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Gli oscar del cinema western – 3

A cura di Domenico Rizzi
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36.


IL GRANDE BALZO
Il 1950 è sostanzialmente dominato da 4 registi – Ford, Delmer Daves, Anthony Mann e Henry King – e da 5 film, mentre gli altri 9 western usciti nello stesso anno sotto firme diverse rivestono un’importanza minore.
John Ford completa la propria trilogia con “Rio Bravo” (versione originale: “Rio Grande”) la più musicale delle sue produzioni per la quantità di canzoni tradizionali che contiene – fra le quali “I’ll take you home again, Kathleen”, composta nel 1875 da un insegnante dell’Illinois – eseguite dal celebre gruppo dei Sons of the Pioneers. La trama, arrangiamento del racconto “Mission with no record” di Bellah apparso su “The Saturday Evening Post” nel settembre 1847, viene sceneggiata da James Kevin Mc Guinness, con colonna sonora di Victor Young.
Ne sono interpreti John Wayne (tenente colonnello Kirby Yorke) Maureen O’Hara (signora Kathleen Yorke) Ben Johnson (il soldato Tyree) Victor Mc Laglen (sergente maggiore Quincannon) Harry Carey jr. (soldato Daniel Boone) Claude Jarman jr. (soldato Jeff Yorke, figlio del comandante) alcuni già protagonisti de “I cavalieri del Nord Ovest”. Kirby Yorke è invece l’ufficiale che ne “Il massacro di Fort Apache” era impersonato dallo stesso Wayne: in questa nuova avventura il suo cognome aggiunge una “e” finale, trasformandosi da York in Yorke.
Sebbene in tono più sommesso rispetto ai primi due film della trilogia, “Rio Bravo” rappresenta la consacrazione della cavalleria impegnata in una difficile missione contro gli Apache, che hanno sconfinato in Messico dopo aver rapito alcuni ostaggi, spunto che verrà ripreso anni dopo da Sam Peckinpah con “Sierra Charriba”.


Sierra Charriba

Più che una storia di guerra si tratta di una vicenda umana: il maturo colonnello tenta di riconciliarsi con la moglie Kathleen – una donna del Sud aristocratico alla quale ha bruciato la fattoria durante la Guerra Civile, causando il dissidio familiare – e con il figlio Jeff, che ha fallito l’obiettivo di diplomarsi ufficiale all’accademia militare di West Point. L’impresa gli riuscirà perfettamente, dopo avere sconfitto anche gli Indiani e liberati i prigionieri bianchi da essi catturati. L’ambientazione è prevalentemente nella Monument Valley e in alcune aree dell’Utah intorno alla città di Moab, l’incasso supera i 2 milioni di dollari, ma il film non ottiene alcun premio. Ford tornerà sull’argomento della cavalleria con “Soldati a cavallo”, “I dannati e gli eroi” e “Il grande sentiero”, girati fra il 1959 e il 1964, ma soltanto i primi due possiedono il vigore delle precedenti pellicole del regista di origine irlandese.
Più ambizioso e sicuramente meglio apprezzato “L’amante indiana” (“Broken Arrow”) di Delmer Daves, dal romanzo “Blood Brother” dello scrittore Elliott Arnold. Infatti la critica segnalerà l’attore Jeff Chandler come candidato all’Oscar per la parte del capo Cochise e Albert Maltz per la miglior sceneggiatira non originale. Senza vincere alcuna statuetta, l’opera di Daves viene tuttavia premiata nel 1951 con il Golden Globe “come miglior film promotore dell’amicizia internazionale”. Tratta la storia inventata di Tom Jeffords (personaggio storico, interpretato da James Stewart) che sposa Sonseeahray (Debra Paget, appena diciassettenne) sorella di Cochise, capo dei Chiricahua Apache intorno al 1870. Gli sforzi di Jeffords e della moglie indiana, oltre alla buona volontà del condottiero pellerossa e del generale Howard, non bastano tuttavia a riportare la pace, a causa dell’ingordigia dei Bianchi che fanno di tutto per far scoppiare un conflitto. Se la considerazione della critica è discreta, la risposta del pubblico è decisamente buona, fruttando alla casa produttrice quasi 3.600.000 dollari. Stewart è investito di una parte fra le migliori della sua carriera, mentre la Paget – protagonista del colossal “I dieci comandamenti” di De Mille nel 1956 – reciterà altre volte in maniera convincente il ruolo della squaw indiana (“La vergine della valle”, di Robert Webb e “L’ultima caccia” di Delmer Daves, rispettivamente nel 1955 e 1956).
Sempre nel 1950 – anno in cui il genere annovera 24 film – Anthony Mann è autore di 2 apprezzabili lavori molto diversi come soggetto e ambientazione: “Winchester 73” e “Il Passo del Diavolo”.


