Gli oscar del cinema western – 11

A cura di Domenico Rizzi
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36.

WESTERN IN CINERAMA
Il 1962 è anche l’anno di uscita di un colossal, al quale cooperano 4 registi di fama. “How the West Was Won”, tradotto in Italia come “La conquista del West” dal medesimo significato, è una saga di pionieri che ripercorre tutte le tappe principali della colonizzazione, dai primi emigranti e cacciatori di pellicce, all’arrivo delle ferrovie, passando per la guerra di secessione e chiudendo con i duelli.
Prodotto dalla Metro Goldwyn Mayer, il film si basa su un soggetto di James R. Webb – che ne è anche lo sceneggiatore – attinto da un racconto del celeberrimo Louis L’Amour (autore di oltre 130 romanzi) pubblicato a puntate sulla rivista “Life Magazine”. La regia viene affidata a John Ford, Henry Hathaway, George Marshall e Richard Thorpe (non accreditato); il montaggio è di Harold F. Kress, la fotografia di William H. Daniels, Milton R. Krasner, Charles Lang e Joseph La Shelle; le musiche sono composte da Ken Darby, Thomas Hastings, Louis Lambert e Alfred Newman. Ma la vera novità consiste nel Cinerama, impiegato per la seconda volta in un film, un sistema di ripresa – grazie al piazzamento di 3 cineprese sincronizzate disposte a semicerchio – che consente di proiettare immagini di grandi dimensioni su uno schermo curvo. Com’era già accaduto inizialmente per l’introduzione del sonoro, l’innovazione non suonò gradita ad alcuni registi, fra i quali il più critico fu proprio il “vecchio” John Ford: “E’ peggio del Cinemascope (sistema brevettato negli Anni Cinquanta dalla Twentieth Century Fox e usato fino al 1967, caratterizzato da una ripresa con lenti anamorfiche, che consentivano di comprimere l’immagine in larghezza lasciandole inalterate in altezza) perché le parti estreme delle inquadrature si arrotolano, ed è il pubblico che si sposta, invece della scena.
La conquista del West
Ci si deve tenere stretti alle sedie. Non mi interessava per niente” (Bogdanovich, op. cit., p. 96). Del resto, la posizione di Ford era nota, almeno sotto alcuni aspetti, per il suo conservatorismo: “Le nuove tecniche sono un bluff. Una sceneggiatura è buona se la puoi realizzare in bianco e nero su piccolo schermo” (Franco Ferrini, “John Ford”, la Nuova Italia, Firenze, 1975, p. 6). Alla fine il problema si sarebbe risolto da solo, perché, a causa dei costi eccessivi, “La conquista del West” fu anche l’ultimo film girato con la tecnica delle 3 cineprese.
Abbracciando un periodo storico molto ampio, la trama venne articolata in 5 episodi (I Fiumi, le Grandi Pianure, la Guerra Civile, la Ferrovia, i Fuorilegge, spaziando su un arco temporale che va dal 1830 al 1880) diretti da registi diversi: i primi due e il quinto da Hathaway, il terzo da Ford, il quarto da Marshall.
Il film segue le vicende della famiglia Prescott, partita dall’Ohio per raggiungere il West, e delle sue due figlie, Lilith (Debbie Reynolds) e Eve (Carroll Baker) che sposano rispettivamente il trapper Linus Rawlings (James Stewart) e il giocatore d’azzardo Cleve Van Valen (Gregory Peck) dando vita entrambe ad una discendenza che si troverà in situazioni diverse man mano che il West subisce la trasformazione. Zeb Rawlings (George Peppard) figlio di Linus e Eve che hanno rilevato una fattoria nell’Ohio, diserterà dalle file unioniste durante la guerra di secessione, salvando però la vita ai generali Grant (Harry Morgan) e Sherman (John Wayne) minacciati da un cecchino sudista pure disertore. Raffermatosi nell’esercito dopo il conflitto anti-schiavista, il giovane va a comandare un reparto militare che deve sorvegliare la costruzione delle ferrovie nell’Ovest: diventa amico di Jethro Stuart (Henry Fonda) ex cacciatore di bisonti, insieme al quale riesce a concordare una tregua con gli Indiani delle Pianure. Deluso dal comportamento delle autorità che violano l’accordo, Zeb se ne va in Arizona per fare lo sceriffo.

