Gli oscar del cinema western – 8

A cura di Domenico Rizzi
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36.

UN DOLLARO D’ONORE
Nel 1959 sono soprattutto 3 le pellicole western di grande richiamo, imperniate su argomenti completamente diversi.
“Un dollaro d’onore”, diretto da Howard Hawks, possiede una storia particolare, in quanto venne concepito come espressa reazione a “Mezzogiorno di fuoco”, ai limiti dell’accettabilità ai tempi del Maccartismo per avere mostrato la vigliaccheria della gente di fronte ad una banda di criminali.
John Wayne, protagonista principale del film, si dimostrò anche il più accanito nel volerlo girare e fu talmente convinto dal copione che avrebbe accettato, qualche anno dopo, di recitare nel suo remake, diretto sempre da Hawks nel 1966, dal titolo “El Dorado”.
Il titolo originale era “Rio Bravo”, ma poiché in Italia il film “Rio Grande” di John Ford era già stato presentato con il medesimo titolo, in sede di doppiaggio si dovette intitolarlo “Un dollaro d’onore” per evitare confusioni. Basato sul racconto “Rio Bravo” di Barbara Hawks McCampbell (figlia del regista) e prodotto dallo stesso Hawks, mise in campo una schiera di attori che gareggiavano in bravura fra loro: oltre a Wayne (lo sceriffo Chance) Dean Martin (il suo vicesceriffo alcolizzato, Dude) Walter Brennan (l’anziano aiuto Stumpy) la giocatrice d’azzardo Feathers (Angie Dickinson, “gambe d’oro d’America”) il giovane Colorado Kid (il cantante Ricky Nelson). La sceneggiatura venne affidata a Jules Furthman e Leigh Brackett, la colonna sonora a Dimitri Tiomkin, che per l’occasione compose una personalissima versione del “De Guello”, marcia di morte messicana.

Girato nei dintorni di Tucson, Arizona, nell’estate del 1958, “Un dollaro d’onore” rimane, insieme a “Il Fiume Rosso”, la più bella realizzazione western di Hawks. Narra la vicenda di un autentico assedio subìto dallo sceriffo Chance e dai suoi aiutanti, dopo avere imprigionato per omicidio Joe Burdette (Claude Atkins) fratello del più importante allevatore della zona, Nathan Burdette (John Russell). Mentre gli uomini della legge attendono l’arrivo degli agenti federali che dovranno prendere in consegna il prigioniero e il potente fratello di questi mette in atto vari tentativi per liberarlo, il vicesceriffo Dude, che i Messicani chiamano “Borraciòn” (ubriacone) per la facilità con cui si concede alla bottiglia, riesce a liberarsi gradualmente dal vizio, riacquistando una dignità che aveva perduto dopo essere stato lasciato da una donna. Parallelamente, il caparbio Chance – un John Wayne che ha superato la soglia dei 50 anni, ma conserva il suo pieno vigore – riesce ad averla vinta contro i malfattori e rinuncia finalmente al celibato avviando una relazione con la bellissima Feathers. Alla fine la banda verrà sgominata in un cruento scontro con impiego della dinamite e tanto lo sceriffo quanto i suoi collaboratori e amici ne usciranno trionfalmente.
Sebbene il personaggio centrale del film, quello su cui è incentrata l’indagine psicologica, sia Dude (Martin) lo stesso Hawks volle che la storia gravitasse intorno al granitico sceriffo Chance impersonato da Wayne. Naturalmente, perché neppure a lui era piaciuta la morale del film di Zinneman. “Non credevo” disse in un’intervista “che un bravo sceriffo dovesse correre in giro per la città come un pollo senza testa a chiedere aiuto, e che alla fine dovesse salvarlo la moglie quacchera. Quella non è l’idea che ho di un bravo sceriffo in un western.” (Joseph Mc Bride, “Il cinema secondo Hawks”, Pratiche Editrice, Parma, 1992, p. 161). Eccezionale anche la parte di Walter Brennan (Stumpy) grande attore e caratterista di molti western: vero esempio di fedeltà al proprio capo e al rispetto della legge.
La colonna sonora è, come si è anticipato, uno dei punti forti del film, soprattutto nelle canzoni cantate da Dean Martin e Ricky Nelson (“My rifle, my pony and me”, “Rio Bravo”) che raccolsero anche un notevole successo discografico. La Western Writers Association of America avrebbe inserito “My rifle, my Pony and me” fra i 100 motivi western più belli di tutti i tempi.
Premi significativi al film di Hawks non ne arrivarono all’epoca in cui venne prodotto, ma gli attestati di riconoscimento in futuro sarebbero stati parecchi. Nel 2002 Quentin Tarantino ha collocato il film al 2° posto (dopo “Il buono, il brutto, il cattivo” di Leone, opinione che l’autore del presente saggio non condivide affatto) fra i suoi western preferiti e nel 2014 “Un dollaro d’onore” venne incluso nel National Film Registry. Anche l’incasso fu più che discreto, realizzando oltre 5 milioni di dollari in USA e Canada. La scena della sparatoria davanti al saloon, nella quale sono impegnati Wayne e Nelson contro alcuni uomini di Burdette, sarebbe poi stata utilizzata nella rapida rassegna di immagini che precede “Il pistolero” di Don Siegel, nel 1976.