Winchester 73

Il primo, che avrebbe dovuto essere diretto da Fritz Lang, venne ricavato dal racconto “Big Gun” di Stuart N. Lake e sceneggiato dal geniale Borden Chase, che da ex autista di un famoso gangster aveva pensato di dedicarsi, con grande fortuna, alla letteratura e al cinema. Ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto, attiene ad una faida famigliare fra Lin Mc Adam (James Stewart) e “Dakota” Brown, che si rivelerà essere suo fratello. I due si disputano il possesso del celebre fucile – un modello Winchester di ultimo modello – risolvendo infine la questione con uno scontro armato che vedrà prevalere Mc Adam. Chase ottenne la nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura, senza arrivare ad agguantare il premio. Nel film compare il personaggio storico di Wyatt Earp (Will Geer) mentre la sola protagonista femminile è Shelley Winters, nella parte di Lola Manners, una ragazza da saloon.
Il tema della discriminazione razziale è dominante ne “Il Passo del Diavolo”, nel quale il sottufficiale pellerossa Lance Poole (Robert Taylor) uno Shoshone che ha combattuto valorosamente insieme ai Nordisti ed è stato decorato della Medaglia d’Onore del Congresso, viene espropriato della sua terra a causa del colore della pelle. Addirittura Lance “viene a sapere di non essere considerato neppure un cittadino americano (verità storicamente rispettata, perché i nativi ottennero la cittadinanza solo nel 1924) bensì un tutelato dal governo e, come tale, di non poter possedere terreni” (Mario Pollone, “Il western di Anthony Mann”, Le Mani, Recco Genova, 2007, p. 37). Lo aiuta nella sua vana lotta l’avvocatessa Orrie Masters (Paula Raymond) ma la conclusione è drammatica. L’Indiano soccomberà alla fine presentandosi mortalmente ferito ai suoi persecutori con indosso la divisa su cui fa spicco la più alta onorificenza militare concessa negli Stati Uniti. Secondo il critico Morando Morandini si tratta di un film “sottovalutato, soprattutto in Italia”, mentre negli USA, dove venne presentato con il titolo “Devil’s Doorway”, ottenne maggiori consensi. L’incasso risultò comunque modesto e al di sotto delle aspettative.
Il western delle sfide e dei pistoleri continua a tenere banco negli Anni Cinquanta, assumendo talvolta risvolti psicologici inconsueti.
“Romantico avventuriero” (“The Gunfighter”) diretto da Henry King prevedeva la parte di Jimmy Ringo – un uomo stanco di affidare la propria vita alla pistola e desideroso di ricongiungersi alla moglie Peggy (Helen Westcott) e al figlioletto – per John Wayne, ma l’attore vi rinunciò per alcuni contrasti avuti con il presidente della Columbia Pictures.


The Gunfighter

Quando la casa produttrice vendette i diritti alla Fox, fu ingaggiato Gregory Peck, che compare nel film con i baffi, soluzione non condivisa dai produttori ma scartata a lavorazione già in corso. Secondo alcuni, il sostanziale insuccesso commerciale della pellicola fu da imputare anche all’inestetica trovata di Peck, che sostiene il ruolo crepuscolare del pistolero pentito, la cui decisione di rinunciare alla sua professione gli sarà fatale.
Il western dimostra comunque di essere in buona salute e l’anno successivo saranno addirittura una trentina le pellicole prodotte, fra le quali alcune da cineteca.

TEMI CLASSICI E INSOLITI

A polarizzare l’attenzione nel 1951 sono soprattutto 3 western diretti rispettivamente da Raoul Walsh, Gordon Douglas e William A. Wellman, che affrontano tematiche diversissime quanto di elevato interesse. Intanto la produzione è in aumento rispetto all’anno precedente e il trend si manterrà costantemente in crescita fino al 1957, quando il genere comincerà a registrare le prime serie difficoltà.
“Tamburi lontani”, di Walsh, corrisponde ad un’ennesima conferma, se ve ne fosse ancora bisogno, della capacità recitativa di Gary Cooper, impegnato a sostenere la parte del capitano Quincy Wyatt, che vive nelle paludi della Florida insieme al figlioletto mezzosangue, dopo che la moglie pellerossa gli è stata uccisa. Incaricato di una missione militare all’interno dell’Everglades, dove ha il compito di distruggere una base di contrabbandieri, si trova a guidare 40 soldati, ai quali si aggiungono una coppia di anziani coniugi ed una ragazza fino al mare, dove saranno soccorsi da una goletta della marina. Il film si svolge quasi interamente fra gli acquitrini, sfidando alligatori, serpenti e Seminole ed equivale ad una sorta di Vietnam del 1840.