Qui sua zia Lilith, rimasta vedova e in cattive condizioni economiche, gli offre il suo ranch, chiedendo in cambio di essere ospitata e assistita dal nipote. Durante il suo servizio nell’arida regione del Sud-Ovest, Zeb – che si è sposato ed ha già 3 figli – incrocia i suoi passi con il malfattore Charlie Gant (Eli Wallach) che a suo tempo aveva spedito in carcere. Scoperto che il fuorilegge e i suoi complici intendono assaltare un treno che trasporta un carico d’oro, il tutore della legge convince il marshal Lou Ramsey (Lee J. Cobb) ad appoggiarlo con i suoi uomini, affronta i banditi e manda a monte la rapina, uccidendo Gant. La grande avventura, durata cinquant’anni, si conclude con lo scenario del West ormai conquistato e pacificato. Il film si chiude su un’inquadratura di Los Angeles com’era nel 1962, per mostrare le grandi trasformazioni subite dalle terre un tempo selvagge e inospitali, ora divenute prospere città di un Paese in continua crescita.
Una pellicola del genere, della durata di 164 minuti nella distribuzione ufficiale, non poteva passare inosservata, novità del Cinerama a parte. Infatti fu destinatario di 8 nomination all’Academy Award (miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio, miglior sonoro, miglior film, miglior fotografia, miglior scenografia, migliori costumi e miglior colonna onora). Vinse 3 Oscar, rispettivamente per la sceneggiatura di James R. Webb, il montaggio di Harold F. Kress e il miglior sonoro di Franklin Milton.

Nel 1963 il National Board of Review Award lo inserì fra i migliori 10 film dell’anno e il Photoplay Award gli conferì una medaglia d’oro. Come ciliegina sulla torta, “La conquista del West” ebbe anche il Laurel Award, un premio speciale istituito dalla Motion Picture Exhibitor e assegnato dal 1958 soprattutto in base ai riscontri di botteghino negli Stati Uniti e in Canada. Infatti, l’esito commerciale del film, costato 14 milioni e mezzo di dollari, fu decisamente ottimo, con un introito superiore ai 50 milioni.
Il western, quantunque con una produzione sempre più rarefatta, era tutt’altro che finito.

