Gli oscar del cinema western – 10

A cura di Domenico Rizzi
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36.


MALEDETTI COMANCHE

Se Griffith, Ince e De Mille – ma più ancora Anthony Mann con “Il passo del diavolo” e Delmer Daves con “Rullo di tamburi” – avevano deciso di “sposare” la causa dei Pellirosse bistrattati e defraudati delle loro terre, nel 1960 uscirono un paio di film che si discostavano largamente da tale linea buonista, rimarcando la crudeltà dei terribili scorridori delle praterie.
Il minimo comune denominatore di entrambe le pellicole è costituito dalla tribù dei Comanche, una dei più agguerriti popoli delle Grandi Pianure sia nei conflitti contro i Bianchi (Spagnoli e Americani) quanto nei riguardi delle tribù rivali, che erano parecchie: praticamente, quasi tutte.
Nel corso della loro storia, i Comanche si scontrarono infatti centinaia di volte con Sioux, Cheyenne, Arapaho, Pawnee, Apache, Navajo, Tonkawa, Shawnee, Creek, Delaware, con i Messicani discendenti dagli Aztechi e con i coloni che affluivano nel Texas dagli Stati orientali. Forse non tutti sanno che il corpo dei Ranger venne istituito principalmente per dar loro la caccia e proteggere insediamenti, carovane e diligenze dalla loro furia. Questa continua conflittualità finì per portare la tribù – anche con il concorso delle epidemie – alla quasi estinzione, facendo scendere il numero dei suoi componenti dai 20.000 elementi stimati al tempo della dominazione ispanica nel XVIII secolo ai 1.400 degli ultimi decenni dell’Ottocento. Per amore di obiettività è opportuno rilevare che, analizzando i combattimenti sostenuti dai Comanche nell’arco di cento anni e sconfiggendo i soliti luoghi comuni che considerano la tribù vittima degli Americani, oltre la metà delle loro perdite in guerra furono provocate dalle lotte con le tribù nemiche, mentre quelle subite per mano di Bianchi e Messicani rappresentano un numero minore.
Nel 1960 Budd Boetticher, diventato regista dopo avere abbandonato la rischiosa attività di torero in Messico in seguito ad un grave incidente durante una corrida, aveva girato, su soggetto di Burt Kennedy, “Comanche Station”, assurdamente tradotto dal doppiaggio italiano come “La valle dei Mohicani”, affidando all’intramontabile Randolph Scott il ruolo di Jefferson Cody. L’uomo, alla ricerca della moglie rapita dieci anni prima dai Comanche, incontrerà invece Nancy (attrice Nancy Gates) riscattandola dalla tribù e coltivando invano la speranza di avere trovato una nuova compagna, perché la donna tornerà dal marito disabile.
Nel 1961 Michael Curtiz, regista del celeberrimo “Casablanca”, vincitore di 3 Oscar, dirige “The Comancheros”, distribuito in Italia con il medesimo titolo, affiancato nella regia da un John Wayne non accreditato e con la sceneggiatura di James Edward Grant e Clair Huffaker, elaborata da un soggetto dello scrittore Paul I. Wellman. La colonna sonora, davvero galvanizzante, è di Elmer Bernstein.

