Il mistero del Codice Beale

A cura di Mario Raciti

L’epopea del West è una vera fucina di storie, dalle più incredibili alle più classiche e note. Come il genere letterario riesce ad essere un contenitore che può ospitare al suo interno tutti gli altri generi (il giallo, l’horror, la fantascienza, il romantico) così gli anni della Frontiera sono stati testimoni di storie di tutti i tipi. Quella di cui vorrei parlarvi in questo articolo è conosciuta come mistero del cifrario Beale ed è una vicenda che coniuga, meglio della finzione, storia del West, tesori nascosti e codici segreti.
Siamo nel 1817. Thomas Jefferson Beale, un avventuriero, si inoltra nei territori del West insieme alla sua compagnia, composta da altri ventinove uomini.
L’obiettivo è la caccia. In un anno attraversano le pianure centrali e giungono a Santa Fe, in territorio messicano, dove svernano. A primavera lasciano il villaggio e si dirigono verso nord, all’inseguimento di una mandria di bisonti.
Una sera del 1818 il gruppo si accampa in un burrone (molto probabilmente il letto di un torrente in secca) a quattro o cinquecento chilometri da Santa Fe. Mentre alcuni uomini preparano la cena, uno del gruppo si accorge di qualcosa che luccica in una fenditura della roccia. Raccolto l’oggetto, lo mostra ai compagni e tutti concordano di essere davanti a una pepita d’oro. Con l’agitazione di una simile scoperta in corpo, gli uomini si affannano a cercare e in breve scoprono un enorme giacimento di oro e argento. Sfruttano questa miniera per un anno e mezzo, poi Beale, nel gennaio 1820, raccolto il bottino, torna nella natia Virginia, a Lynchburg, dove seppellisce il tesoro e fa amicizia con un albergatore chiamato Robert Morriss; poi ritorna di nuovo nel West.
Morriss lo rivede solo due anni dopo, nel 1822. Beale gli lascia una cassetta metallica chiusa e si fa promettere di custordirla, perchè contiene «documenti importanti e di valore». Morriss acconsente, e da quel momento non ci pensa più. Poi nell’aprile dello stesso anno riceve una lettera da St. Louis, firmata Beale.


“The Beale Vault”

La missiva, oltre a un resoconto del viaggio di Beale nel West, riporta quanto segue:

[la scatola metallica] Contiene carte di importanza vitale per le mie fortune e per quelle di diverse persone con cui sono in affari, e nell’eventualità della mia morte la sua perdita sarebbe irreparabile. Comprenderete, quindi, la necessità di fare ogni sforzo perché un simile disastro non si verifichi… Se nessuno di noi dovesse tornare, vi prego di custodire con cura la scatola per un periodo di dieci anni dalla data di questa mia, e se trascorso quel tempo né io né alcuno da me autorizzato l’avrà reclamata, apritela, cosa che si può fare rimuovendo la serratura. Troverete, oltre a fogli indirizzati a voi, documenti che vi saranno incomprensibili senza l’aiuto di una chiave. Ho posto la chiave nelle mani di un amico di qui, sigillata e indirizzata a voi, con l’ordine di non recapitarvela fino al giugno 1832. Col suo aiuto, comprenderete perfettamente quello che sarete pregato di fare.