PISTOLE MERCENARIE

Di tutt’altra pasta la figura di sceriffo protagonista di “Ultima notte a Warlock” (“Warlock”, dal romanzo omonimo di Oakley Hall) diretto da Edward Dmytryk con l’interpretazione di Henry Fonda (Clay Bleisedel) Anthony Quinn (Tom Morgan) Richard Widmark (John Gannon) e Dorothy Malone (Lily Dollar).

In questo caso, si tratta di una città tiranneggiata da un ricco possidente, per difendersi dal quale un comitato di cittadini non vede altra soluzione che rivolgersi ad un formidabile gunman di nome Clay, che porta due pistole con il calcio ricamato in oro. Il suo braccio destro è un certo Morgan, visibilmente claudicante, che gareggia con lui in bravura e da anni gli copre le spalle. Il duo pensa subito a sviluppare i propri affari, rilevando un saloon, ma ben presto gli abitanti di Warlock si accorgeranno di avere accordato al pericoloso duo un eccessivo potere. L’unico che osa opporvisi è un mandriano di nome John Gannon dal passato poco pulito nella banda del ranchero prepotente. Pur sapendo di non essere in grado di sfidare Clay e menomato di una mano dopo che i suoi ex complici glie l’hanno trafitta con un coltello, egli assume la carica ufficiale di vicesceriffo e si comporta coraggiosamente, sgominando dapprima la banda e poi affrontando coraggiosamente Clay, che nel frattempo ha battuto in duello Morgan. Ammirato dalla sua audacia e tormentato dal rimorso di avere ucciso il proprio socio, il mercenario getterà una dopo l’altra le sue due pistole nella polvere, allontanandosi a cavallo.
“Ultima notte a Warlock” suggerirà probabilmente lo spunto a “Il mio nome è nessuno”, diretto nel 1973 da Tonino Valerii con la supervisione di Sergio Leone, nel quale lo stesso Fonda assume le vesti del pistolero Jack Beauregard prossimo al ritiro, per cedere il campo al giovane discepolo Nessuno (Terence Hill).
Il mio nome è Nessuno
A parte ciò, il film accese appassionate discussioni intorno alle figure di Clay e Morgan, nella cui amicizia taluni vollero vedere un rapporto di natura omosessuale, seppure a livello platonico. Per il western di quei tempi, ciò innegabilmente equivaleva a sollevare scandalosi commenti, assai peggiori di quelli espressi per “Il mio corpo ti scalderà” di Hawks-Hughes, nel quale la trasgressione consisteva prevalentemente nelle forme giunoniche della Russell. Un critico rilevò nel film “un’interessante presentazione del tema dell’omosessualità e un tono da tragedia greca” (“La conquista del West in oltre 101 film”, Demetra, Colognola ai Colli, 1997, p. 122) e in effetti molti comportamenti – il disprezzo di Morgan verso l’ex fiamma Lily (Dorothy Malone) e la sua smisurata ammirazione per Clay, l’unico “che non l’abbia fatto sentire uno storpio” – inducono a farlo credere.
Nonostante fosse fortemente innovativo rispetto ai western di stampo tradizionale, il film di Dmytryk non ottenne gli incassi sperati e neppure accese nella critica qualcosa che andasse oltre una placida curiosità per le sue tematiche sottintese. Per contro, la sua influenza sul western moderno, che cercava di essere sempre meno conformista e più disinibito rispetto ai canoni classici, si può considerare notevole. L’anti-eroe impersonato da Fonda verrà infatti ribadito molte volte nelle produzioni successive, significando con ciò che la figura del cavaliere solitario, animato da nobili ideali e propenso a difendere gli oppressi senza contropartita, stava ormai sbiadendo.
L’avvento dello spaghetti-western avrebbe assestato il colpo di grazia alla sua immagine romantica, enfatizzando sempre più personaggi che agiscono per denaro, per vendetta o per qualche altro poco nobile scopo.

