Gli oscar del cinema western – 25

A cura di Domenico Rizzi
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COMMEDIE, ECCENTRICITA’ E STORIE DOLOROSE

Pochissimi anche gli western del 1978: nove in tutto, dei quali di produzione extra americana gli italo-spagnoli “La notte rossa del falco” e “Amore, piombo e furore” diretto da Monte Hellman, oltre all’italiano “Sella d’argento”, diretto da Lucio Fulci, con l’immancabile Giuliano Gemma, un film tutto sommato apprezzabile. “Arriva un cavaliere libero e selvaggio” di Alan J. Pakula è probabilmente l’unico meritevole di un commento positivo senza riserve, ma è ascrivibile al contemporary western, di cui si parlerà diffusamente nell’appendice della presente rassegna.
Jack Nicholson intrattiene il pubblico che non ama il western ortodosso con la commedia “Verso il Sud” (“Goin’ South”) del quale è anche interprete principale, nella parte del rapinatore Henry Lloyd Moon che, per scampare alla forca, si avvale di una legge in vigore al termine della guerra di secessione accettando di sposare la ricca Julia Tate (Mary Steenburgen) proprietaria di una miniera d’oro ancora da sfruttare. Dopo una serie di vicissitudini, con Lloyd che dovrà vedersela con i suoi ex complici ingolositi dal giacimento, il bandito quasi redento riuscirà a raggiungere il Messico insieme alla propria sposa. Nel film compare anche John Belushi, agli esordi nella parte del vicesceriffo, un po’ tonto, Towfield. Senza ambire riconoscimenti di prestigio, “Verso il Sud” totalizza comunque un buon incasso, che supera i 7 milioni di dollari soltanto negli Stati Uniti, merito sicuramente della grande popolarità di cui gode Nicholson, vincitore del premio Oscar per “Qualcuno volò sul nido del cuculo” nel 1976.

Anche “La strana maledizione di Montezuma” (“A Talent for Loving”) di Richard Quine, interpretato da Richard Widmark e Geneviève Page oscilla fra il comico e il semi-serio, senza risultare convincente se non in qualche passaggio, a dispetto del valore degli attori ingaggiati.
Dalla commedia alla tragedia con “La carovana Donner” (“Donner Pass: the Road to Survival”) di James L. Conway, con Robert Fuller, Andrew Prine e Diane Mc Bain, una delle varie riedizioni dell’episodio che decimò una carovana bloccata dalla neve sulla Sierra Madre californiana nel 1846-47, con episodi ci cannibalismo che rispondono effettivamente alla verità storica. La vicenda si basa soprattutto sull’affannosa impresa di James Reed che cerca di salvare la propria famiglia e gli altri compagni di sventura da una fine orrenda. Alla critica passa inosservato, come la maggior parte dei western che contengono un fondamento storico.

Nella sua caduta apparentemente senza fine, il western si riduce a 4 film nel 1979, lasciando prevedere a breve termine un azzeramento assoluto della produzione di genere. Scomparsi dagli schermi gli spaghetti-western e i tortilla-western, rimangono un pugno di film americani, nell’insieme degni di una certa considerazione. Due di essi – “Jack del Cactus” e “Wanda Nevada” – sono commedie nelle quali il truculento West della tradizione viene marginalizzato. Il primo (titolo originale “The Villain”) è diretto da Hal Needham e impiega attori di grido, quali Kirk Douglas, Ann Margret, Strother Martin, Jack Elam e perfino “Mister Muscolo” Arnold Schwarzenegger, nel ruolo inconsueto del tedesco “Bello Straniero”. Quest’ultimo, capitato per caso in una cittadina, se la svigna con Carina (Margret) la figlia di un banchiere a cui il nuovo arrivato avrebbe dovuto scortare una grossa somma di denaro. L’impacciato pistolero Cactus Jack (Douglas) – che sta cercando di crearsi una personalità imitando maldestramente i personaggi storici descritti nel libro “Badmen of the West” – e una banda di Indiani guidati da Alce Nevrotico (Paul Lynde) dovranno recuperare sia i soldi che la bella fuggitiva. Mentre i Pellirosse si rivelano più incapaci di Jack, questi decide di rinunciare a copiare i suoi modelli per essere soltanto se stesso e riesce alla fine a raggiungere la coppia in fuga. Il risultato non sarà tuttavia quello sperato dal suo mandante, perché Carina pianta in asso il Tedesco, si innamora del pistolero e fugge insieme a lui.
Un western certamente dissacratorio e crepuscolare, nel quale il West viene messo in caricatura e la comicità prevale sulle scene di violenza.