Tamburi lontani

Dunque un western insolito che, sostiene il critico Ermanno Comuzio “ha il suo punto di forza nell’ambientazione naturale, cioè nella presenza di una natura selvaggia e ostile…” (“La conquista del West in oltre 100 film”, Demetra Editrice, Colognola al Colle, 1997, p. 115). Sceneggiato da Niven Busch su soggetto di sua ideazione, “Tamburi lontani” (“Distant Drums”) si avvale delle musiche di Max Steiner e della splendida fotografia di Sydney Hickox. Gli interpreti, oltre a Cooper, sono Mary Aldon (Judy Beckett) Richard Webb (tenente Tufts) Arthur Hunnicut (Monk) oltre a Larry Carper nel ruolo del capo indiano che sostiene con il capitano Wyatt il duello finale nell’acqua. L’incasso è soddisfacente, sfiorando i 3 milioni di dollari, ma il film non viene segnalato per alcuna nomination, mentre lo avrebbe meritato almeno per la fotografia.
Ancora guerra indiana, ma questa volta nelle aride distese del New Mexico, forma il soggetto de “L’avamposto degli uomini perduti”, trasposizione fedele del romanzo “Only the Valiant” di Charles Marquis Warren e diretto da Gordon Douglas. Gregory Peck è il capitano Richard Lance, disprezzato dai suoi uomini che lo sospettano di aver mandato a morire un ufficiale suo rivale in amore. Il cast comprende Barbara Payton (Cathy Eversham, attrice bella quanto sfortunata, che concluse la sua vita a soli 39 anni per malattia) la donna amata da Lance, Ward Bond (caporale Gilchrist) Gig Young (tenente Holloway) Lon Chaney (Kebussyan, gigantesco soldato di origine armena) e Neville Brand (sergente Murdock). La trama è fra le più classiche del genere: un pugno di uomini deve impedire agli Apache del capo Tucsos (Michael Ansara) di attraversare una stretta gola, protetta da un avamposto espugnato in precedenza dagli stessi Indiani. I soldati moriranno quasi tutti, ma il loro comandante, dopo essersi riguadagnato il loro rispetto, può ritornare trionfalmente al forte dove Cathy lo attende con trepidazione. Il film non ebbe alcuna nomination nonostante l’ottima interpretazione di alcuni caratteristi, ma l’incasso fu abbastanza confortante, superando i 2 milioni di dollari.
“Donne verso l’ignoto” (“Westward the Women”, dopo il titolo provvisorio di “Pioneer Women”) di William A. Wellman costò molto, oltre 2 milioni di dollari, ma ne ricavò quasi il doppio. Con questo film, il western concesse ampio risalto alle donne e si ricordò, al tempo stesso, dei pionieri che avevano colonizzato l’estremo occidente, solcando le praterie e le montagne con i loro carri Conestoga e Prairie Schoner sovraccarichi. Se suona appropriato il titolo inglese “Westward the Women”, lo è altrettanto quello italiano, perché in effetti le protagoniste femminili della grande conquista andarono spesso incontro all’ignoto.


Westward the Women

La pista dell’Oregon, che risaliva il fiume Platte per un lunghissimo tratto, inoltrandosi poi nelle Montagne Rocciose per raggiungere l’Oregon e la California, prospettava un futuro quanto mai incerto e colmo di rischi e pericoli, dei quali gli Indiani ostili erano soltanto una componente. Wellman, basandosi su un soggetto del regista Frank Capra, riesce a creare un quadro convincente delle peripezie affrontate, descrivendo l’odissea di una carovana di 150 donne in marcia da Chicago alla costa del Pacifico, guidate dallo spigoloso e misantropico Buck Wyatt (Robert Taylor) alle prese con una serie infinita di problemi.
Le figure femminili che animano il film sono diverse, da Fifi Danon (Denise Darcel) Patience Hawley (Hope Emerson) a Laurie Smith (Julie Bishop) e molte altre, reclutate con il loro consenso per essere destinate come mogli a scapoli e vedovi della lontana California. Il lavoro di Wellman non manca dunque di realismo, dal momento che questa specie di “tratta” ebbe realmente luogo nell’Ottocento, sia effettuando il viaggio via terra, sia imbarcandosi a New York per approdare alle coste californiane dopo avere circumnavigato il Sudamerica. La maggior parte delle spedizioni andarono a buon fine e in alcuni casi vi furono donne che sposarono la loro guida maschile al termine del tragitto, come accadde a Asa Shinn Mercer con Annie Elizabeth Stephens, una delle “Mercer Girls” condotte all’Ovest nel 1866.
Le giurie non concessero attestati a questo film, sceneggiato da Charles Schnee con la fotografia di William C. Mellor, che invece avrebbe meritato maggior riguardo. Girato in bianco e nero fra polverosi deserti, colline e canyon, vanta una splendida fotografia diretta da William C. Mellor e una sapiente scelta dei costumi. Ma il western che faceva maggior presa sul pubblico era quello basato sui duelli e sulle sfide, come avrebbe dimostrato poco tempo dopo il regista austriaco Fred Zinneman con “Mezzogiorno di fuoco”.

