli Stati Uniti, scrisse che la “distruzione del thè” era stata così “ardita, temeraria, decisa, intrepida, inflessibile” da rappresentare “una pietra miliare nella storia” (Churchill, op. cit., p. 176).
Nel settembre 1774 le colonie tennero un’assemblea generale a Philadelphia e redassero un documento comune in cui chiedevano a Londra l’abolizione di diversi decreti commerciali emanati negli ultimi anni. Il governo inglese respinse categoricamente la petizione e il governatore del Massachussets, generale Thomas Gage, istituì la legge marziale. In ottobre le colonie avevano già dato vita ad un “Comitato di Salute” e stavano mobilitando uomini armati un po’ dovunque: in poco tempo avrebbero avuto a disposizione 10.000 rivoltosi soltanto nel Massachussets, ai quali la Gran Bretagna poteva opporre circa 4.000 soldati di guarnigione.
L’8 aprile 1775, lungo la strada fra Lexington e Boston, 70 miliziani coloniali sfidarono 800 militari inglesi incaricati di distruggere un deposito illegale di armi a Concord. Le truppe britanniche riuscirono a proseguire, uccidendo 8 indipendentisti, ma ormai la rivolta si stava accendendo in altre località.
La rivoluzione americana era incominciata.

IL PROBLEMA INDIANO

Al momento dello scoppio delle ostilità, l’opinione pubblica inglese sembrava molto divisa sull’impiego di ausiliari indiani contro i ribelli delle colonie.
Nel corso di un acceso dibattito parlamentare, vi era chi stigmatizzava l’uso dei guerrieri pellirosse, come si era fatto varie volte nei conflitti anglo-francesi, per la loro indiscutibile ferocia.
Lo stesso massacro di Fort William Henry e le più recenti distruzioni provocate dalla “Cospirazione di Pontiac” costituivano una ragione sufficiente a rinunciare all’appoggio di questi “selvaggi sanguinari” in una contesa che costituiva, per l’Inghilterra, un “affare di famiglia”.
Anche Sir William Pitt, conte di Chatham e ministro della corona, stigmatizzò in un appassionato discorso, il loro “cannibalismo impietoso e la sete per il sangue dei nostri uomini, donne e figli” (John Tebbel-Keith Jennison, “Le guerre degli Indiani d’America”, Newton & Compton, Roma, 2002, p. 78).
Red Jacket
Purtroppo le dichiarazioni d’intenti non servirono a tenere gli Indiani fuori dal conflitto, sebbene il Congresso delle colonie avesse esortato diverse tribù a mantenere un’assoluta neutralità.
William Johnson, l’uomo che aveva coinvolto gli Irochesi nella Guerra dei Sette Anni contro la Francia, si era già adoprato affinché le Sei Nazioni spalleggiassero l’Inghilterra nel nuovo conflitto coloniale. Alla sua morte, avvenuta mentre si spargeva l’eco dei primi moti insurrezionali, il genero, colonnello Guy Johnson, proseguì la sua opera, gratificando gli Indiani di molti doni in cambio del loro intervento.
La forza di guerra potenziale degli Indiani era ancora notevole: se ogni tribù avesse fornito tutti i guerrieri disponibili, si sarebbe raggiunto il considerevole numero di 30.000 combattenti.
La naturale predisposizione alla guerriglia dei Pellirosse, avrebbe reso questa presenza, almeno in alcune regioni, determinante, ma per una serie di ragioni nessuno dei due contendenti potè assicurarsi l’appoggio completo di una simile armata.
Diverse tribù rimasero neutrali, la maggior parte di quelle entrate in conflitto ribadì la propria fedeltà alla corona ed altre parteggiarono per gli Americani, creando uno scacchiere assai complesso e non sempre comprensibile.
Comunque, sia gli Inglesi che gli indipendentisti tentarono di ottenere l’alleanza dei nativi, sfruttando la loro abilità tattica e soprattutto la conoscenza dei luoghi che sarebbero stati teatro dello scontro.