LA SCONFITTA DEGLI EROI

Lo stesso anno in cui John Ford dirige l’episodio sulla Guerra Civile ne “La conquista del West”, il fantasioso regista porta a compimento un altro dei suoi capolavori: “L’uomo che uccise Liberty Valance”, da molti giudicata la sua opera conclusiva sull’epopea del West, anche se verrà seguita da “Il grande sentiero” nel 1964.
Questa volta si assiste ad una grande metamorfosi della Frontiera, ormai quasi civilizzata e senza Indiani. La gente di Shinbone pensa al rappresentante da eleggere al Congresso degli Stati Uniti, non appena verrà distrutta la tirannia dei grandi allevatori, difesa dai loro sgherri Liberty Valance (Lee Marvin) Reese (Lee Van Cleef) e Loyd (Strother Martin). L’arrivo di Ransom Stoddard (James Stewart) un avvocato dell’Est, apporta un sensibile cambiamento nella cittadina, incoraggiando il giornalista Dutton Peabody (Edmond O’Brien) ad assumere posizioni più energiche verso la mafia locale, ma esponendolo anche ad una severa lezione da parte dei suoi sicari.
L’uomo che uccise Liberty Valance
Mentre Stoddard, che è già stato frustato da Valance il giorno del suo arrivo, sbarca il lunario come lavapiatti in un ristorante, facendo colpo su Hallie (Vera Miles) l’allevatore Tom Doniphon (John Wayne) sta ultimando, aiutato dal fedele servitore Pompy (Woody Strode) la casa in cui avrebbe intenzione di vivere con la donna dopo il matrimonio.
La devastazione della sede del giornale e la punizione inflitta a Peabody, spingono l’avvocato a misurarsi con Valance quella stessa sera, davanti ad un affollato saloon. Contro ogni previsione, Stoddard riesce ad uccidere il bandito con un solo colpo di pistola e viene acclamato come il liberatore di Shinbone. Alle elezioni verrà eletto senatore, sposerà Hallie e se ne andrà con lei a Washington, mentre il deluso Doniphon, visto crollare il suo sogno d’amore e dopo aver dato fuoco alla casa in costruzione, si abbandona senza freni all’alcool.
Il film inizia con il ritorno di Stoddard e della moglie nella cittadina del West, proprio per partecipare ai funerali di Tom. Sono trascorsi 12 anni dall’uccisione di Valance, ma la gente considera ancora il senatore come un eroe, nonostante che lui abbia saputo la verità dal suo defunto amico e rivale in amore: non fu la sua pistola ad abbattere Valance, ma la carabina Winchester di Doniphon appostato in una via laterale e completamente nascosto dal buio. Quando Stoddard confessa ad un giornalista come si svolsero realmente i fatti, questi storce il naso, rispondendogli che non pubblicherà la verità: “Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda.”
L’ulteriore colpo di scena si verifica nella sequenza finale, nella quale il senatore e la moglie stanno ritornando in treno verso la capitale. Ad un certo punto, Hallie gli rivela inaspettatamente che le piacerebbe tornare a vivere a Shinbone – “Le mie radici sono qui, e anche il mio cuore” – confessandogli implicitamente di non avere mai smesso di amare Tom Doniphon, sebbene poi avesse sposato lui. Da John Ford ci si poteva aspettare soltanto una conclusione romantica e struggente come questa.