Morriss non rivide mai più Beale, e a tutt’oggi non si sa che fine fece l’avventuriero. L’albergatore custodì la cassetta ben oltre i dieci anni richiesti, nella speranza che Beale si rifacesse vivo. Ma nel 1845 nè l’uomo nè il corriere che doveva consegnargli il documento con la chiave si erano fatti vivi, così Morriss decise di aprire la scatola. Dentro vi trovò tre fogli pieni di cifre e un appunto scritto in inglese. In quel foglietto, Beale aveva riportato la storia della sua avventura e precisava che i tre fogli cifrati contenevano, rispettivamente, l’ubicazione del tesoro, la quantità e i nomi dei trenta beneficiari del bottino (più una percentuale per lo stesso Morriss). L’albergatore, a quel punto, si era convinto che Beale fosse morto e, nel tentativo di esaudire le sue volontà, si impegnò a decifrare i crittogrammi. In vent’anni di ossessionato lavoro non riuscì a giungere a nessuna decrittazione e, nel 1862, lasciò tutto a un amico rimasto anonimo.
The Beale Papers
Quest’amico, nel 1885, pubblicò un opuscolo di 23 pagine intitolato The Beale Papers (Le carte di Beale), che è l’unica fonte di tutta la vicenda come la conosciamo oggi. L’anonimo scoprì che il primo e il terzo foglio erano del tutto indecifrabili ma riuscì a decifrare il secondo foglio cifrato, quello contenente la descrizione del tesoro. Ci riuscì supponendo che ogni numero sostituisse una lettera; ma visto che nel testo cifrato c’erano numeri superiori al 26 (numero di lettere dell’alfabeto), l’anonimo suppose che il messaggio fosse stato cifrato tramite un libro usato come chiave. La cifratura con questo sistema funziona così: si decide la porzione di testo che deve fungere da chiave e, a ogni parola, si associa un numero in crescendo. Per esempio:

(1)Era (2)una (3)notte (4)buia (5)e (6)tempestosa

In questo modo l’iniziale di ogni parola corrisponde al numero assegnatogli: l’1 sta per E, il 2 per U, il 3 per N, e così via. Se quindi, per assurdo, volessimo comporre la parola tune, cifreremmo il messaggio così: 6-2-3-1 (naturalmente per testi lunghi bisogna usare una chiave lunga, anche pagine intere di un libro). Ovviamente, per decifrare il messaggio è indispensabile che il destinatario disponga del testo chiave. In questo modo il nostro autore anonimo riuscì a decifrare il secondo foglietto, scoprendo che il testo chiave era la Dichiarazione di Indipendenza: «Con quest’idea in mente furono messi alla prova tutti i libri che riuscii a trovare, numerando le lettere e confrontando i numeri con quelli del manoscritto; per qualche tempo ogni sforzo fu vano, finché la Dichiarazione di Indipendenza permise di decifrare uno dei fogli, risuscitando tutte le mie speranze».
Ecco il testo decifrato:

I have deposited in the county of Bedford, about four miles from Buford’s, in an excavation or vault, six feet below the surface of the ground, the following articles, belonging jointly to the parties whose names are given in number “3,” herewith:
The first deposit consisted of one thousand and fourteen pounds of gold, and three thousand eight hundred and twelve pounds of silver, deposited November, 1819. The second was made December, 1821, and consisted of nineteen hundred and seven pounds of gold, and twelve hundred and eighty-eight pounds of silver; also jewels, obtained in St. Louis in exchange for silver to save transportation, and valued at $13,000.
The above is securely packed in iron pots, with iron covers. The vault is roughly lined with stone, and the vessels rest on solid stone, and are covered with others. Paper number “1” describes the exact locality of the vault, so that no difficulty will be had in finding it.

(Ho depositato nella contea di Bedford, a circa quattro miglia da Buford’s, in una fossa, o cripta, sei piedi sotto la superficie del suolo, i seguenti articoli, appartenenti nel loro insieme alle parti i cui nomi sono forniti nell’allegato «3»:
Il primo deposito è consistito in mille e quattordici libbre d’oro, e in tremilaottocentododici libbre d’argento, depositate nel novembre 1819. Il secondo è stato effettuato nel dicembre 1821, ed è consistito in millenovecentosette libbre d’oro, e milleduecentottantotto libbre d’argento; nonché in gioielli acquistati a St. Louis in cambio dell’argento per economia di trasporto, valutati 13.000 dollari.
Quanto sopra è conservato in modo sicuro in recipienti di ferro, con coperchi di ferro. La cripta è rozzamente rivestita di pietre, mentre i recipienti poggiano su solide pietre, e sono coperti da altre. Il foglio numero «1» descrive l’ubicazione esatta della cripta, cosicché trovarla non comporterà nessuna difficoltà.)

Purtroppo per il nostro autore anonimo, però, la Dichiarazione si dimostrò inutile per la risoluzione degli altri due foglietti cifrati. L’uomo, esasperato e ormai ossessionato dal codice segreto, nel 1885 decise di darci un taglio e di pubblicare il tutto nella speranza di offrire la possibilità ad altri curiosi o esperti di risolvere l’enigma.