La trama è originale, l’azione coinvolgente: il capitano dei Ranger Jack Cutter (Wayne) trae in arresto, a bordo di un battello fluviale, il giocatore d’azzardo Paul Regret (Stuart Whitman) che poi gli sfuggirà, diventando tuttavia un suo collaboratore nella difficile lotta contro i Comanche e i loro fiancheggiatori bianchi, definiti Comancheros. Questi ultimi – realmente presenti nella storia del West: gruppi di Bianchi e Messicani che razziavano e trafficavano con gli Indiani – possiedono una base in una remota vallata e obbediscono agli ordini del bieco Graile (Nehemiah Persoff) della cui figlia Pilar (Ina Balin) è innamorato il giovane Regret. Alla fine i Ranger riusciranno a prevalere, sgominando la banda al completo, mentre Graine, immobilizzato su una sedia a rotelle, viene ucciso da una donna del suo villaggio, alla quale ha fatto impiccare il figlio senza alcuna pietà. Regret e Pilar fuggiranno in Messico con il permesso di Cutter, per coronare il loro sogno d’amore. Il film venne girato prevalentemente nella Professor Valley, una ventina di miglia a nord-est di Moab, nell’Utah, dove fu costruito il villaggio dei Comancheros.
Memorabili alcuni passaggi del film: la scena della fattoria distrutta dai Comanche e della gente torturata, la battaglia finale che si trasforma in un’autentica carneficina, ma soprattutto la performance del trafficante d’armi Tully Crow, interpretato magistralmente da Lee Marvin, la cui parte di “selvaggio” avrebbe meritato l’Oscar quale miglior attore non protagonista.
Il difetto del film è sostanzialmente uno solo: poiché si svolge nel 1843, non esistevano ancora le Colt automatiche, nè i fucili Winchester usati dai Ranger, ma occorre tenere conto che Curtiz non è un regista di western e l’impiego di armi moderne serve ad accrescere la spettacolarità degli scontri con gli Indiani. Da rilevare che il ruolo di Paul Regret avrebbe dovuto spettare a Gary Cooper, giunto già quasi al termine della sua esistenza perché minato da un male incurabile. Infatti sarebbe morto il 13 maggio 1961 a 60 anni appena compiuti. Anche il regista Curtiz, malato prima di concludere il lavoro, soccomberà nella primavera successiva.
“I Comancheros”, nonostante i suoi indiscussi meriti, non ebbe alcun premio, ma gli incassi superarono i 4 milioni di dollari.

Di tutt’altro genere, sebbene ancora imperniato sulle malefatte dei Comanche, “Two Rode Together”, di John Ford, tradotto quasi letteralmente in italiano con “Cavalcarono insieme” e girato ad Alamo Village, Brackettville (Texas) dove Wayne aveva ambientato “La battaglia di Alamo”. Un giudizio che prescinde dall’opinione del regista è che si tratti di una delle opere più incisive di Ford, per l’intenso pathos di cui è permeata dall’inizio alla fine. Ricavato dal racconto “Comanche Captive” di Will Cook – scrittore western di grido – e sceneggiato da Frank S. Nugent, descrive la tragica spedizione di una carovana di coloni che cercano di riavere i propri parenti catturati molti anni addietro dai Comanche di Quanah Parker. Incaricati della mediazione sono lo sceriffo di Tascosa, Guthrie Mc Cabe (James Stewart) che si rivela agli inizi cinico e venale, e l’attempato tenente dell’esercito Jim Gary (Richard Widmark). Il recupero avviene soltanto parzialmente, perché il giovane Lupo Veloce (David Kent) si scoprirà essere il fratello di Marty Purcell (Shirley Jones) ma troppo tardi per evitargli il linciaggio da parte degli stessi coloni; l’altro ostaggio è la messicana Elèna de la Madriaga (Linda Cristal) divenuta controvoglia la moglie di Orso di Pietra (un Woody Strode “indianizzato” per l’occasione) e oggetto della morbosa curiosità delle donne del presidio, che la tormentano con le loro allusioni ai rapporti sessuali avuti con un selvaggio pagano. Alla fine, mentre l’impenitente scapolo Gary farà una promessa a Marty di rivederla, lo sceriffo Mc Cabe si dimostrerà assai meno prevenuto verso la squaw bianca recuperata, partendo per la California insieme a lei dopo che la sua compagna Belle (Annette Hayes) si è messa con un altro.
Il film contiene scene raccapriccianti e abbastanza inusuali per i western del tempo: la donna impazzita che si getta in acqua inseguendo quello che crede suo figlio, la raccapricciante impiccagione del giovane Indiano-bianco Lupo Veloce mentre il carillon si mette improvvisamente a suonare, rammentandogli le sue origini, il delicato rapporto fra il tenente Gary e la bionda Marty, l’insolenza delle donne del forte nei riguardi di Elèna. Per certi versi si assiste ad una drammatizzazione delle tematiche trattate in “Sentieri selvaggi”, con un lieto fine che giunge dopo avere ampiamente traumatizzato lo spettatore.
Le sequenze di questo West crepuscolare e patetico, sono accompagnate dalle musiche, impregnate di rassegnata nostalgia, di George Duning. Per chi scrive, “Cavalcarono insieme” rappresenta l’ennesimo capolavoro di John Ford: in esso “non c’è più l’ottimismo e la fiducia negli esseri umani che avevano caratterizzato i film di un Ford più giovane. Il tono generale è aspro, violento, amaro.” (“I capolavori del cinema western”, De Agostini, Novara, n° 17).
Il regista non manifestò mai eccessivo entusiasmo per questo lavoro: “Non mi piaceva il soggetto, ma lo feci come favore a Harry Cohn (produttore)… Dissi: ’mio Dio, ma questo copione è orribile…E non mi è piaciuto per niente.” (Bogdanovich, op. cit., p. 93). Tuttavia, la critica avrebbe dovuto prenderlo in considerazione, perché riesce a tracciare un ritratto veritiero della conquista pionieristica del West e delle tragedie che l’accompagnarono.
Ma per molte persone che, ostinatamente legate al “mito del buon selvaggio”, vedevano i Pellirosse soltanto come vittime della violenza dei Bianchi, certi argomenti erano decisamente tabù.