Qualche anno più tardi, il generale George Washington, comandante supremo dei rivoltosi, presentò al Congresso provvisorio la richiesta di arruolare 400 ausiliari indiani fra le proprie file.
In realtà, a quel punto della guerra, anche gli Inglesi avevano già sfruttato l’aiuto dei Pellirosse, perché Thomas Jefferson accusò il re Giorgio III di avere sollevato “contro gli abitanti delle nostre frontiere i selvaggi e spietati indiani la cui ben nota condotta di guerra è di sterminare senza pietà esseri di ogni sesso, età e condizione.” (Philippe Jacquin, “Storia degli Indiani d’America”, Mondadori, Milano, 1977, p. 122).
I combattenti pellirosse impiegati nel corso della Rivoluzione non furono certamente lo stesso numero presente in precedenti contese. Nessun contingente, inglese o americano, ne ebbe mai a disposizione più di un migliaio per volta.
La lega irochese si frazionò di nuovo, indebolendosi ulteriormente: Oneida e Tuscarora si schierarono con gli insorti, le altre tribù si mantennero fedeli all’Inghilterra oppure, in minima parte, cercarono di tenersi fuori dalle vicende belliche.
Fra queste ultime, i Seneca di Sagoyawatha o Giacca Rossa, che tuttavia decisero in seguito di passare con l’Inghilterra per sostenere l’azione dei fratelli Onondaga, Cayuga e Mohawk.
Nel 1777 i Cherokee firmarono un trattato di pace con gli Americani, ma la fazione di Trascina-La-Canoa lo respinse, trasferendosi sul Chickamagua Creek per proseguire le ostilità contro gli insorti. Invece Cornstalk (Hokolesqua) capo degli Shawnee, si limitò a diffidare gli Americani dal compiere rappresaglie contro la propria gente, ma a Fort Randolph, vicino a Point Pleasance, in Virginia, cadde in una trappola e venne trucidato insieme ad altri dignitari della tribù recatisi a parlamentare con la bandiera bianca. Dopo il suo assassinio, sul quale le autorità americane fecero aprire un’inchiesta, lo scettro della nazione shawnee passò nelle mani del focoso Pesce Nero, che guidò una spedizione punitiva contro Harrodsburg, nel Kentucky, massacrando 5 persone. Quindi, nell’aprile 1778, portò un attacco contro Boonesborough, l’insediamento fondato da Daniel Boone, ma l’assedio si protrasse inutilmente per diversi mesi.
Ai primi di luglio del 1778 gli Irochesi filo-britannici si unirono alle truppe del colonnello John Butler per assalire e saccheggiare la Wyoming Valley della Pennsylvania. La spedizione ebbe effetti devastanti sulla colonia, nella quale vennero uccisi più di 300 miliziani americani e 200 coloni e distrutte 1.000 fattorie.
L’11 novembre dello stesso anno, sotto il comando di Walter Butler – figlio di John – più di 600 Irochesi ripeterono la razzia a Cherry Valley, nel territorio di New York. All’azione presero parte soprattutto i Mohawk di Thayendanegea, chiamato Joseph Brant, i Seneca di Guacinge e del mezzosangue Garganwahgah, detto Cornplanter, figlio di John Abeel e di una squaw irochese. Il villaggio venne distrutto e dato alle fiamme, lasciando sul terreno 42 soldati americani e 32 civili, mentre svariate decine di prigionieri furono condotti via. Di molti di loro, nessuno seppe più nulla. Anche in quest’occasione la ferocia degli Indiani esplose senza freni, al punto che il colonnello Butler censurò severamente il figlio Walter, per avere permesso – come Montcalm a Fort William Henry – che la barbarie prevalesse sulla pietà. Ma, per amore del vero, occorre sottolineare anche qualche episodio edificante, come quello che vide protagonista il capo Thayendanegea, protettore e salvatore della famiglia Shankland, affidata alla rigida sorveglianza dei suoi temibili guerrieri.

