Selvaggio West, intervista a Domenico Rizzi


Domenico Rizzi e la copertina del suo nuovo libro

Come i nostri affezionati amici della frontiera ben sanno, recentemente è uscito il nuovissimo libro del nostro Domenico Rizzi, “Selvaggio West”, per i tipi dell’Editore Chillemi, Roma. Lo abbiamo recensito pochi giorni fa (CLICCA QUI!)
Si tratta della 25^ pubblicazione di questo prolifico e preparatissimo autore che ha dedicato la maggior parte delle sue opere allo studio ed alla divulgazione della storia del West americano.
A Domenico Rizzi abbiamo fatto una piccola intervista che si rivela assai preziosa per tutti noi per via di certe risposte che sono esse stesse importanti elementi che arricchiscono la nostra conoscenza del west.
Eccola!
DOMANDA: Rizzi, dopo il recentissimo “Frontiere del West”, perché un altro libro su questo tema?
RISPOSTA: Sono due libri molto diversi fra loro. “Frontiere del West”, pubblicato con l’editore Parallelo45 tempo fa, comprende delle tematiche specifiche, che vanno dalla misteriosa morte di Meriwether Lewis all’analisi sulle responsabilità del generale Custer a Little Big Horn, comprendendo alcune biografie, come quella di Buffalo Bill e Geronimo e dedicando un ampio spazio al cinema. “Il selvaggio West” è invece una “summa” dell’intero periodo della colonizzazione, dai primi dell’Ottocento alla fine del secolo.

D. Quali gli argomenti?
R. I cacciatori di pellicce, gli esploratori, gli emigranti verso il West, gli usi e costumi dei Pellirosse delle pianure, le guerre indiane, l’epopea del cowboy, gli sceriffi, i fuorilegge, le donne della Frontiera. Ecco, la parte sulle donne è particolarmente interessante, perché di solito nei libri western si parla soprattutto di uomini.

D. Oltre a questa, quali le novità contenute nel tuo nuovo libro?
R. Moltissime. Ho parlato di personaggi che non vengono quasi mai tirati in ballo da altri autori, quali l’indiana Sarah Winnemucca, l’eroico vicesceriffo Elfego Baca, il capitano George Sokalski ingiustamente degradato ed espulso dall’esercito, il pistolero per una notte Jim Riley della “Strage di Newton”… In ogni capitolo ho condensato parecchi personaggi, donne e uomini, cercando di dare all’opera la maggior completezza possibile, impresa non certo facile, perché i protagonisti della Frontiera furono migliaia.

D. Dunque, nonostante le centinaia di pubblicazioni sul West, rimane ancora molto da scrivere…
R. Direi proprio di sì. Si è scritto parecchio e non sempre bene. Sai di cosa deve liberarsi questo periodo storico? Dei luoghi comuni, ripetuti ed enfatizzati da letteratura e cinema fino alla nausea. Spesso si ha l’impressione che certi autori si scopiazzino l’uno con l’altro, riproponendo minestra riscaldata, appiattendosi su una critica di stampo monocorde.

D. Ma c’è stato anche il revisionismo, a partire dalla fine degli Anni Sessanta.
R. Certo, ed ha prodotto anche qualcosa di buono, ma non è riuscito ad affrancarsi dal conformismo, anzi spesso ne ha creato uno peggiore. Oggi, se vuoi scrivere sul West, devi fare tabula rasa nella tua mente e affrontare ogni argomento come se non ne avessi mai sentito parlare. Ovviamente non è facile liberarsi della leggenda, perché Belle Starr rimarrà per sempre – grazie alla fantasia di un cronista dell’epoca – la “Regina dei fuorilegge”, ma il compito dello scrittore è rivisitare i fatti senza preconcetti. Su Custer, ad esempio, sono state scritte nefandezze di ogni genere che non hanno alcun collegamento con la realtà e spesso nessun fondamento: la spiegazione è che in una certa epoca bisognava ad ogni costo difendere il “mito del buon selvaggio” e trovare un capro espiatorio per gli errori commessi dal governo nelle politiche rivolte agli Indiani.