CACCIATORE TENACE, INDIANO SCALTRO

In questo periodo di “vacche magre”, che durerà ancora parecchio, il western sembra avere imboccato un percorso sopra le righe, che si discosta tanto dalla tradizione quanto dal revisionismo che ama ritenersi serio.
Ormai Bianchi e Pellirosse – in qualche caso anche i Neri – vengono considerati sullo stesso piano, protagonisti di una lotta che li contrappone facendo emergere, una volta tanto, le rispettive astuzie e abilità, come ha anticipato nel 1968 il film “Joe Bass l’implacabile” di Sydney Pollack, esaltando le risorse personali dell’afro-americano Joseph Lee (Ossie Davis) sia nei confronti del suo compagno-padrone Joe Bass (Burt Lancaster) che del fuorilegge Jim Howie (Telly Savalas) e della sua amante Kate (Shelley Winters).
Il regista inglese Anthony Harvey esprime più o meno esplicitamente il medesimo orientamento, cioè che sia assai difficile, anche per il più caparbio dei cacciatori dalla pelle chiara, averla vinta su un Pellerossa che si è impadronito di un magnifico cavallo bianco e di una bellissima ragazza bionda e lo fa con il film intitolato “Io grande cacciatore”. Siamo nel Sud-Ovest degli Stati Uniti, ai confini con il Messico, nella prima metà dell’Ottocento. Due trapper, Henry (Harvey Keitel) e Pike (Martin Sheen) ingaggiano un combattimento con una banda di Comanche che li deruba delle pellicce: il primo soccombe, l’altro si salva ma vede gli Indiani fuggire con il bottino. Messosi sulle loro tracce, scopre uno sciamano e una donna che stanno per sacrificare alle loro divinità uno stupendo cavallo bianco e Pike riesce ad impossessarsene.

Nel frattempo un gruppuscolo di Kiowa assale una diligenza di scorta ad un feretro, che trasporta i congiunti del defunto. Nella battaglia, il capo-guerriero Toro Bianco (Sam Waterston) congeda i suoi uomini, abbandona le tre donne superstiti insieme ad un prete cattolico (John Castle) e rapisce la sorella di quest’ultimo, la bella Judith (l’inglese Caroline Langrishe) portandola con sé insieme al bottino racimolato su un travois. Lungo la strada sorprende Pike, lo ferisce e gli ruba il cavallo bianco, riprendendo la fuga insieme alla sua prigioniera, della quale più tardi abuserà trovandola più meno consenziente (o rassegnata?). Intanto da una vicina fattoria parte una squadra di Messicani alla caccia degli Indiani, mentre Pike è sempre sulle tracce del Kiowa che si sta prendendo gioco di lui disseminando il percorso di tracce visibili. Dopo che il guerriero si è liberato dell’ultimo inseguitore messicano, affronta Pike in un ulteriore duello, riuscendo a colpirlo nuovamente. A questo punto Toro Bianco, che è stato a sua volta ferito lievemente alla schiena dalla sciabola del cacciatore, lo umilia, risparmiandogli la vita per dirgli in inglese: “Tu piccolo uomo bianco, Io grande cacciatore!”
Il finale è tragicomico, perché Judith, abbandonata dall’Indiano, supplica Pike di aiutarla, ma il trapper la ignora, seguendo in lacrime dall’alto di una collina il suo avversario mentre si allontana nella valle sottostante in groppa allo stupendo destriero, fino a quando non diventa un punto invisibile nell’oceano della prateria.
Il commento non può che essere favorevole. Il regista londinese Anthony Harvey impartisce a molti colleghi statunitensi una lezione su come si possa girare – nei pressi di Durango, in Messico – un ottimo western, con tutti i crismi della classicità ma anche qualche originalità, basandosi su una storia all’apparenza banale, scritta da Michael Syson e ottimamente sceneggiata da John Briley. Le stupende riprese sia dei primi piani che dei campi lunghi a volte un po’ sfumati, come quello finale, ad opera di Billy Williams e le musiche di Mark Wilkinson completano il quadro di un’opera che merita di essere ricordata come una delle poche perle del periodo. Harvey sintetizza inoltre nel suo lavoro – con la sequenza finale della giovane Judith ignorata sia da Toro Bianco che da Pike, entrambi invasati di un mustang – il motto assai diffuso alla Frontiera che “la miglior donna non vale un buon cavallo”.