LA DISFATTA DEGLI IROCHESI

John Jay
Nel 1779 la guerra per l’indipendenza delle colonie aveva ancora esiti incerti, ma gli Americani pensarono a sbarazzarsi del pericolo costituito da Shawnee e Irochesi ostili.
Il 10 luglio il colonnello John Bowman assalì con 250 uomini il grande villaggio shawnee di Chillicothe, sul fiume Little Miami, riuscendo a conquistarlo abbastanza facilmente per l’assenza di molti guerrieri, impegnati in una spedizione di caccia. I suoi uomini si accanirono contro le capanne e le palizzate di difesa, ma il ritorno del grosso degli Indiani li costrinse a ritirarsi precipitosamente.
Il maggior generale John Sullivan assunse invece il comando di un esercito di 4.200 soldati e miliziani per devastare il territorio delle Sei Nazioni e spegnerne per sempre lo spirito guerriero. In settembre, un corpo di spedizione da lui personalmente comandato, seguì il fiume Susquehanna, fino al limite della colonia di New York, mentre una seconda colonna, guidata dal generale James Clinton, invadeva la Mohawk Valley costeggiando il Lago Otsego e una terza, affidata al colonnello Daniel Brodhead, muoveva da Pittsburgh in direzione dei Monti Allegheny.
Purtroppo per gli indiani, l’operazione ebbe pieno successo.
Le truppe americane occuparono la Gennessee Valley, distruggendo uno dopo l’altro una quarantina di villaggi e uccidendone tutti gli occupanti che incontravano sul loro cammino. Dapprima toccò ai Seneca di Thayendanegea e Sagoyewatha, poi ai Cayuga ed agli Onondaga. Sullivan adottò la strategia della terra bruciata, facendo abbattere 1.500 alberi di pesco, razziando e uccidendo il bestiame e ordinò di incendiare 160.000 staia di grano. Gli Indiani raccontarono che la pelle di un guerriero seneca, caduto prigioniero degli Americani e fatto scorticare vivo, venne utilizzata per confezionare un paio di gambali. (Edmund Wilson, “Dovuto agli Irochesi”, Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 133). I superstiti si rifugiarono a Fort Niagara, mettendosi sotto la protezione inglese.
In ottobre, mentre Sullivan informava John Jay, presidente del Congresso americano, della grande vittoria riportata, il colonnello Brodhead proseguiva nell’opera di distruzione in Pennsylvania, affrontando e sconfiggendo bande sparse di Seneca e di Mingo. I suoi uomini diedero alle fiamme centinaia di “wigwam” e devastarono altri 200 ettari di zone coltivate.
Da questa tremenda disfatta gli Irochesi non si sarebbero mai più ripresi. Anche se alcune delle loro bande continuarono la guerra al fianco degli Inglesi, ormai la loro supremazia era stata infranta. Ridotti a poche migliaia di persone, senza più una guida politica sicura, si ritrovarono deboli ed esposti alle rappresaglie della nascente nazione americana.
A destra, Daniel Brodhead
In realtà avevano molto da recriminare sulle scelte effettuate nel corso della loro travagliata storia. Erano responsabili della distruzione degli Uroni, che appartenevano al loro stesso gruppo linguistico e avevano continuato a guerreggiare con molte tribù algonchine e sioux, sterminandosi in un’assurda faida che avrebbe soltanto spalancato le porte all’avanzata dei Bianchi.
Secondo stime attendibili, la popolazione Irochese – esclusi i Tuscarora, entrati più tardi nella Lega – contava quasi 22.000 elementi nel 1630. Dopo essere scesa a sole 3.700 unità verso il 1730, all’epoca dei primi moti insurrezionali americani, l’intera nazione era salita ad oltre 7.000 membri.
Al termine della Rivoluzione la consistenza demografica del popolo Irochese aveva toccato nuovamente il proprio minimo storico.

