Gli oscar del cinema western – 13

A cura di Domenico Rizzi
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36.


BALLATE E SPARATORIE
Nel 1965 il western si appresta ad aggiungere nuovi allori, ma rispolvera, tra i suoi film minori, il mito di Custer, inventando nuove improbabili versioni della battaglia di Little Big Horn con “Doringo” e “Il massacro dei Sioux”. Mentre Leone bissa il successo del suo primo film del genere, realizzando “Per qualche dollaro in più”, con Eastwood (El Monco) affiancato da Lee Van Cleef (il colonnello Douglas Mortimer) contrapposti alla banda del paranoico Indio (Gian Maria Volontè), Andrew Victor Mc Laglen si prende qualche soddisfazione dirigendo “Shenandoah, la valle dell’onore”, nel quale un ostinato agricoltore e la sua famiglia tentano disperatamente di evitare il coinvolgimento nella Guerra Civile.
Partendo dal maggior successo di quell’anno, Elliot Silverstein, trentottenne regista esordiente già noto per avere diretto la popolare serie televisiva “Ai confini della realtà”, trasforma in ballata la leggenda del West in “Cat Ballou”, commedia destinata a ben 5 nomination all’Oscar ed altrettante al Golden Globe.
E’ la vicenda contorta di una brava ragazza, Catherine Ballou (Jane Fonda) in viaggio per far visita allo zio Frankie proprietario di un ranch nel Wyoming, che dapprima si serve del famoso pistolero Kid Shelleen (Lee Marvin) per proteggere la proprietà del parente minacciato di esproprio da una società che ha ingaggiato Tim Strawn (ancora Lee Marvin) per compiere l’operazione. Quando quest’ultimo uccide Frankie Ballou, Catherine mette in piedi una banda e rapina un treno. Intanto Shelleen, che, diventato un ubriacone e debosciato, si è innamorato della ragazza (ma Cat ama un altro, di nome Clay Boone) affronta ed uccide Strawn, ammettendo in seguito che era suo fratello gemello. Catturata e condannata all’impiccagione per la rapina, la donna verrà salvata in extremis dall’intervento della sua banda.
Autore del soggetto è Roy Chanslor, lo stesso che scrisse “Johnny Guitar”. La sceneggiatura è di Walter Newman e Frank Pierson, la colonna sonora di Frank DeVol. Oltre alla Fonda e a Marvin, interprete di due personaggi vi sono Michael Callan (Clay Boone) John Marley (Frankie Ballou) Jay C. Flippen (sceriffo Ed Cardigan) Arthur Hunnicutt (Butch Cassidy) e il cantante Nat King Cole, già malato di cancro durante le riprese e destinato a scomparire lo stesso anno.
La giuria deputata all’assegnazione degli Academy Award ritenne superlativa la recitazione di Lee Marvin nella duplice parte di Shelleen e Strawn. Si noti bene che uno dei due ruoli era stato rifiutato da Kirk Douglas, mentre l’interpretazione di Cat Ballou sarebbe dovuta toccare alla giovane attrice svedese Ann Margret, anche lei rinunciataria. Oltre a quella di Marvin come miglior attore protagonista, furono designati all’Oscar Walter Newman e Frank Pierson per la miglior sceneggiatura, Charles Nelson per il montaggio, De Vol per le musiche e Jerry Livingston e Mack David per la miglior canzone, quella “I was born under a wandering star” che diventò un successo discografico mondiale cantata dallo stesso Marvin. Alla fine fu proprio quest’ultimo a vincere l’Oscar come attore protagonista, ma di seguito conquistò anche il Golden Globe – le nomination in questo caso erano state 5, fra cui una riguardante Jane Fonda ed un’altra Tom Nardini, nella parte di un Pellerossa, quale miglior attore debuttante – il Premio BAFTA quale miglior attore straniero e l’Orso d’Argento al Festival di Berlino.