D. Dunque non esiste un divisorio netto fra buoni e cattivi?
R. Nella conquista del West non vi sono buoni e cattivi, ma persone di origine diversa che difendono ciascuno il proprio modo di vivere e di pensare. Il Pellerossa si batteva per conservare le proprie abitudini, ci mancherebbe altro. L’emigrante, spesso appena giunto da un’Europa affamata o dilaniata dalle guerre, cercava un posto dove ricominciare una vita decente. Dietro di loro arrivarono gli affaristi, gli speculatori, le persone che maneggiavano grossi capitali e miravano alla fortuna e alla ricchezza. Molti di questi soggetti “guastarono” la cultura della gente del West – come sostennero gli scrittori Owen Wister, Max Brand e Frank Gruber – sostituendovi le loro logiche affaristiche.

D. Possiamo separare le azioni negative da quelle positive?
R. Indubbiamente. Siamo costretti a farlo dalle esigenze della nostra società. Comunque, alcuni fenomeni storici, come il nazismo hitleriano e il comunismo staliniano, sono sempre esecrabili al di là di qualsiasi folle giustificazione che si voglia inventare per tali crimini. Più difficile è invece stabilire fin dove arrivi la ragione e quando si passi dalla parte del torto nelle cronache del West. Parlavamo degli Indiani: è vero, spesso vennero massacrati e scacciati dai loro territori, ma non si dimentichi che molti di questi popoli prosperarono a spese di altre tribù, che avevano decimato e scacciato dalle loro sedi originarie prima che arrivassero i Bianchi. Per esempio, i Sioux delle pianure costruirono il loro regno fra le Black Hills e i Monti Big Horn, dopo avere cacciato via con le armi i Kiowa, i Crow, gli Arikara, gli Shoshone ed altre tribù. Un dato che non viene mai tirato in ballo, perché si vogliono dimostrare tesi precostituite, è quello del numero di Indiani morti nelle guerre intertribali: furono molti di più rispetto a quelli uccisi dalle carabine degli Americani, come dimostrano le dichiarazioni di parecchi testimoni indiani.

D. Parliamo delle donne del West, alle quali hai dedicato un capitolo intero del tuo nuovo libro.
R. Quando si discute del West, le donne citate sono quasi sempre Calamity Jane, le banditesse Belle Starr e Etta Place, oppure la moglie del generale Custer, Libbie Bacon. Leggendo parecchi libri al riguardo, mi è venuto spontaneo dire “Basta, per favore!”. Vi furono anche una certa Esther Morris che ottenne il diritto di voto per le donne nel Wyoming nel lontanissimo 1869; Ann Eliza Webb, moglie del capo dei Mormoni, che denunciò al mondo la poligamia; Sarah Winnemucca, della tribù dei Paiute, che lottò per i diritti della sua gente… e poi tante altre che sopportarono in silenzio la vergogna – tale era considerata dalla morale vittoriana del tempo – di essere state controvoglia mogli di un Indiano: Cynthia Parker, Fanny Kelly, Lucinda Eubank, Clara Blinn, Anna Morgan e centinaia, probabilmente migliaia, di altre.

D. Ecco un argomento che avevi già trattato in “Frontiere del West”. Che dimensioni ebbe questo fenomeno e come reagirono le malcapitate dopo la liberazione?
R. Le donne bianche rapite da tribù indiane prima del 1770 sono quantificate in oltre 1.600, ma si tratta di una statistica approssimata per difetto. E’ probabile che il loro numero sia uguale o superiore nel periodo che va dalla Rivoluzione Americana agli ultimi decenni dell’Ottocento. Manca pure un dato preciso riguardo alle donne messicane catturate da Yaqui, Yavapai, Apache, Navajo e altre tribù di confine del Sud-Ovest. Molte di esse morirono di stenti, come la sorella di Olive Oatman, furono uccise come la Blinn o scomparvero senza lasciare traccia. Quelle che ottennero la liberazione dietro pagamento di un riscatto o per l’intervento dell’esercito o di volontari, dovettero affrontare il becero puritanesimo di molta gente, che non perdonava loro di essere state a letto con un selvaggio. Anna Brewster Morgan fu perseguitata dalle continue allusioni che il marito faceva ai suoi trascorsi fra i Cheyenne e al bambino indiano che aveva avuto dal marito indiano: questa situazione ed altre disgrazie famigliari la condussero alla pazzia. Il novanta per cento delle donne riprese comunque una vita normale nella società. Quasi tutte le nubili si sposarono e qualcuna di esse ebbe addirittura una decina di figli. Riuscirono a superare questo trauma perché erano persone forti, cresciute in ambienti difficili o conflittuali, avvezze a resistere alla fame, al freddo, ai maltrattamenti e alle discriminazioni. Ci si è anche chiesto spesso se molte di esse non preferissero rimanere a vivere con gli Indiani, ma i dati sconfessano apertamente questa ipotesi, perché soltanto il 3 per cento di esse fecero tale scelta. Per citare dei nomi, si possono ricordare Mary Jemison e Millie Durgan, casi rarissimi e giustificati da motivi molto particolari, come ho descritto nel mio precedente libro “Le schiave della Frontiera” nel 2003.