ROZZI SOLDATI E AVVENTURE FRA GLI INDIANI

Il 1959 vide anche il ritorno in grande stile di John Wayne in uno dei suoi ruoli preferiti, quello dell’ufficiale di cavalleria. Non a caso, il generale Douglas Mc Arthur, vincitore dei Giapponesi nel Pacifico, gli avrebbe detto: “Lei è la più tipica espressione del soldato americano, più soldato di un soldato autentico!”
Il colonnello John Marlowe (Wayne) al comando di un reparto inviato nelle retrovie sudiste per distruggere la rete di comunicazioni del nemico, ha nel suo staff anche il maggiore medico Henry Hank Kendall (William Holden) verso il quale prova una forte avversione. Il motivo risiede nel fatto che la moglie di Marlowe è morta sotto i ferri di un chirurgo, spingendo Marlowe a chiamare “macellaio” Kendall; questi si difende affibbiando il dispregiativo di “manovale” al suo comandante, che nella vita civile è stato un ingegnere ferroviario.
Diretto dal solito, abilissimo John Ford, “The Horse Soldiers” (“Soldati a cavallo”) attinge al romanzo di Harold Sinclair e non nasconde qualche ambizione. Per addolcire il carattere spigoloso di Marlowe, introduce la figura femminile di Hanna Hunter (Constance Towers) una bionda aristocratica del Sud un po’ troppo giovane per il colonnello, che tuttavia le farà una promessa di matrimonio a conflitto terminato.

L’antipatia fra il medico e il comandante del reparto sfocia, come spesso accade nei film di Ford, in una sonora scazzottata senza vincitori né vinti, mentre alle scene di distruzione della guerra – un’intera formazione sudista che compie uno scriteriato assalto allo scoperto, venendo annientata dai fucili dei Nordisti barricati – si aggiunge la patetica scena dei cadetti minorenni di una scuola, i quali, guidati dal loro direttore, tentano di opporsi agli invasori. Anche la lezione impartita a questi ragazzi, rimandati a casa a suon di sculacciate, rappresenta una scena di fordiana ordinarietà: la guerra non è fatta soltanto di cruenti fatti di sangue, ma anche di bonarie azioni ispirate dal sentimento.
E’ difficile che il regista volesse, con questo nuovo film sulla cavalleria, aggiungere qualcosa alla sua celebre trilogia. Molto più verosimilmente, Ford intendeva rappresentare la rappacificazione fra Nord e Sud dopo il conflitto fratricida che aveva causato oltre 600.000 morti, un milione e mezzo di feriti e immani distruzioni. La pace doveva dunque passare anche attraverso l’unione fra il rozzo soldato dell’Unione e l’ereditiera del Sud di origini aristocratiche, una riproposizione, sotto certi aspetti, della situazione creata dal medesimo regista in “Rio Bravo”. Girato lungo il fiume Cane della Louisiana e nei dintorni di Natchez, Mississippi, il film si assicurò discreti incassi – oltre 4 milioni di dollari in USA e Canada – ma non arrivò a compensare le spese sostenute. La critica lo valutò invece piuttosto sciatto, sebbene il giudizio appaia impietoso, ma si ha l’impressione che esso fosse condizionato dalla presenza sul set di John Wayne. Del resto, neppure “Sentieri selvaggi” era stato valutato positivamente, salvo ripensamenti tardivi.
Se il medico di “Soldati a cavallo” (Holden) combattuto fra dovere e pacifismo, non raccoglie il massimo delle simpatie del pubblico, quello che interpreta “L’albero degli impiccati”, di Delmer Daves è una figura ambigua che nasconde un passato turbolento. Infatti, Joseph “Doc” Frail (Gary Cooper) è responsabile della morte, avvenuta contemporaneamente, di sua moglie e di suo fratello. Accolto in una piccola comunità del Montana, Frail cerca di darsi da fare, salvando prima un uomo dal capestro e curando poi la giovane immigrata svizzera Elizabeth (Maria Schell) dalla cecità temporanea causata dal riverbero delle nevi.