MEZZOGIORNO DI FUOCO

Il soggetto scaturiva dal romanzo “The Tin Star” e l’autore John W. Cunningham avrebbe legato il suo nome soprattutto alla versione cinematografica dell’opera. Il film – “High Noon”, “Mezzogiorno di fuoco” – venne diretto da Fred Zinneman ed impegnò un cast di attori di notevole capacità. Non realizzò incassi da primato – ma comunque assai ragguardevoli, superando i 12 milioni di dollari – perchè non sempre è citato nelle classifiche dei film più gettonati, in testa alla quale campeggiano “Butch Cassidy”, “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”, “Piccolo Grande Uomo” e “Il Grinta” di Henry Hathaway, ma conservò per quasi quarant’anni la palma del western maggiormente premiato.


Mezzogiorno di fuoco

Agli inizi la casa di produzione United Artists era molto perplessa sulla scelta del regista.
Zinneman – Alfred Zinneman, nato a Vienna nel 1907 – aveva dimostrato grande valore dirigendo “La settima croce”, destinatario di ben 9 nomination e “Odissea tragica”, vincitore di un Oscar per il miglior soggetto, ma si trattava pur sempre di un immigrato di cultura austro-ungarica, che molti dubitavano potesse immedesimarsi nel contesto della Frontiera al pari di Ford, Walsh e Hawks. Inoltre gli Stati Uniti stavano attraversando uno dei momenti più travagliati della loro storia democratica, dopo l’insorgere del Maccartismo, che Anna Eleanor Roosevelt, vedova del presidente democratico Franklin Delano, definì senza mezzi termini “una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai conosciuto.”
Le indagini condotte dalla famigerata commissione istituita da Joseph Mc Carthy, senatore repubblicano del Wisconsin – chiamata eufemisticamente “Comitato per le attività antiamericane” – avrebbero infatti portato alla rovina molti cineasti sospettati di simpatie filo-comuniste o attività anti-nazionali, iscritti in un’apposita “lista nera”. A farne le spese, fra gli altri, vi furono il regista Abraham Polonsky e lo stesso sceneggiatore di “Mezzogiorno di fuoco”, Carl Foreman.
Zinneman era un ebreo di lingua tedesca e benchè venisse solo sfiorato direttamente dalla follia maccartista, sussisteva il sospetto che potesse rappresentare un elemento nocivo alla tradizione del cinema americano. In effetti, alcuni suoi collaboratori, compresi Foreman e lil protagonista maschile Gary Cooper, dovettero comparire davanti alla commissione e quest’ultimo sarà costretto ad espatriare, mentre registi come John Ford, convinto democratico e autodefinitosi addirittura “socialista” durante gli anni della giovinezza, sarebbero giunti a sfidare apertamente i Maccartisti, attaccando perfino mostri sacri della statura di De Mille. Risale infatti a quel periodo la sua sprezzante provocazione, nel corso di un’assemblea della Directors Guild indetta da De Mille per mettere sotto accusa il presidente Joseph L. Mankiewitz: “Mi chiamo Ford, faccio western”.
Probabilmente vi era un ulteriore motivo per cui la scelta di Zinneman non veniva unanimemente condivisa. I registi della “scuola viennese” come lui – Eric Von Stroheim, Joseph Von Sternberg, Fritz Lang – avevano lasciato un’impronta così marcata nella filmografia statunitense da costituire pietre miliari nella storia del cinema. Logico dunque che vi fosse una certa invidia che sconfinava nell’avversione, soprattutto quando uno di essi si accingeva a girare un western, l’emblema stesso della cultura popolare americana. Tuttavia, superati i dubbi e accantonate le paranoie, il produttore Stanley Kramer si decise ad affidargli la regia, con un limitatissimo budget di 730.000 dollari.