L’uomo venuto dall’Est ha soppiantato l’eroe del West, guadagnandosi una fama immeritata e soffiandogli la fidanzata, ma il cuore della donna ha continuato a battere per il ruvido cowboy che un tempo la voleva sposare. Quando Peter Bodganovich gli chiese in un’intervista: “Alla fine del film…era chiarissimo che Vera Miles era ancora innamorata di Wayne”, Ford gli rispose lapidariamente: “Beh, volevamo che fosse così.” (Bogdanovich, op. cit., p. 95).
Lo spunto per realizzare il film era venuto dal racconto di Dorothy Marie Johnson, vincitrice dello Sperone d’Oro (premio letterario assegnato ai migliori autori del genere) nel 1957 con lo short tale “Sorella perduta”, autrice anche del romanzo da cui era stato tratto “L’albero degli impiccati”. In seguito, la Johnson avrebbe scritto il soggetto di “Un uomo chiamato Cavallo”, portato sugli schermi da Elliot Silverstein. La scrittrice condensò la storia de “L’uomo che uccise Liberty Valance” in 20 pagine, assegnando ai suoi protagonisti nomi diversi da quelli che il regista avrebbe usato nel film: Bert Barricune sarebbe diventato nella trasposizione cinematografica Tom Doniphon, l’avvocato Ransom Foster avrebbe mutato il cognome in Stoddard, così come la città indicata con il nome di Twotrees era destinata a chiamarsi Shinbone. Del resto Ford aveva già compiuto operazioni analoghe, specialmente in “Sentieri selvaggi”, dove Amos Edwards prendeva il nome di Ethan nell’interpretazione di John Wayne.
La trama del film è un piccolo capolavoro, ricco di intrecci, colpi di scena e battute destinate a rimanere celebri. Anche l’idea del flashback (la storia inizia con l’arrivo a Shinbone dei coniugi Stoddard per il funerale, prosegue con la rievocazione di Ransom nell’intervista giornalistica e si conclude con la partenza della coppia in treno) si può considerare geniale. Ford riesce così a coniugare il declino dei suoi personaggi – l’uno, Tom Doniphon, defunto e gli altri invecchiati di una dozzina d’anni – con la parabola discendente del West, nel quale sono ormai scomparsi i pistoleri come Liberty Valance e finiti per sempre i duelli per le strade. Stoddard è diventato senatore, ha sposato l’ex fidanzata di Tom ed ha contribuito alla civilizzazione del suo paese, facendovi costruire una diga che assicurerà l’approvvigionamento idrico a tutta la vallata. Durante la sua prima permanenza a Shinbone, ha fatto molto di più, insegnando ad Hallie a leggere e scrivere e istituendo dei corsi di istruzione elementare nel villaggio. Tom Doniphon, apparentemente il vero protagonista del film, è in realtà l’emblema della scomparsa della Frontiera, che oltre ai violenti come Valance si è portata via il suo sogno d’amore. Contraddicendosi apertamente – “Le donne giocarono un ruolo poco importante nella colonizzazione del West” (Ferrini, op. cit., p.3) – il regista assegna proprio al personaggio femminile il ruolo fondamentale, facendone senza alcun dubbio l’arbitro dei destini di due uomini e della comunità. Hallie Ericson, figlia di Svedesi immigrati così come lo era stata Laurie Jorgensen, impersonata dalla stessa Vera Miles in Sentieri selvaggi”, simboleggia la crescita della Frontiera, compiendo al momento opportuno una scelta drastica quanto indispensabile. L’ammirazione di Ford per la figura centrale di Doniphon le farà provare tardivamente dei rimpianti, inducendola a rivelare il suo immutato amore per il rustico cowboy di un tempo. Anche in questo film, come già ne “Il grande paese” di Wyler, si assiste ad una vittoria del “piede tenero” erudito giunto dall’Est rispetto al grezzo rappresentante dell’Ovest, ma in questo caso si tratta di un successo che lascia l’amaro in bocca: nessun trionfo può esaltare completamente un uomo, quando diventa consapevole che sua moglie ha sempre amato un altro.

Il regista rimane invece fedele alle proprie convinzioni nella proposizione dello scontro fra Stoddard e Valance. La scena si svolge di notte (come nel confronto finale di Ringo Kid con i fratelli Plummer in “Ombre rosse”) senza la teatrale mimica del “più veloce ad estrarre” di “Ultima notte a Warlock”, “La pistola sepolta” o del successivo “Io sono la legge” di Michael Winner, un rituale ripetuto all’infinito nei western all’italiana degli Anni Sessanta, fino a screditare il genere. Stoddard si presenta allo scontro a capo scoperto, indossando il grembiule da sguattero e con la pistola in pugno, mentre Valance lo prende di mira stando sotto il porticato del saloon. L’uccisione del bandito non è neppure opera dell’avvocato, ma di un preciso colpo di fucile sparato da Doniphon. Con ciò, Ford sempre anticipare il suo estremo messaggio ai nuovi cineasti che emergeranno di lì a poco, da Sergio Leone a tutti gli altri: “Signori, il West era questo, prima che cominciaste a farne delle parodie.”
Giudicando il film a distanza di oltre mezzo secolo, bisogna riconoscere che esso possedeva tutti gli atout per essere considerato grande. La cittadina di Shinbone ha le caratteristiche di un qualsiasi centro del West in espansione, i personaggi che la animano rappresentano la comunità americana occidentale anche nella sua multietnicità: infatti vi sono tanto i Messicani, quanto gli immigrati europei, dal momento che la famiglia di Hallie, gli Ericson, provengono dalla lontana Svezia e Pompy, il servo di Tom, è afro-americano. Gli eroi, sia il roccioso Doniphon che l’allampanato Stoddard, escono entrambi battuti dal confronto, ma a batterli non sono i pistoleri come Valance. Nella contesa, Tom Doniphon perde tutto, dovendo rinunciare alla donna che ama; l’avvocato, che ha usato una buona dose di opportunismo dapprima nell’ingraziarsi la gente di Shinbone, poi nel soffiare Hallie all’amico e infine nell’approfittare dell’uccisione di Valance, che gli spiana la carriera politica, prenderà atto della propria sconfitta morale soltanto alla fine. Infatti, dopo avere scoperto che la moglie Hallie ha continuato ad amare Tom a distanza di anni, si rende conto che anche la propria carriera è dovuta unicamente alla leggenda sorta intorno a lui. Si toglie ogni dubbio dopo avere raccontato la verità ad un cronista, che straccia la sua confessione, rifiutandosi di pubblicarla. Inoltre, sul treno che riconduce lui e Hallie a Washington, dopo avere ringraziato il capotreno per la sua cortesia, si sente rispondere che “nulla è mai abbastanza per l’uomo che uccise Liberty Valance” (D’Amicone, op. cit., p. 85). La sua ascesa politica si è dunque fondata esclusivamente su un episodio nel quale ha usurpato il merito dell’eliminazione di un pericoloso criminale. Come scrive appropriatamente D’Amicone: “E’ la sconfitta dell’uomo politico” dopo quella del marito. (D’Amicone, op. cit., p. 85).