Un’immagine tratta da Cat Ballou
Girato nel Colorado, “Cat Ballou” registrò anche un notevole successo ai botteghini, incassando oltre 20 milioni e mezzo di dollari nel solo anno di uscita. Lee Marvin raggiunse con questo film il top della sua carriera, che avrebbe compreso in seguito molte altre interpretazioni di rilievo prevalentemente nel genere western o di guerra. Quanto a Silverstein, che ebbe anche una nomination all’Orso d’Oro a Berlino ed una dalla Directors Guild of America per la miglior regia, aveva dimostrato come si potesse fare del West una commedia ironica senza snaturarne eccessivamente i contenuti.
Contemporaneamente al suo film, lo spaghetti-western propose, oltre a “Per qualche dollaro in più” di Leone, “Una pistola per Ringo” e “Il ritorno di Ringo”, entrambi diretti da Duccio Tessari. Il primo, come si è detto, fece incassi strabilianti, ma anche gli altri due riempirono le sale, con grande gioia dei loro produttori. Intanto Ennio Morricone si affermò sempre più come specialista di colonne sonore di marca western, anche se esse rappresentano, ad oggi, meno del 10% della sua produzione.
Tutti e tre i film si basano sul tema della vendetta, tanto quello di Leone – il colonnello Mortimer in cerca dell’Indio, che ha violentato sua sorella provocandone il suicidio – quanto le imprese di Ringo (Giuliano Gemma).

Da quel momento in poi, il soprannome affibbiato all’eroe creato da Tessari verrà sfruttato da almeno una dozzina di pellicole, affossando sempre più la credibilità del filone italiano, soprattutto dopo l’apparizione dei vari Django, Ciamango, Gringo, Sartana, Mannaja e via dicendo, in una interminabile serie di pellicole sempre più imbottite di Messicani, di sparatorie, di sadiche torture e crudeltà di ogni tipo. Dopo qualche anno, saranno gli stessi produttori ad accorgersi che la via italiana al western è ormai una nave che sta colando a picco.

LA METAFORA DI CUSTER

Non si può parlare del West senza tirare in ballo periodicamente un uomo come il generale Custer, pensavano alcuni cineasti dell’epoca, anche perché il discusso ufficiale era stato scelto da tempo, da una critica parziale e prevenuta, nonché spesso altamente disinformata sugli avvenimenti storici, quale capro espiatorio del massacro delle tribù indiane nelle Grandi Pianure. A questa spudorata menzogna si attennero purtroppo per decenni i registi dei film dedicati al personaggio.
La battaglia di Little Big Horn, combattuta nel Montana il 25 e 26 giugno 1876 fra il Settimo Cavalleria del tenente colonnello George Armstrong Custer – maggior generale onorario – e la coalizione formata da Sioux e Cheyenne agli ordini di Toro Seduto, Gall, Cavallo Pazzo, Due Lune, occupa dunque un posto centrale nella storiografia del West, fin dai primissimi anni del Novecento. William Selig aveva infatti girato nel 1909 “Custer’s Last Stand”, Thomas Ince “Custer’s Last Fight” e David Griffith “The Massacre”, entrambi nel 1912.


Custer’s Last Fight, film del 1912

Gli Indiani, che disponevano di circa 1.600 guerrieri (non certo i 7.000 o 10.000 che racconta la leggenda) ebbero ragione dei 647 uomini del reggimento, uccidendone 265 fra militari, civili e guide, compreso lo stesso comandante. Secondo alcune testimonianze dei Pellirosse che presero parte al massacro, le perdite indiane furono piuttosto modeste – da 30 a 50 caduti sul campo – ma altri protagonisti riferiscono numeri ben più elevati, facendo in qualche caso dedurre – come nel racconto di Curley, una guida dei Crow – che esse superarono addirittura quelle dell’esercito.
La responsabilità dell’eccidio venne addebitata, per diverse ragioni, alla “sconsiderata” decisione di Custer di attaccare un nemico numericamente soverchiante, ma analisi più precise e meno di parte nei confronti dell’ufficiale, ricercano le cause della sconfitta – e della campagna denigratoria contro la sua persona – in una serie di altre motivazioni, che l’autore del presente saggio ha dettagliatamente elencato, smentendo tutti i luoghi comuni, in una sua recente pubblicazione (Domenico Rizzi, “Frontiere del West”, Parallelo 45 Edizioni, Piacenza, 2013, pp. 105-138).
Alla confusione creata da libri e giornali, che spesso attribuirono eccessivo peso alle testimonianze rese dagli Indiani molti decenni dopo l’evento, si aggiunsero le strampalate ipotesi dei cineasti, determinati, più che altro, a demolire l’immagine di Custer, piuttosto che sforzarsi di ricostruire la verità intorno a questo evento cruciale. John Ford fu uno dei primi ad usare, nel suo film “Il massacro di Fort Apache”, la metafora del colonnello Turner per rappresentare la follia di Custer, ma altri in seguito fecero la medesima cosa.
Nel 1965 Arnold Laven propose “The Glory Guys” (esportato in Italia come “Doringo”, un nome che odora maledettamente di spaghetti-western) sceneggiato da Sam Peckinpah – forse il vero regista del film – con musiche di Riz Ortolani, impegnando attori come Tom Tryon (capitano Demas Harrod) protagonista di molti B-movie, Harve Presnell (guida Sold Rogers) James Caan (soldato Anthony Dugan) e Senta Berger (Lou Woddard), per interpretare personaggi di fantasia. La trama, che poggia su un’immaginaria rivolta indiana della tribù dei Cheyenne meridionali, si fonda sul contrasto fra il generale Frederick Mc Cabe (Andrew Duggan) e il capitano Harrod, che cerca di dissuaderlo dall’attaccare gli Indiani. L’ostinazione del superiore causa il massacro della truppa, che il generale Hoffman, sopraggiunto tardivamente in appoggio, non potrà che constatare impotente.