INCESTO E VENDETTA

Il tema dell’incesto, affrontato varie volte dal cinema – si ricordi, per esempio, “Scarface” di Howard Hawks (1932) nel quale si sottintende una relazione fra il gangster Tony Camonte e la propria sorella – era già stato sfiorato anche dal western in alcune pellicole (“Notte senza fine”, “Gli inesorabili”) senza che tuttavia si trattasse di relazioni carnali fra consanguinei. In “L’occhio caldo del cielo” si arriva invece ad un rapporto sentimentale fra padre e figlia, entrambi inconsapevoli del loro vincolo parentale.

“The Last Sunset”, di Robert Aldrich, adattato molto liberamente dal romanzo “Sundown at Crazy Horse” di Howard Rigsby, secondo il critico americano Leonard Maltin, “è un po’ fuori dai canoni” perché “contiene di tutto, dall’incesto agli Indiani”. (Leonard Maltin, “Guida ai film 2008”, Dalai Editore, Milano, p. 1403). Sceneggiato abilmente da Dalton Trumbo, venne interpretato da Kirk Douglas (Brendan O’Malley) Rock Hudson (Dana Stribling) Dorothy Malone (Belle Breckenridge) Joseph Cotten (John Breckenridge) e Carol Lynley (Melissa, “Missy”) che lo stesso anno recita il ruolo di Allison Mackenzie in “Ritorno a Peyton Place”. La storia si snoda in una fascia di confine fra Messico e Stati Uniti, dove il pistolero O’Malley, inseguito dallo sceriffo Stribling, ottiene ospitalità nel ranch di John Breckenridge, la cui moglie è stata a suo tempo amante del ricercato. Nessuno, a parte Belle, sa che O’Malley è il padre di sua figlia Missy, una graziosa biondina subito affascinata dalla personalità del bandito, con il quale intreccia un delicato flirt, rimasto fortunatamente a livello abbastanza superficiale. Durante il tragitto – Stribling e O’Malley devono condurre una mandria nel Texas, per conto di Breckenridge, che tuttavia resterà ucciso in una rissa – l’amore fra Missy e il padre naturale rischia di trasformarsi in un rapporto molto serio e completo e Belle si decide a rivelare la verità al suo ex spasimante per impedire che si trasformi in una vera e prropria unione. Sconvolto dalla verità appresa, l’uomo affronterà Stribling in duello non appena condotto il bestiame a destinazione, ma si presenterà allo scontro con la pistola scarica, facendosi deliberatamente uccidere.
Tragedia familiare, ma descritta senza eccessivi patemi e soprattutto senza trasgressioni intenzionali, dal momento che i due interessati sono all’oscuro del loro vincolo di sangue. Per il resto, un film che scorre piacevolmente, inframmezzato da una battaglia con i Pellirosse, una rissa da saloon, un ballo serale nella prateria con l’accompagnamento musicale di alcuni vaqueros messicani e molti tête-à-tête fra i 4 protagonisti, i due uomini nemici e le due donne. In definitiva, una pellicola – costata oltre 3 milioni di dollari, con un ricavato insufficiente – pregevole e originale, benché si discosti parecchio dalla trama del romanzo, ma la critica sembra fare orecchie da mercante. Infastidita dal tema introdotto da Aldrich, oppure troppo distratta da altri film distribuiti nel medesimo anno? Probabilmente sia l’una che l’altra cosa.