D. Forse i Pellirosse rapivano le donne bianche per ritorsione verso i pionieri che li avevano spossessati delle terre o uccidevano le loro squaw?Questa è la tesi spesso espressa da scrittori e giornalisti.
R. Niente di più falso. Per le tribù nordamericane, come per gli Aztechi, gli Inca, i Maya o gli Arawak (ma anche per molti popoli tribali europei, africani o asiatici) catturare le donne al nemico era un’azione che dimostrava la propria forza e la debolezza dell’avversario che non aveva saputo difenderle. Prima dello sbarco di Colombo, l’usanza esisteva già da millenni in America. La donna era un bottino, alla stessa stregua dei cavalli o delle armi.

D. Cosa sopravvive oggi del West e del genere western?
R. Soprattutto le tradizioni del cowboy, il solitario signore delle praterie, grazie al proliferare di country club e alla diffusione della musica e del ballo country. Il vero mito superstite è questo. Per quanto riguarda il cinema western, si producono quasi solo storie di pistoleri e duelli, come dimostra anche il recente successo di “Django Unchained” e “The Hateful Eight”. Gravemente assente – a parte il bellissimo “Revenant”, basato sulla drammatica vicenda di Hugh Glass – è il western biografico, mentre sono quasi scomparsi i film sugli Indiani. I tempi di “Balla Coi Lupi”, “L’ultimo dei Mohicani” e “Geronimo”, tutti girati negli Anni Novanta, sono abissalmente lontani.

D. Quali film western hai maggiormente apprezzato negli ultimi anni?
R. “The New World”, la storia forse meno romanzata su Pocahontas e John Smith; “Appaloosa”, che riassume una vicenda di pistoleri abbastanza realistica e soprattutto “Il Grinta” nella versione dei fratelli Coen, perché è il più fedele al romanzo di Charles Portis. Poi anche “Meek’s Cutoff”, un film mai distribuito in Italia che narra l’odissea di una carovana costruita senza eccessive forzature, evidenziando la semplicità della vita degli emigranti dell’Ottocento. Sarei curioso anche di vedere “Gold”, di Thomas Arslan, un western tedesco ultimato nel 2013 e basato sulla corsa all’oro nel Klondike.

D. Il western non tramonta mai…
R. Come possono tramontare i sogni dell’uomo? Pur avendo registrato una forte flessione nella sua patria d’origine, il western è riuscito a sviluppare dei filoni paralleli in altri continenti. Per esempio, l’Australia si può considerare una seconda Frontiera, dopo film quali “Carabina Quigley”, “The Tracker”, “Generazione rubata” e lo stesso “Australia”, per non contare “The Proposition” di John Hillcoat. In Spagna ha spopolato un serial come “Tierra de Lobos”, acquistato e proiettato con successo anche da altri Paesi europei. Forse la Fenice non è risorta dalle proprie ceneri come vuole la mitologia, ma sicuramente ha generato diversi figli.
D. Di cosa parlerai nei tuoi prossimi libri di saggistica?
R. Uno è già in uscita e tratta di storia, letteratura e cinema western, offrendo anche a chi non conosca il western se non attraverso film e fumetti, una panoramica abbastanza esauriente del genere, dai romanzi di James Fenimore Cooper a quelli più moderni di Elmore Leonard, Louis L’Amour e Cormac Mc Carthy. Ho raffrontato spesso i contenuti dei romanzi, oltre che con la storia reale, con le loro trasposizioni cinematografiche. Per quanto riguarda il cinema, ho cercato di raccontare la sua lunghissima e affascinante avventura, spesso corredata di successi, dal 1903 ad oggi. La seconda opera è dedicata alla tribù dei Cheyenne, dalle loro origini fino alla definitiva sottomissione: una piccola tribù, che non superò mai le 3.800 anime, ma che compì talvolta grandi imprese.

D. Argomenti entrambi decisamente stuzzicanti per gli appassionati del genere.
R. Lo sono anche per me. Il western è come una linfa vitale che scorre nelle mie vene da quand’ero ragazzo.

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