Un’immagine tratta da “The Glory Guys”

Evidentemente, chi realizzava film del genere, era del tutto all’oscuro della reale consistenza demografica delle varie tribù indiane. I Cheyenne, suddivisi in due raggruppamenti principali, non ebbero mai una popolazione superiore a 3.900 persone (meno di 2.000 quando i primi esploratori bianchi misero piede nell’Ovest) e la loro forza di guerra non superò mai i 600 guerrieri, un numero certamente insufficiente ad annientare un reggimento di cavalleria, che contava di norma da 600 a 800 uomini.
Girato nel Messico con costi assai elevati, “Doringo” rientra nel novero dei western dalle logiche scontate, sebbene offra alcune scene di particolare bellezza. Inutile precisare che, sulla base della premessa storica contenuta in questo paragrafo, il riferimento a Custer e al suo Settimo Cavalleria non può essere riscontrato se non in maniera assai vaga. In realtà, l’allusione serve da semplice corollario alla contrastata storia d’amore fra la protagonista femminile e i suoi due corteggiatori, Harrod e Potts.

La battaglia di Little Big Horn e i suoi strascichi erano già stati tirati in ballo nel 1960 con “Massacro alle Colline Nere” (“Requiem to Massacre”: ancora una volta, il titolo italiano dimostra con quanta superficialità venisse considerato il genere western, perché le Colline Nere del South Dakota distano 350 miglia – 583 chilometri – dal luogo della celebre battaglia!) diretto da George Waggener e imperniato sull’inchiesta condotta dall’autorità militare dopo la disfatta. Cinque anni dopo Sidney Salkow si assume la regia de “Il massacro dei Sioux” (“The Great Sioux Massacre”) recitato da Joseph Cotten (maggiore Marcus Reno) Darren Mc Gavin (capitano Benton, che dovrebbe rappresentare il capitano Frederick Benteen) Philip Carey (generale Custer) Michael Pate (Toro Seduto) Iron Eyes Cody (Cavallo Pazzo) e Nancy Kovack (Elizabeth, moglie di Custer). Classificato dalla critica come revisionista e ambientato nell’Oregon e negli studi di Old Tucson, Arizona, il film si colloca forse tra quelli meno inattendibili, cercando di riproporre i personaggi storici senza eccessive libertà, tranne per quanto riguarda la figura del capitano Benton (Benteen). Più che spezzare una lancia a favore degli Indiani, “Il massacro dei Sioux” fa affiorare le beghe esistenti all’interno dell’esercito americano dell’epoca e gli intrighi dei politici, compresa la presunta offerta fatta a Custer di una nomination per il Partito Democratico in vista delle elezioni presidenziali dell’autunno. La battaglia viene rappresentata molto meglio che in altri film precedenti, ma la sua dinamica rimane molto distante dal reale svolgimento dei fatti.
Ancora una volta il western mostra il proprio disagio quando deve accostarsi alla storia, particolarmente all’episodio riguardante Custer. In ciò emerge un certo conformismo dei cineasti, fortemente condizionati dagli affrettati giudizi totalmente negativi espressi per decenni sulla figura del discusso generale. Nel 1968 Robert Siodmak tenterà di tracciare un ritratto inedito del personaggio, interpretato da un convincente Robert Shaw in “Custer eroe del West”, mostrandolo spregiudicato e sostanzialmente dalla parte degli Indiani, così come in aperto contrasto con la classe politica dominante, rappresentata dal presidente repubblicano Ulysses Grant. Lo scontro finale è ricostruito in maniera del tutto personale e arbitraria, ritraendo un Custer determinato ad affrontare la battaglia come l’ultimo “scontro fra uomini”, in un’epoca in cui la tecnologia (esistono già le mitragliatrici) toglierà ogni valore alle cariche di cavalleria.
La critica valuterà negativamente il film di Siodmak, così come non aveva accordato eccessiva attenzione alle altre pellicole citate, riconfermando quanto sia difficile per il filone “storico” del western – tranne rarissimi casi – ottenere riconoscimenti significativi.