“L’uomo che uccise Liberty Valance” uscì di scena senza conquistare premi, praticamente come “Sentieri selvaggi”, benché questa volta la critica fosse stata meno sfavorevole. E’ inutile sottolineare che avrebbe meritato almeno un Oscar: se non conferito alla regia o a qualche figura principale, almeno a Lee Marvin per la perfetta parte da “cattivo” nei panni di Valance. Sergio Leone non ebbe alcuna esitazione nel definire il film quello “che ha mostrato la vera faccia del West” nel quale Ford, “abbandonando il suo tradizionale ottimismo, ha abbracciato una visione più realistica e, di conseguenza, pessimista. Ha fatto vedere l’altra faccia del mito.” (Francesco Mininni, “Sergio Leone”, Il Castoro Cinema, Milano, p. 8).
Dal punto di vista commerciale la produzione potè dirsi decisiamente soddisfatta. Dopo avere speso 3 milioni e 200.000 dollari per realizzarlo, ne incassò più del doppio. Nel 2007 la pellicola è stata prescelta per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso.
Nel 1962 appare sugli schermi anche un contemporary western – definizione data più tardi ai film di questo tipo, ambientati nel moderno West – dal titolo italiano “Solo sotto le stelle”, del quale si parlerà verso la conclusione del presente saggio. Inoltre comincia, quale anticipazione di una internazionalizzazione del genere, seguita da una produzione massiccia e qualitativamente sempre più scadente dopo i primi esperimenti, l’era dei western di marca europea.