La superiore scaltrezza del Pellerossa, che batte sia gli inseguitori messicani che l’americano Pike, è un altro punto di forza (e di credibilità) del film, ambientato in un’epoca anteriore al 1850, quando le praterie del West erano ancora un dominio quasi incontrastato delle tribù indiane nomadi.
Purtroppo il pubblico non dà la risposta che la produzione Rank Organisation si attendeva e la critica positiva si riduce a qualche buon apprezzamento di giornali quali il “The Observer” e il “The Guardian”.
Non c’è molto altro da discutere riguardo ai film del 1979, perché “Il ritorno di Butch Cassidy e Kid” – che non è il seguito di “Butch Cassidy”, ma piuttosto il racconto dell’antefatto – è un ordinario film di fuorilegge diretto da Richard Lester e interpretato da Tom Berenger, William Katt e Jeff Corey, piuttosto impostato sul comico e con l’intento di annacquare la leggenda sorta intorno ai due famosi fuorilegge.

I DANNATI DEL MISSOURI

Nel 1980 il genere sembra momentaneamente riprendere fiato, producendo 8 pellicole, almeno 2 delle quali destinate a diventare famose, nonostante la scarsa resa commerciale. Comunque sono 4 i film che prendono spunto dalla storia per narrare le vicende di fuorilegge famosi, sia di sesso maschile che femminile: “I cavalieri dalle ombre lunghe”, “Branco selvaggio”, “Belle Starr” e “Tom Horn”.
Il primo, “The Long Riders”, diretto da Walter Hill, è una delle più spettacolari (e a tratti veritiere) rievocazioni della celebre rapina alla First National Bank di Northfield, Minnesota, compiuta dalla banda di Jesse James il 7 settembre 1876 e culminata in un disastro per i banditi. Infatti, l’inaspettata reazione armata dei cittadini fece fallire il colpo, causando la morte dei gregari Clell Miller e Bill Chadwell, mentre Charlie Pitts sarebbe stato ucciso un paio di settimane più tardi a Madelia.

I tre fratelli Younger ne uscirono molto malconci (Cole si beccò 11 proiettili, ma sopravvisse; gli altri due, Bob e Jim, recavano ferite in varie parti del corpo) mentre i James, sia Jesse che Frank, se la cavarono quasi senza un graffio. Le sequenze del cruento scontro armato vengono girate a Parrott, in Georgia.
Hill, che è laureato in storia e letteratura alla Michigan University, si sforza di rispettare il più possibile la dinamica dell’evento e il carattere dei singoli personaggi. Per aggiungere un tocco di credibilità, affida le parti dei James, degli Younger, dei Miller e dei Ford ad attori che sono realmente fratelli: James Keach (Jesse James ) Stacy Keach (Frank James) David Carradine (Cole Younger) Robert Carradine (Bob Younger) Keith Carradine (Jim Younger). Anche i ruoli dei due Miller rispettano il medesimo criterio: Dennis Quaid è Ed Miller, mentre suo fratello Dennis impersona Clell; idem per Charley Ford (Cristopher Guest) e Bob Ford (Nicholas Guest).
Tratto da un soggetto a cui hanno collaborato gli stessi Keach – sceneggiatori insieme a Bill Bryden e Steven Phillip Smith – il film si avvale della pregevole fotografia di Rick Waite, ma soprattutto è accompagnato dalla colonna sonora di Ry Cooder, compositore californiano d’eccezione. La vicenda diretta da Hill segue il solco della storia, spettacolarizzando in maniera un po’ eccessiva le fasi della rapina di Northfield, fino all’assassinio di Jesse, ucciso da Charley e Bob Ford.
Memorabili alcune sequenze, come il duello fra Cole Younger e Sam Starr (James Remar) che ha sposato la sua ex amante Belle Shirley (Pamela Reed) destinata a diventare più tardi la famosa fuorilegge Belle Starr. Molto folcloristica la scena del matrimonio di Jesse e le successive sequenze di ballo sull’onda delle musiche in auge nel Missouri, ma il pubblico maschile deve avere apprezzato anche l’immagine di Pamela Reed che si alza in piedi dalla tinozza in cui si stava lavando, mostrando la sua parte posteriore nuda.