Vendetta e amore formano il contesto dell’unico film diretto da Marlon Brando, “One-Eyed Jacks” (“I due volti della vendetta”) dopo avere scartato le candidature sia di Sam Peckinpah che di Stanely Kubrick. La storia, basata sul romanzo “The Authentic Death of Hendry Jones” di Charles Neider, venne sceneggiata dallo stesso Brando insieme a Calder Willingham, con la fotografia di Charles Lang e le musiche del compositore Hugo Friedhofer. La spesa affrontata fu notevole (il preventivo era di 1 milione e 800.000 dollari) raggiungendo addirittura i 6 milioni, che sarebbero stati recuperati molto più lentamente del previsto, anche perché le riprese durarono, fra diverse interruzioni, circa tre anni. La produzione, rappresentata da Frank B. Rosenberg, puntava sulla presenza carismatica di Brando (Rio) Karl Malden (Dad Longworth) di una Katy Jurado ancora in ottima forma (Maria Longworth) nonché di Ben Johnson (Bob Amory) e Pina Pellicer (Louisa), ma anche sulle splendide immagini della scenografia, girate in California, a Pfeiffer Beach, Big Sur, nella Monterey Peninsula ed in parte nella Death Valley. Rispetto alla durata iniziale di 282 minuti, il film arrivò alla distribuzione con moltissimi tagli, riducendosi a 141 minuti per decisione della Paramount Pictures con grande disappunto di Brando.
La trama era imperniata sul ritorno di un bandito (Brando) che aveva dovuto scontare 5 anni di reclusione in Messico essendo stato piantato in asso dal complice (Malden). Tornato in libertà, il galeotto rintracciava l’uomo che l’aveva tradito, ormai sposato e sistemato assai bene, essendo divenuto anche sceriffo di Monterey, in California. L’imprevisto ostacolo alla vendetta è l’innamoramento di Rio (Brando) verso la figlia adottiva di Dad (Malden) interpretato da quest’ultimo come una subdola ritorsione da parte dell’ex complice. Quando Rio uccide in un saloon una persona che aveva oltraggiato una donna, Dad coglie l’occasione per arrestarlo, frustarlo pubblicamente e scacciarlo dalla città dopo avergli fracassato una mano. Rio si rifugia in un villaggio costiero di pescatori cinesi e dopo essersi ristabilito riparte per fare giustizia dello sceriffo, che ucciderà in duello, promettendo poi a Louisa – da lui messa incinta poco tempo prima – di ritornare da lei.
Il film, pur non lasciando del tutto indifferenti i critici, ottiene soltanto una nomination per la miglior fotografia a Charles Lang jr., mentre Brando ne guadagna un’altra dalla Directors Guild of America Award per la miglior regia, senza assicurarsi i relativi premi. Otterrà invece nel 1962 due premi speciali, rispettivamente conferiti a Brando e a Pina Pellicer quale miglior attrice, al Festival del Cinema di San Sebastiàn.

DUE STELLE AL TRAMONTO

All’inizio degli Anni Sessanta, sembra che il cinema western continui a perdere colpi, almeno a giudicare dalla quantità di film immessi sul mercato, ma non sempre alla flessione quantitativa si accompagna una minore qualità del prodotto. Nel 1962 Hollywood ne distribuisce circa 22, dei quali qualcuno ambisce all’Oscar ed altri ottengono una menzione importante. E’ l’anno in cui il trentasettenne regista Sam Peckinpah, quasi esordiente dopo avere diretto l’anno prima il discutibile “The Deadly Companions” (“La morte cavalca a Rio Bravo” con Maureen O’Hara e Brian Keith) presenta “Sfida nell’Alta Sierra”, ripescando due grandi interpreti del B movie: Randolph Scott e Joel Mc Crea.