DOLLARI E BOUNTY KILLER

All’inizio degli Anni Sessanta il western hollywoodiano, fino a quel momento raramente insidiato dalla concorrenza europea, cessa di essere un esclusivo monopolio americano, spostandosi in altri continenti: dapprima l’Europa, poi l’Australia e perfino l’Africa.
Tralasciando alcune sporadiche produzioni del lontano passato, uno dei primi western girati al di qua dell’Oceano Atlantico è “Il tesoro del lago d’argento”, una co-produzione franco-tedesco-jugoslava diretta da Harald Reinl e interpretata da Lex Barker e Pierre Brice. Il soggetto è ispirato al libro di Karl Friedrich May, scrittore tedesco vissuto fra la metà dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo, che fu autore di numerosi romanzi ambientati nel West. I suoi personaggi – l’immaginario capo indiano Winnetou e il suo amico bianco Mano di Ferro – saranno per alcuni anni gli alfieri di un western avventuroso di modeste pretese e di stampo quasi salgariano, in una serie ininterrotta di 11 film.
Intanto, in Italia qualcuno ha già deciso di trasportare gli eroi omerici nel contesto che registi e attori americani quali Ford e Hawks monopolizzano ormai da decenni. Il West delle carovane, delle praterie assolate e degli Indiani in agguato sta per trasformarsi in un arido proscenio di pistoleri assetati di taglie e di vendetta, dove le pistole dettano legge sopra ogni altra cosa. Un’innovazione che, dopo alcuni successi trionfali e molto apprezzati, finirà purtroppo per scadere in una misera farsa di situazioni e personaggi di un glorioso passato.
L’alfiere del grande cambiamento rimane incontestabilmente un regista romano che risponde al nome di Sergio Leone. Per essere più vicino al genere nato negli Stati Uniti, adotta lo pseudonimo di Bob Robertson, mentre l’autore delle sue colonne sonore – Ennio Morricone, suo compagno di scuola alle elementari – diventa Dan Savio. Anche alcuni attori si cambiano i connotati: Gian Maria Volontè si trasforma per l’occasione in John Wells, Bruno Carotenuto in Carol Brown, Mario Brega in Richard Stuyvesant e via dicendo.
Per un pugno di dollari
Il film d’esordio nell’affollato universo dei pistoleri avrebbe dovuto intitolarsi “Il magnifico straniero”, ma assumerà il titolo definitivo di “Per un pugno di dollari” nel 1964, anno della sua distribuzione. Nulla pare più appropriato della nuova denominazione, perchè la produzione mise a disposizione di Leone – già regista di film del genere “peplum” ambientati nell’antichità, quali “Il colosso di Rodi” – un budget iniziale abbastanza striminzito, di soli 120 milioni di lire. Il motivo è che nessuno credeva ancora al successo di un western prodotto e girato in Italia e si cercava di scongiurare il rischio di una catastrofe commerciale, che sarebbe stata largamente smentita nei fatti.
Sempre per esigenze di costi, l’ambientazione non poteva avere come sfondi le praterie degli Stati Uniti. Perciò, a parte gli interni girati a Roma, si scelse una regione che Leone, Duccio Tessari e Sergio Corbucci avevano già visitato nel 1959 in Almeria, Spagna, mentre giravano il pseudo-storico “Gli ultimi giorni di Pompei”. Fu Corbucci a richiamare l’attenzione dei colleghi sul fatto che il paesaggio arido e brullo si prestasse ottimamente alla realizzazione di un western.
La trama, che non deriva da alcun romanzo o racconto classico sul West, poggia su un progetto dello stesso Leone, di Duccio Tessari e Victor Catena, e attinge a “Yojimbo” (“La sfida del samurai”) di Akira Kurosawa. In pratica, è il Giappone dei samurai a fare irruzione nelle polverose contrade dell’Ovest, anche se lo spunto, pur senza sconfinare nel plagio vero e proprio, non rimarrà senza conseguenze economiche per la produzione italiana.
Più in generale, la trama si fonda sul cavaliere solitario della tradizione western: uno sconosciuto chiamato Joe (l’attore Clint Eastwood, già personaggio della serie televisiva statunitense “Rawhide”) arriva nel miserabile villaggio di confine di San Miguel, in groppa ad un mulo. Indossa un poncho messicano, un cappello e ha sempre un mezzo sigaro fra i denti. Altre caratteristiche: è un uomo di poche parole, con uno sguardo glaciale e una Colt che parla per lui. Dopo avere analizzato il contesto in cui è venuto a trovarsi – due famiglie, i Rojo messicani e i Baxter americani, sono in lotta per il predominio – decide la propria strategia, appoggiandosi ora gli uni ora gli altri, fino a quando, una volta distrutti i Baxter dalla furia dei rivali, non si trova a fronteggiare da solo i fratelli Rojo, capeggiati dal bieco Ramon (Gianmaria Volontè). Li ucciderà tutti ricorrendo allo stratagemma di una corazza indossata sotto gli abiti, per poi prendere il largo. Realisticamente, una soluzione che appare così fantasiosa da essere del tutto inverosimile, perché qualunque persona impugnasse un fucile come Ramon Rojo, dopo aver sparato inutilmente al petto dell’avversario un paio di volte, avrebbe mirato alla sua testa.
Ma negli anni successivi, il western all’italiana, sempre più lontano dai canoni della Frontiera, avrebbe abituato il suo pubblico a ben altro: uomini solitari che girano tirandosi dietro una bara che nasconde una mitragliatrice, vendicatori che si servono di una mannaia, pistoleri ciechi e così via.
“Per un pugno di dollari” è un film cruento, con molte sparatorie e scene di violenza spesso esagerate, sostenute dalle note musicali composte da Morricone, che non tarderà ad acquisire popolarità mondiale quale autore di colonne sonore. Le imprecisioni e gli anacronismi del film sono parecchi, come l’impiego di una mitragliatrice che all’epoca non esisteva sicuramente e l’uso disinvolto delle Colt che nell’Ottocento non erano ancora in grado di fornire certe prestazioni.