Nel corso degli anni furono moltissimi coloro che provarono a decifrare i due messaggi rimasti, in particolare – per ovvie ragioni – il primo. Nessuno ci riuscì: non ce la fecero nemmeno gli esperti come Herbert O. Yardley, fondatore dell’U.S. Cipher Bureau (Ufficio Cifre degli Stati Uniti) e nemmeno William Friedman, uno dei migliori crittoanalisti americani. Dovettero desistere anche i crittoanalisti informatici, che non riuscirono a decifrare i messaggi nemmeno con l’uso dei computer appositamente concepiti per questo. Sono stati presi a chiave tutti i testi più famosi (la Bibbia, la Costituzione americana, la Magna Carta, e chissà quanti altri…) ma senza il minimo successo.
Nonostante anni di successi nella decifratura anche dei codici più inaccessibili, nessuno è mai riuscito a venire a capo del codice Beale, e forse la verità è semplicissima, o quantomeno logica: Beale può aver impiegato, come chiave, un testo appositamente redatto di suo pugno, scritto in una sola copia (quella che presumibilmente era stata affidata al corriere perchè la consegnasse a Morriss); in questo modo i suoi foglietti pieni di numeri sarebbero quasi di sicuro il codice più inviolabile mai concepito.

Alcuni scettici ritengono anche si tratti di una bufala. Una prova sarebbe l’uso della parola stampede nella lettera indirizzata a Morriss, scritta nel 1822: secondo alcuni, questa parola non divenne di uso comune che a partire dal 1844. Però non è escluso che fosse già in uso all’epoca in cui Beale scriveva, e che solo dopo divenne comune.
Anche Edgar Allan Poe trova posto nella vicenda: sembra infatti che si sia dichiarato il vero autore dell’opuscolo, il problema è che Poe morì nel 1849 mentre l’opuscolo venne pubblicato quasi quarant’anni dopo.
Il crittografo Louis Kruh ritiene che l’autore dell’opuscolo e quello delle lettere siano la stessa persona, e che quindi tutto sia una truffa concepita intorno al 1885. Kruh svolse un’analisi dei testi e, in base al calcolo delle frequenze e degli stili, giunse alla conclusione che il famoso anonimo sia l’autore di tutta la vicenda e che quindi i codici siano stati scritti a casaccio. In realtà, però, non sembra così. Utilizzando la Dichiarazione di Indipendenza come primo testo-chiave, si generano stringhe di testo non del tutto insensate (Singh riporta un esempio: abfdefghiijklmmnohpp). Secondo James Gillogly, presidente dell’American Cryptogram Association, una tale stringa non è affatto casuale e “le probabilità che una sequenza simile compaia per caso sono meno di una su cento milioni di milioni; ciò suggerisce l’esistenza di un principio crittografico soggiacente alle serie numeriche del primo foglio. Un’ipotesi è che la Dichiarazione di Indipendenza sia davvero la chiave, ma che il testo risultante richieda una seconda decifrazione” (Simon Singh, Codici & Segreti).


Thomas J. Beale

Lo storico Peter Viemeister, autore del libro The Beale Treasure–History of a Mystery, si è anche prodigato nelle ricerche storiche, cercando di capire se tale Thomas Jefferson Beale sia realmente esistito. Nelle ricerche condotte da Viemeister si è scoperto che l’anagrafe del 1790, insieme ad altri documenti, riporta diversi Thomas Beale nati in Virginia. Anche il registro dell’ufficio postale di St. Louis, da cui Beale avrebbe spedito una lettera, riporta un certo “Thomas Beali”.

Al netto dei dati e delle indagini, sembra che la vicenda Beale sia autentica. Il problema è: si sarà mai in grado di decifrare i due messaggi rimasti? Se, come credo anche io, Beale li cifrò su un testo appositamente scritto, le possibilità sono peggio che remote. Sempre che il tesoro non sia già stato trovato.
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Per altri dettagli sulla vicenda vi consiglio il libro di Simon Singh, Codici & Segreti, Bur, 1999 (cura di Stefano Galli), da cui provengono i testi citati in questo articolo.

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