Il primo aveva all’attivo una serie interminabile di film di ogni genere (addirittura 103 in 33 anni di una carriera iniziata nel 1928), diretti anche da famosi registi quali Fritz Lang, King Vidor, Henry Hathaway, Michael Curtiz e Budd Boetticher. Fra i suoi western meno antichi, incompresi all’epoca della distribuzione e rivalutati a distanza di tempo, sono da ricordare almeno “Settimo Cavalleria” (Joseph H. Lewis, 1956) “Decisione al tramonto” (Budd Boetticher, 1957) e il citato “La valle dei Mohicani”.
Joel McCrea, più giovane di 7 anni rispetto al sessantaquattrenne Scott, era ricordato anche per i suoi numerosi western, principalmente “Buffalo Bill” (William A. Wellman, 1944) e “Schiava degli Apaches” (Charles Marquis Warren, 1957).
Nelle intenzioni iniziali della produzione, i ruoli stabiliti per i due attori avrebbero dovuto essere invertiti, ma alla fine Mc Crea interpretò lo sceriffo in pensione Steve Judd e Scott il suo ex collega Gil Westrum. “Ride the High Country” – soggetto e sceneggiatura di N.B. Stone, fotografia di Lucien Ballard e musiche di George Bassman – è una storia crepuscolare e malinconica di due sopravvissuti al vecchio West in un’epoca in cui circolano già le automobili e l’Ovest sta subendo un profondo cambiamento. Rimasti entrambi a bolletta sparata, accettano di prelevare un carico d’oro in un villaggio di minatori in cambio di un lauto compenso. Westrum si lascerà ingolosire dal ricco bottino, cercando di accaparrarselo, mentre Judd farà di tutto per rispettare le consegne ricevute. Alla fine i due si troveranno a combattere dalla stessa parte contro una banda di fuorilegge: l’onesto troverà la morte, ma avrà la promessa del collega di portare il carico regolarmente a destinazione. Fra gli altri attori, figurano Mariette Hartley (Elsa Knudsen, una ragazza fuggita da un padre-padrone bigotto e invasato) e Ron Starr (Hecht Longtree, che accompagna il trio nella sua missione).
“Sfida nell’Alta Sierra” è un film sull’amicizia virile e la reciproca stima di due uomini che, per quanto appannata dalle circostanze, riemerge prepotentemente nelle sequenze finali. Sebbene non abbia ancora concepito scene di violenza paragonabili a quelle contenute ne “Il mucchio selvaggio” di qualche anno dopo, Peckinpah non manca di sottolineare la perversa crudeltà degli uomini, soprattutto nella scena del matrimonio di Elsa con un minatore, che concede la giovane moglie anche ai suoi amici ubriachi nel corso della festa nuziale, provocando l’intervento di Judd e Westrum. Il costo della pellicola fu di oltre 800.000 dollari, ma ai botteghini il ricavato fu sensibilmente inferiore. Va tuttavia precisato che la lavorazione, oltre che effettuata con un budget limitato, dovette accontentarsi di girare le scene esterne in spazi abbastanza angusti, poco distanti dagli studi in cui avevano effettuato le riprese interne. Per citare un particolare curioso, il direttore artistico Leroy Coleman, costretto ad un forzato risparmio, costruì l’accampamento dei minatori vicino a Griffith Park, nei dintorni di Hollywood, servendosi delle stoffe utilizzate per le vele de “L’ammutinamento del Bounty” (Valerio Caprara, “Sam Peckinpah”, La Nuova Italia, Firenze, 1978, p. 37) Inoltre il film non venne praticamente pubblicizzato. Un tardivo riconoscimento gli giunse nel 1992, quando venne inserito nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso.


Una scena tratta da “Sfida nell’Alta Sierra”

La critica lo aveva variamente interpretato negli anni successivi alla sua distribuzione, ma quasi sempre le lodi andarono ai due protagonisti principali: “Ora tutti e due gli attori entrano in punta di piedi nell’atmosfera senza trucchi né fronzoli allestita da Peckinpah; senza gigionerie divistiche – ed anzi con l’ostinata sobrietà che lascia spazio anche ai comprimari – collaborano sino in fondo alla realizzazione di un film destinato a restare tra i più belli in senso assoluto nella produzione USA degli Anni Sessanta” (Caprara, op. cit., p. 39).
Il tema del film sarà ripreso più di una volta in altri western successivi, anche in epoca molto recente, quasi a voler sottolineare “una disperata volontà di resistenza alla sopravvenuta senilità del West” (Caprara, op. cit., pp. 39-40).
Gli eroi della Frontiera, anche quando sembrano degli angeli decaduti, non smarriscono mai completamente la dirittura di fondo che li ha spinti a compiere le loro grandi imprese.

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