LA BARBARIE CONTINUA

Nel corso del 1780 gli Indiani alleati della corona britannica tormentarono gli insediamenti nella vallata del Mohawk River, uccidendo 150 persone e costringendo il governo provvisorio della Pennsylvania a ripristinare le taglie per chi consegnasse lo scalpo di un Pellerossa.
sevierJohn Sevier
Nel corso dell’inverno 1780-81, John Sevier, un pioniere della North Carolina, si creò la fama di sterminatore d’Indiani, annientando dapprima una banda di 80 Cherokee e radendo poi al suolo alcuni dei loro villaggi. La sua azione di rappresaglia si protrasse senza sosta per tutto l’anno successivo.
L’8 marzo 1782 la violenza dei Bianchi si accanì contro un gruppo di 98 pacifici Delaware convertiti al Cristianesimo dai missionari.
La milizia della Pennsylvania, comandata dal colonnello David Williamson, li rastrellò a Gnadenhutten e decise, con tanto di votazione, di metterli a morte, per punire precedenti crimini commessi dagli Indiani. Il massacro fu uno dei più spietati e rivoltanti di tutta la storia d’America, perché venne eseguito con ogni tipo di arma propria ed impropria. Morirono in modo spaventoso 35 uomini, 27 donne e 34 bambini, mentre soltanto 2 ragazzi si salvarono con la fuga.
A maggio, il generale George Washington, ormai prossimo alla vittoria finale contro gli Inglesi dopo il successo ottenuto a Yorktown, incaricò il colonnello William Crawford, suo amico personale, di guidare una spedizione di 300 uomini contro i Delaware e i loro alleati Wyandott lungo il fiume Sandusky, nell’ Ohio.
Un capo Wyandott
L’ufficiale, benchè uomo esperto, non riuscì tuttavia ed evitare una sconfitta sull’Upper Sandusky, perse molti soldati e per sua disgrazia venne catturato vivo dai nemici guidati dal capo Hopocan, che lo processarono immediatamente, condannandolo al supplizio. Inutilmente Crawford si avvalse della mediazione di Simon Girty, che conosceva la lingua dei Delaware, per tentare di salvarsi la vita. Il colonnello offrì 1.000 dollari in contanti in cambio della propria liberazione, ma i capi indiani diedero ugualmente il via alla tremenda tortura che l’attendeva. “Nonostante ciò, Girty non si stancò di intercedere in suo favore, ma quando gli furono tagliate le orecchie dai suoi giustizieri, Crawford invitò Girty a lasciar perdere, essendo il suo destino era ormai segnato. Fu legato ad un palo che spuntava da un letto di carboni ardenti su un fuoco acceso, alimentato da corteccia di quercia.
George Washington
E così il colonnello Crawford fu bruciato vivo.” (Peter D. Clark, “Origins and Traditional History of the Wyandots”, Toronto, 1870, p. 78).
Nel 1783 gli insorti di Washington e i rappresentanti della corona inglese firmarono il trattato di pace a Parigi. A dicembre, l’ultimo contingente militare britannico, al comando di Sir Guy Carleton, abbandonò New York: gli Stati Uniti d’America, dopo sette anni di lotta, erano ormai diventati una realtà.
La nuova nazione comprendeva 13 Stati ed una popolazione di 3.000.000 di abitanti, ma si affacciava su un territorio immenso, che si stendeva ad occidente fino al Mississippi, riconosciutole dai patti di Versailles.
Gli Indiani rimasti fra il Grande Fiume e la costa dell’Atlantico erano in tutto 150.000, in larga misura ancora legati ai costumi atavici e alle religioni tradizionali.
Nessuna magia avrebbe potuto salvarli dall’infelice sorte che li aspettava nei decenni successivi.