Contro ogni più rosea aspettativa, gli incassi furono notevolissimi. Soltanto in Italia, la pellicola introitò 3 miliardi e 182 milioni di lire (Massimo Moscati, “Western all’italiana”, Pan Editrice, Milano, 1978, p. 34). Negli Stati Uniti, distribuito con la traduzione letterale del titolo, “For a Fistful od Dollars”, fu un successo e complessivamente il ricavato mondiale si aggirò sui 14 milioni e mezzo di dollari. La critica, generalmente molto favorevole, non fu tuttavia unanime. Se il regista Martin Scorsese lo elogiò apertamente, perché introduceva un nuovo modo di fare western, alcuni giornalisti lo stroncarono, definendolo addirittura “orribile”, ma ciò non deve meravigliare, se si rammenta quanto era stato scritto a proposito di “Sentieri selvaggi” alla sua prima uscita. Tullio Kezich, pur ammettendo che “il paesaggio spagnolo non è diverso da quello del New Mexico”, rilevò che il film conteneva “qualcosa di eccessivo, che denuncia la mancata appartenenza al filone originario…in ‘Per un pugno di dollari’ si esagera: stragi salgariane, torture sadiche, sangue che imbratta tutto il film. E nessun legame, ormai, con i miti della giustizia, della fantasia e della libertà.” (Marco Giusti, “Dizionario dei western all’italiana”, Arnoldo Mondadori, Milano, 2007, pp. 356-371).
Dopo il trionfo, Leone diede un paio di seguiti alla vicenda, mantenendo come base il personaggio di Joe (divenuto “Il Monco” e “Biondo” nei due film successivi) interpretato da Eastwood, ma aggiungendovi altri attori americani come Lee Van Cleef e Eli Wallach.

“Per un pugno di dollari” venne addirittura superato negli incassi da “Per qualche dollaro in più” (1965) che in Italia raggiunse 3.492.000.000 di lire (Moscati, op. cit., p. 37) e globalmente nel mondo 15 milioni di dollari. “Il buono, il brutto, il cattivo” (1966) si sarebbe attestato su cifre analoghe a quelle del primo film, sfondando però la soglia dei 25 milioni di dollari nella distribuzione mondiale. Secondo Quentin Tarantino, rimane questo il miglior western in assoluto nella storia del cinema.
Con il terzo film sulla “Trilogia del Dollaro”, mentre altri registi – Corbucci, Tessari, Clucher, ecc.- sfornavano spaghetti-western a raffica per delle mense – le sale cinematografiche – che, almeno per qualche anno, rimasero affollate, Leone comprese tuttavia che il discorso rischiava di stancare il pubblico e concepì l’idea di dare una fine al nuovo filone, concretizzata poi con “C’era una volta il West”, certamente la migliore delle sue pellicole sul genere.

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