Ancora “Mezzogiorno di fuoco”

L’ambiente di “Mezzogiorno di fuoco” è la tipica cittadina del West, Hadleyville, nella quale s’intersecano quattro o cinque strade principali con negozi e saloon, adagiata nel cuore di un’arida regione del New Mexico, ma già raggiunta dalla strada ferrata.
Il canovaccio è abbastanza elementare: il fuorilegge Ben Miller (Sheb Wooley) attende, insieme ai due complici Colby (Lee Van Cleef) e Pierce (Robert J. Wilke) il ritorno del fratello Frank (Ian Mc Donald) appena rilasciato dal carcere, per vendicarsi di Will Kane (Cooper) che lo aveva arrestato alcuni anni prima. Lo sceriffo – che in realtà è un marshal, come campeggia nella scritta sopra il suo ufficio – si sta sposando in municipio con Amy Fowler (Grace Kelly) una ragazza quacchera dall’aspetto dolcissimo e all’apparenza ingenuo. Ricevuta a mezzo telegramma la notizia dell’imminente arrivo dei banditi e intuendone lo scopo, Kane rinuncia al viaggio di nozze e si dà un gran daffare per mettere insieme una posse di volontari, ma viene piantato in asso dal sindaco Jonas Henderson (Thomas Mitchell, indimenticata figura del medico ubriacone in “Ombre Rosse”) dal proprio vice Harvey Pell (Lloyd Bridges, padre di Jeff) e dalla sua ex amante Helen Ramirez (Katy Jurado) e trova soltanto un ragazzo e un ubriacone disponibili a battersi insieme a lui. Alla fine farà tutto da solo, con l’aiuto esclusivo della moglie, che lo libererà di uno dei fuorilegge fulminandolo con una revolverata. Nel duello finale, condotto secondo gli schemi classici, Kane uccide Frank Miller, liberando la moglie che il fuorilegge aveva preso in ostaggio.
La colonna sonora del film rimase memorabile, con le musiche composte da Dimitri Tiomkin, soprattutto per il tema “Do not forsake me oh my darling”, eseguito dal bravissimo cantante italo-americano Frankie Laine, che in seguito si sarebbe specializzato in canzoni del genere western.
Sulla pellicola piovvero critiche da diverse parti, spesso ispirate da motivi politici. La vigliaccheria dimostrata dai cittadini di Hadleyville verso il loro tutore della legge venne stigmatizzata da John Wayne, che definì “Mezzogiorno di fuoco” come “il film più antiamericano che io abbia mai visto”. Fece storcere il naso a molta gente anche il fatto che Cooper, 51 anni suonati, sposasse nella finzione cinematografica la giovanissima Grace Kelly, all’epoca ventiduenne, ma quando si sparse la voce – vera o falsa che fosse – di un autentico flirt nato fuori dalla scena fra i due attori (e pare anche fra la Kelly e il regista, che di anni ne aveva 45) questa parte di pubblico si rassegnò.
Il responso delle giurie nel 1953 fu comunque trionfale per Zinneman.

Il film venne riguardato da ben 7 nomination, conquistando, con i 4 Oscar assegnatigli, il record assoluto del genere nei cinquant’anni della sua storia. Gary Cooper fu riconosciuto miglior attore protagonista, Elmo Williams e Harry W. Gerstad furono premiati per il miglior montaggio, il compositore Dimitri Tiomkin per la colonna sonora e Ned Washington, insieme a Tiomkin, per la miglior canzone. Le altre 3 candidature erano state avanzate per la miglior produzione di Stanley Kramer, la regia di Zinneman e la sceneggiatura di Foreman, ma la lista dei riconoscimenti non era ancora terminata. “Mezzogiorno di fuoco” ottenne 7 designazioni anche al Golden Globe, ottenendone 4, assegnati rispettivamente a Gary Cooper quale miglior attore per un film drammatico, a Katy Jurado (miglior attrice non protagonista) a Floyd Crosby (miglior fotografia) e Dimitri Tiomkin (miglior colonna sonora). La Western Guide of America premiò pure Carl Foreman e nel 1954 il Cinema Writers Circle Award elesse “Mezzogiorno di fuoco” quale miglior film straniero: dal 1989 esso è inoltre conservato presso la Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Infine, nel 1998 l’American Film Institute l’ha inserito al 33° posto della classifica dei migliori 100 film statunitensi di tutti i tempi, posizione che un decennio dopo, per effetto dei periodici aggiornamenti, è diventata la 27^.
Nessun altro western avrebbe mai più ottenuto tanto fino all’uscita nelle sale di “Balla Coi Lupi” nel 1990.