Ad un’analisi accurata, il personaggio di Coleman Younger sembra il più centrato e vicino a quello reale, che i biografi descrivono come un uomo audace e spavaldo, “un seduttore di donne di qualsiasi età, dai sedici ai sessant’anni” (James O. Horan, “Uomini disperati”, Longanesi & C., Milano, 1966, p. 27). Più in generale, il film merita il plauso di tutti gli appassionati del western, sia perché quella di far recitare ad autentici fratelli le parti corrispondenti è “un’idea meravigliosa”, sia perché “Walter Hill, in un western assai crudo e con esplicite violenze, restituisce a Jesse James quell’alone di ‘brigante amato’ che lo aveva inizialmente caratterizzato nel panorama hollywoodiano. Il Jesse di Hill e’ uno che ama la sua terra, la sua fattoria, la sua famiglia. Ma soprattutto e’ amato e protetto dai contadini del Middle West. Con Hill si ritorna al Robin Hood del Missouri” come osserva appropriatamente il giornalista, critico e scrittore Andrea Bosco (Andrea Bosco-Domenico Rizzi, “I Cavalieri del West”, Le Mani Editore, Recco Genova, 2011, p. 221).
L’incasso negli USA soddisfa le aspettative, accostandosi ai 16 milioni, circa il doppio dei costi di produzione; invece la critica non si sente di tributare alcun riconoscimento alla pellicola di Hill.
Un altro “dannato” del Missouri conosciuto dalla storia fu Thomas “Tom” Horn, nato nella Scotland County nel 1860. Condannato all’impiccagione nel 1903 forse per un delitto non commesso e riabilitato post mortem novant’anni dopo, afferma nel suo libro autobiografico scritto in carcere che “chiunque sia nato nel Missouri è destinato ai guai” (Tom Horn, “Il balordo del West”, Rusconi, Milano, 1979, p. 21) e lui era proprio nativo di quello Stato, come i fratelli James e gli Younger, Calamity Jane e la fuorilegge Belle Starr. Tutta gente finita nei guai per un motivo o per l’altro, e che non poteva sfuggire all’attenzione del cinema.
Nel 1980 William Wiard dirige appunto “Tom Horn”, affidando la parte del personaggio principale ad uno Steve Mc Queen già malato di cancro (sarebbe morto il 7 novembre dello stesso anno in una clinica messicana, a soli 50 anni di età) e quello di Glendolene Kimmel a Linda Evans, con un’altra trentina di attori per recitare i vari ruoli, dall’allevatore John C. Coble (Richard Farnsworth) allo sceriffo Sam Creedmore (Slim Pickens). Girato in Arizona e nella Sonora messicana con 3 milioni di dollari – sceneggiatura di Thomas Mc Guane e Bud Shrake, fotografia di John A. Alonzo e colonna sonora di Thomas Gold – narra soprattutto le ultime fasi della vita del celebre scout, imprigionato con l’accusa di avere ucciso un ragazzo adolescente sorpreso a rubare dei cavalli.

E’ un film triste, che mostra i segni dell’agonia del West del 1903 e di un uomo che attende la propria fine dietro le sbarre. Un processo probabilmente poco obiettivo e indizi male interpretati portano alla condanna al capestro, che Horn affronterà con grande dignità. Non si tratta, come evidenzierà qualche storico più tardi, di fare giustizia di un delitto commesso per impedire un furto di cavalli, ma dell’esigenza di liberare il West dalla gente come Horn, affinchè il territorio possa accogliere la civiltà e integrarsi nel resto della nazione. Da un certo punto di vista, è quanto succede ne “L’uomo che uccise Liberty Valance” di Ford: gli individui come Valance, ma anche quelli come Tom Doniphon, simboli di un passato di contrasti e di lotte armate, devono cedere il passo alla nuova società che verrà.

John A. Alonzo, che ha curato la fotografia in “Tom Horn”, si mette a dirigere un film per la TV imperniato su un altro personaggio nativo del Missouri, Belle Starr, scritto da James Lee Barrett e interpretato da Elizabeth Montgomery (Belle) Cliff Potts (Cole Younger) Michael Cavanaugh (Jesse James) Jesse Vint (Bob Dalton) Alan Vint (Grat Dalton) Geno Silva (Anatra Blu, uno dei tanti mariti o amanti della fuorilegge). Benchè “Belle Starr” contenga molti riferimenti a fatti reali, presenta vistose pecche, prima fra tutte quella di mostrare una protagonista troppo bella rispetto al personaggio storico, ma ciò risponde evidentemente all’esigenza di attirare gli spettatori, che già disertano spesso le proiezioni dei film western.

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