I NUOVI COLONIZZATORI

Agguato a Fort Stanwix
Dopo aver concluso la pace con la nuova nazione, gli Inglesi mantennero la loro presenza nel Nord America soprattutto attraverso l’immenso possedimento del Canada. Tuttavia trascorsero alcuni anni prima che alcune postazioni militari, situate a sud e ad ovest del fiume Ohio, venissero completamente evacuate. Ciò indusse diverse tribù indiane, che avevano sostenuto la Gran Bretagna durante la guerra di indipendenza, a ritenere che la corona inglese potesse giocare ancora un ruolo decisivo ai margini della confederazione statunitense, appoggiando una parte delle loro rivendicazioni territoriali.
Infatti, sia i Creek che altre tribù della zona rimaste fedeli a Londra, ribadirono la loro lealtà al comandante di Fort Augustine, una delle roccaforti britanniche della Florida in attesa di essere sgomberata.
Durante i negoziati di pace condotti a Parigi nell’autunno 1782, gli Americani mostrarono chiaramente di non voler riconoscere alcun diritto di suolo agli Indiani, che consideravano dei semplici occupanti. Ciò significava indubbiamente, per i Pellirosse, un notevole passo indietro, poiché disconosceva gli accordi siglati nel 1768 a Fort Stanwix, che delimitava le loro aree di influenza alle sponde del fiume Ohio.
Una delle poche voci levatesi a difesa dei nativi nordamericani fu quella del rappresentante di Spagna Pedro Abarca, conte de Aranda, il quale sentenziò, senza mezzi termini: “Quel territorio è proprietà di nazioni indiane, libere ed indipendenti e voi (Americani) non avete alcun diritto su di esso.” (Wilcomb E. Washburn, “Indiani d’America”, Ed. Riuniti, Roma, 1992, p. 181).
Ovviamente la requisitoria di Aranda sembrò a tutti motivata da ragioni ben diverse da un’esigenza di rispetto degli indigeni: la Spagna non aveva certo riconosciuto alcuna sovranità agli Arawak, agli Aztechi, ai Maya e agli Inca nel XVI secolo, massacrandoli e deportandoli senza pietà. Anzi, se si voleva parlare di genocidio sistematico e spregiudicato nel Nuovo Mondo, questo era stato compiuto proprio agli Spagnoli guidati da Cortès, De Soto, Ponce de Leon e Pizarro, al cui paragone, Inglesi, Francesi e coloniali americani si potevano considerare dei semplici dilettanti.
William Franklin
L’unico esponente di lingua inglese che denunciò il sopruso ai danni degli Indiani, fu William Franklin, figlio del rivoluzionario Benjamin, rimasto fedele, a differenza del padre, alla madre patria durante l’insurrezione delle 13 colonie. Il suo intervento non modificò tuttavia le decisioni prese.
Se gli Stati Uniti non riconoscevano affatto la sovranità dei Pellirosse, i Britannici non si impegnarono eccessivamente per sostenere le loro legittime rivendicazioni. Per questo, l’agente indiano per gli Irochesi in Canada, Daniel Claus, lamentò che il suo governo non avesse opportunamente informato Richard Oswald, plenipotenziario inglese alle trattative di Parigi, sui diritti formalmente riconosciuti in passato agli Indiani da parte della corona.
Punto nell’orgoglio, il governo britannico cercò almeno di salvare il salvabile offrendo la propria disponibilità a proteggere le tribù lealiste dalla inevitabile ritorsione americana.
Un ritratto di Joseph Brant
Il comandante militare del Canada, generale Frederick Haldiman, offrì a Joseph Brant e ai suoi Mohawk un ampio territorio, invitando molte altre nazioni ad attraversare il confine per porsi sotto la sua giurisdizione. L’iniziativa, accolta da un certo numero di bande, causò la frantumazione delle confederazioni e delle alleanze esistenti, ma impedì la distruzione di parecchi nuclei tribali.
Da quel momento in poi e per tutto il secolo successivo, la politica inglese verso gli Indiani si potè considerare relativamente illuminata rispetto a quella di Washington. Non a caso, nel 1876-77 parecchie tribù del territorio statunitense – fra cui i Sioux di Toro Seduto ed i Nez Percè di Capo Joseph – avrebbero cercato asilo in terra canadese, per sottrarsi alle rappresaglie o sfuggire alle imposizioni del governo federale americano.
I nuovi colonizzatori, ansiosi di espandersi verso occidente, si guardarono bene dal riconoscere qualsivoglia diritto di proprietà ai “selvaggi”.
Con un nuovo trattato siglato a Fort Stanwix nell’ottobre 1784, costrinsero gli Irochesi a cedere ulteriori porzioni di territorio negli Stati del New York e della Pennsylvania, concedendo soltanto qualche privilegio a quelle tribù – come gli Oneida e i Tuscarora – che avevano affiancato gli insorti nel corso della Rivoluzione.
Il consiglio delle Sei Nazioni, o di quanto rimaneva di esse, respinse la validità del patto nel 1786, ma non ebbe la forza di violarlo, non essendo più in grado, dopo le batoste subite nel recente passato, di rischiare una guerra con gli Americani.
Diversa fu invece la reazione delle tribù algonchine più occidentali, quali gli Shawnee, i Delaware, i Wyandot, gli Ottawa, i Potawatomie, i Chippewa e i Miami, che nel 1785-86 diedero vita ad una nuova unione di tipo federativo. Il loro scopo dichiarato era di opporsi con ogni mezzo alla cessione di altre terre agli Stati Uniti: perciò i loro rappresentanti stabilirono che ogni negoziato in merito dovesse essere trattato dal consiglio intertribale, anziché dalle singole tribù alleate. Inoltre venne ribadita la legittimità della linea di demarcazione dei territori indiani fissata sul fiume Ohio e furono respinte le pretese espansionistiche americane oltre tale limite.
Il governo degli Stati Uniti disconobbe la confederazione ed i diritti da essa invocati, accettando solamente una conferenza generale delle tribù, che si tenne all’inizio del 1789 presso Fort Harmar, per confermare quanto già statuito nell’ultimo trattato di Fort Stanwix, cioè la cessione di molti territori ai coloni.
Di fronte ad un simile atto di forza, le tribù si riunirono e incominciarono a parlare di ostilità. L’ennesima, sanguinosa guerra di frontiera era ormai questione di mesi.