Costretto ad uccidere il losco Plante (Karl Malden) perché aveva cercato di abusare di Elizabeth, la strada del medico si fa di nuovo in salita, facendogli rischiare l’impiccagione per omicidio, ma Elizabeth e l’uomo che Frail aveva salvato dal linciaggio barattano la sua salvezza con l’oro trovato sepolto sotto un albero e cedono i diritti sulla miniera che possedevano. Lieto fine, con il dottore che riesce a convincere la sua amata a non lasciare quel luogo, sottintendendo un futuro di tranquilla vita a due.
Riscontri non esaltanti sul mercato, ma una colonna sonora di tutto rispetto, con il motivo dei titoli di testa composto da Jerry Livingston – cantato in un’altra versione dallo specialista Frankie Laine – e le musiche di Max Steiner. Come tutti i film di John Ford, merita senza dubbio una collocazione speciale nella evoluzione del western cinematografico.
Di tutt’altro genere due pellicole che ricalcano il filone “indiano”.
La prima – “La guida indiana”, titolo originale “Yellowstone Kelly” – è dedicata ad una presunta avventura fra i Sioux di Luther Sage Kelly, esploratore, cartografo, tipografo e cercatore d’oro in Alaska, agente in una riserva dell’Arizona e governatore di un distretto delle Filippine. Una vita estremamente avventurosa, conclusasi in un ranch della California nel 1928, quando l’uomo aveva compiuto i 69 anni. Il romanzo che dà origine al film venne scritto da uno dei più apprezzati narratori del West, Clay Fisher, pubblicato nel 1957 con il titolo “Yellowstone Kelly”, e vorrebbe scoprire una vicenda nascosta nella vita del celebre esploratore, al tempo in cui non era ancora iniziata la campagna militare del 1876 contro Sioux e Cheyenne. In realtà la trama si discosta parecchio dal libro, nel quale la giovane indiana contesa fra il capo Gall, suo nipote Sayapi e Kelly termina i suoi giorni in preda alla pazzia.

Il buonismo dei “B-movie” escogita invece una conclusione a lieto fine che spazza via la drammaticità del racconto di Fisher. Diretto da Gordon Douglas e sceneggiato da Burt Kennedy, presenta Clint Walker nella parte del protagonista, John Russell in quella del capo Gall e Andra Martin nei panni di Wahleeah, la ragazza crow (arapaho nel film) ferita e presa prigioniera da Sayapi (Ray Danton) e guarita da Kelly. Come c’era da aspettarsi, il film transita sugli schermi americani ed europei senza infamia e senza lode.
La seconda, “Guerra indiana”, riaccende un filone dal sapore vagamente cooperiano un po’ accantonato, quello dei conflitti coloniali tra Inglesi, Francesi e Pellirosse loro alleati, richiamando da vicino “Passaggio a Nord Ovest” di Vidor, anche perché il protagonista è sempre il maggiore Robert Rogers, lo storico comandante dei Queen’s Rangers britannici, interpretato questa volta da Keith Larsen. Diretto da Jacques Tourneur, fa parte di una trilogia che comprende “La valanga sul fiume” (“Fury River”) e “Frontiere in fiamme” (“Mission of Danger”) prodotti nel medesimo anno e co-diretti dallo stesso Tourneur. Larsen, considerato un attore di serie B, si era fatto un nome anche in Italia con la serie televisiva per ragazzi, in 26 episodi, “Penna di Falco”, nella quale interpreta un saggio e pacifico capo dei Cheyenne.
Dopo i 3 film citati, il western dedicato alla Vecchia Frontiera non avrebbe mai toccato livelli pari a quelli raggiunti con le storie di cowboy e pistoleri almeno fino al 1992, anno della riedizione de “L’ultimo dei Mohicani” diretto da Michael Mann e interpretato da Daniel Day-Lewis.

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