LA VALLE DELL’ONORE

Mentre Henry Hathaway mette in campo nuovamente il gigante John Wayne, spalleggiato da Dean Martin, Earl Holliman e Michael Anderson jr., nel nostalgico “I 4 figli di Katie Elder” (basato su un’autentica vicenda svoltasi nel Texas) non risparmiando scazzottate e sparatorie e spendendo una cifra che non sarà recuperata neppure per la metà, Andrew Victor Mc Laglen cala uno dei suoi assi dirigendo un film più impegnato, dal titolo “Shenandoah”, a cui in Italia viene aggiunto il sottotitolo “La valle dell’onore”.
Il soggetto è di James Lee Barrett (autore, fra l’altro, de “La più grande storia mai raccontata” e “I Berretti Verdi”) che ne cura anche la sceneggiatura, la fotografia è dell’ormai quotatissimo William H. Clothier, il sonoro di Waldon O. Watson. La tesi sostenuta è l’impossibilità di rimanere neutrali quando ci si trovi nel bel mezzo della guerra di secessione, per di più in uno Stato come la Virginia, aspramente contesa fra i due eserciti nordista e sudista.
Charlie Anderson (James Stewart) capo di una famiglia patriarcale composta dalla moglie e da 6 figli, si illude di evitare il coinvolgimento nel conflitto, sostenendo di avere resa prospera la sua fattoria senza l’aiuto di nessuno. Con l’evolversi della situazione, sarà costretto a cambiare idea, nel momento in cui il figlio minore Boy (Phillip Allford) che portava per gioco un copricapo dell’esercito confederato, viene catturato dai Nordisti e il genero Sam (Doug Mc Clure) è costretto ad arruolarsi come ufficiale per il Sud appena dopo avere sposato la figlia di Charlie, Jennie (Rosemary Forsyth). Il figlio maggiore Jacob (Glenn Corbett) che fremeva dalla voglia di arruolarsi contro il parere del padre, muore in combattimento; il figlio James (Patrick Wayne) e sua moglie Ann (Katherine Ross) vengono barbaramente uccisi da soldati sudisti disertori. Per rintracciare Sam e il figlio minore, Charlie Anderson si metterà alla loro ricerca insieme ai famigliari rimasti a casa: libererà il genero assalendo un treno nordista, mentre Boy tornerà a casa da solo dopo essere fuggito dal campo di concentramento insieme ad un compagno di prigionia. La guerra, anche per chi non la vuole fare, è un passaggio obbligato e la morale del film può suonare come uno smacco per i pacifisti più convinti.

“Shenandoah” ripropone tematiche già portate sullo schermo da William Wyler allorchè girò “La legge del Signore” ed offre una visione cruda del conflitto antischiavista, com’era già stato presentato in “Via col vento” di Victor Fleming (1939) vincitore di 8 Oscar. Pur senza accampare pretese così elevate, ottiene comunque una nomination all’Oscar per il sonoro di Watson ed una al Golden Globe per la miglior nuova attrice a Rosemary Forsyth. Rimane a bocca asciutta per quanto concerne i premi, ma si rifà con un incasso di tutto rispetto, superando i 17 milioni di dollari. La venticinquenne Katherine Ross è agli esordi nel cinema, ma si conquisterà posizioni di primo piano in una serie di altri film, fra i quali “Il laureato” (Nomination all’Oscar e vincitrice del Gloden Globe quale miglior attrice debuttante).
La guerra di secessione, dopo i film di Fleming, Wyler e Mc Laglen, si consoliderà come un argomento para-western di sicuro richiamo, offrendo, molti anni più tardi, la base di partenza per il pluripremiato “Balla Coi Lupi” di Kevin Costner.

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