L’ORDINANZA DEL NORD OVEST

La tesi prevalente fra gli Americani, rispetto alle obiezioni dei Pellirosse, si poteva sintetizzare in una semplice frase: “Un pugno di Indiani non può fermare i progressi della civilizzazione” (Philippe Jacquin, “Storia degli Indiani d’America”, Mondadori, Milano, 1977, p. 123).
Il ritratto di Little Turtle
Con il Proclama del Nord Ovest del 1787, che disciplinava l’organizzazione delle regioni ad ovest dei Monti Appalachi, venivano istituiti dei distretti, amministrati da un governatore nominato dal Congresso. Ciascun distretto diventava Territorio e poteva creare un’assemblea legislativa al raggiungimento dei 5.000 abitanti maschi di razza bianca: per poter assurgere al rango di Stato membro, avrebbe dovuto possedere invece una popolazione di 60.000 individui.
Sulla base dell’ordinanza emanata, si costituì l’immenso Territorio del Nord-Ovest, formato dagli odierni Stati dell’Ohio, Indiana, Michigan, Illinois, Wisconsin e Minnesota, aministrato dal governatore Arthur Saint Clair, generale e veterano della guerra di indipendenza.
La rapidissima crescita demografica della nuova nazione e l’arrivo costante – in forte aumento dopo la vittoriosa guerra contro gli Inglesi – di immigrati europei, avrebbero facilitato enormemente il compito ai successori di George Washington.
Nel 1790 gli Stati membri erano costituiti da: Connecticut, Delaware, Georgia, Maryland, Massachussets, New Hampshire, New Jersey, New York, North e South Carolina, Pennsylvania, Rhode Island e Virginia. Ad essi si aggiunsero, nel breve volgere di un quinquennio, Vermont, Kentucky e Tennessee.
Inoltre, il 16 luglio 1790, fu istituito il Distretto di Columbia, del quale avrebbe fatto parte più tardi la nuova capitale Washington.
Il censimento effettuato nel 1790 accertò che i cittadini statunitensi – esclusi i Pellirosse e gli schiavi importati dall’Africa – ammontavano a quasi 4.000.000. In pratica, un numero dieci volte superiore a quello di tutti gli Indiani presenti sul suolo nordamericano dalla Costa Atlantica al Pacifico, non contando gli indigeni canadesi e quelli ancora sottoposti alla sovranità ispanica (Florida, Texas, California, Arizona, Nuevo Mexico, Utah e Colorado meridionali).
Che cosa sperassero di ottenere le tribù confederate dalla potenza che le minacciava da oriente, rimane una domanda puramente accademica.
Probabilmente la maggior parte di esse era consapevole, alla luce delle negative esperienze precedenti, che una guerra totale non avrebbe sortito grandi effetti.
Tuttavia, per un’esigenza di sopravvivenza e per la dignità che ciascun popolo conservava, non era possibile intravedere soluzioni diverse dal conflitto armato, anche se questo si fosse concluso nella maniera più disastrosa.
Su questa linea priva di reali alternative, i capi dell’alleanza discussero a lungo, cercando di delineare una strategia che servisse almeno a contenere l’invadenza dei coloni.
Benchè fossero ormai lontani i tempi di Metacomet e Pontiac, ancora una volta l’abilità tattica degli Indiani avrebbe avuto il suo alfiere in un condottiero audace ed intelligente.
Quest’uomo si chiamava Michikimikwa (Piccola Tartaruga) ed era nato nel territorio dell’Indiana intorno al 1752, da padre miami e madre mohicana. Durante la Rivoluzione aveva fornito un valido appoggio agli Inglesi, sconfiggendo il contingente francese guidato da Augustine de La Balme, respinto con la perdita di 80 soldati mentre cercava di riconquistare Detroit.
Intorno a questo “leader” trentottenne si riaccesero presto le speranze delle tribù piantate in asso dagli ex alleati britannici e assediate dalla civilizzazione.
Sarebbe stata una nuova, prepotente riaffermazione dell’orgoglio pellerossa: un’effimera ascesa seguita dalla immancabile, rovinosa caduta.

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