Gli oscar del cinema western – 2

A cura di Domenico Rizzi
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36.


OMBRE ROSSE
“Stagecoach”, ricavato dal racconto “Stage to Lordsburg” di Ernest Haycox, viene tuttora considerato come il capostipite del nuovo genere, del quale contiene tutti gli ingredienti principali. Infatti sulla diligenza che effettua il servizio da Tonto, in Arizona, fino a Lordsburg, nel New Mexico, si concentra una gamma di personaggi che formeranno la base di moltissime altre pellicole.
Il protagonista Ringo Kid (John Wayne) è un ricercato per omicidio che si reca all’appuntamento con tre fuorilegge – i fratelli Plummer – per compiere una vendetta. Dallas (Claire Trevor) è una prostituta scacciata dalla sua città su iniziativa della Lega della Moralità a causa del mestiere che svolge. Hatfield (John Carradine) è un giocatore di professione che nasconde un passato aristocratico nel profondo Sud sconfitto dalla guerra, mentre il dottor Boone (Thomas Mitchell) è un medico ubriacone a cui nessuno più faceva credito.
Si aggiungono alla lista il marshal Wilcox (George Bancroft) Lucy Mallory (Louise Platt) moglie incinta di un ufficiale dell’esercito, Samuel Peacock (Donald Meek) rappresentante di liquori, Gatewood (Berton Churchill) banchiere che ha sottratto soldi al proprio ente, Buck (Andy Devine) il conducente della diligenza. La cavalleria è presente soltanto agli inizi e alla fine, mentre Geronimo e i suoi Apache costituiscono – come in altri film di Ford – la minaccia incombente che non compare mai se non saltuariamente o nelle fasi conclusive.
Prodotto in bianco e nero da Walter Wanger, che stentò a mettere insieme un budget di 531.000 dollari, venne diretto da John Ford, che ebbe il suo daffare per convincere Hollywood a finanziare il film. Infatti il produttore David O. Selznick, che pure lo ammirava, scartò il progetto definendolo “solo un western”, mentre Darryl Zanuck della 20th Century Fox rifiutò perfino di leggerne il copione. (Edward Buscombe, “Ombre rosse”, Le Mani, Recco Genova, 1999, pp. 19 e 23) Invece Wanger, che si diceva scopritore di talenti, lo condivise con entusiasmo. Il regista assunse Dudley Nichols come sceneggiatore e Bert Glennon per la fotografia, affidando la colonna sonora a Richard Hageman e al suo staff e scegliendo per le riprese esterne la maestosa Monument Valley dell’Arizona, che sarebbe diventato il suo regno per altri 8 film successivi. Tremendamente calda e polverosa, costellata da rossi torrioni di roccia che recano ciascuno un nome suggestivo, quasi completamente brulla e spoglia, questo luogo appartenente alla riserva dei Navajo era destinato a diventare uno dei più conosciuti al mondo grazie soprattutto a Ford, sebbene altri prima di lui vi avessero girato delle riprese, primo fra tutti George B. Seitz, autore di “The Vanishing American” nel 1925 e del “Kit Carson” del 1940. Per interpretare gli Apache, il regista ingaggiò parecchi Navajo come comparse, contribuendo a recare benessere agli Indiani di quell’area desolata, che lo ribattezzarono Natani Nez, Capo Alto prendendolo subito in simpatia per la sua inortodossa originalità.


Ombre Rosse

A chi gli contestava, in una delle sequenze finali, che gli Apache avrebbero potuto arrestare la corsa della diligenza abbattendone i cavalli del traino, Ford ribattè: “Nella realtà è ciò che sarebbe probabilmente accaduto, ma se lo avessimo fatto, il film sarebbe finito subito” così come ad un’altra critica rispose spazientito: “Infrango abitualmente le regole tradizionali, a volte deliberatamente.” (Peter Bodganovich, “Il cinema secondo John Ford”, Pratiche Editrice, Parma, 1990, p. 75).
La tipologia umana che affronta il difficile percorso è una summa dei principali protagonisti del West del 1880, anno in cui si sviluppa la vicenda.
Vi si trovano un vendicatore solitario, uno sceriffo, la moglie di un militare, Indiani sul piede di guerra, soldati, banditi, un giocatore d’azzardo, un mercante di liquori, un banchiere disonesto, un medico screditato e una prostituta dal cuore d’oro. L’azione rimane statica per buona parte del film, durante la quale la diligenza percorre le aride piste della Monument Valley, attraversa il fiume Kern sulla Sierra Nevada californiana, viene assalita dagli Indiani nella Death Valley del Nevada ed effettua delle soste in una stazione, per concludersi nell’abitato di Lordsburg, dove Ringo Kid affronta i tre fratelli Plummer, che gli hanno ucciso un famigliare. In questa sequenza, come in diversi film successivi, Ford dimostra di aborrire il duello classico presente nei film western di ogni epoca, esageratamente enfatizzato dalle produzioni italiane degli Anni Sessanta. Gli sfidanti si incontrano all’incrocio di due strade e sparano gli uni contro gli altri senza alcun preambolo: in ciò, sebbene a discapito della spettacolarità, viene rispettata la realtà storica del West, nel quale non vi è alcuna traccia delle sfide rappresentate da Edward Dmytryk (“Ultima notte a Warlock”) Sergio Leone (Trilogia del dollaro e “C’era una volta il West”) o Michael Winner (“La pistola sepolta”) ancorate ad una specifica ritualità. Un altro elemento importante introdotto da Ford riguarda la natura umana dei suoi protagonisti, perché sia Ringo Kid quanto Dallas e Boone sono persone messe all’indice dalla società, l’uno perché omicida, l’altra in quanto prostituta di mestiere, il medico essendo alcolizzato. Il regista scarta dunque le figure rette e virtuose e i cavalieri senza macchia e senza paura per sostituirvi i suoi personaggi in cerca di redenzione, interpretando con ciò correttamente la vera storia del West americano, popolato di eroi con un passato spesso esecrabile.
Ultimato nel dicembre 1938, il film di Ford venne distribuito nel febbraio successivo negli Stati Uniti e Canada, incassando circa 1.100.000 dollari.
Come si è anticipato, delle 7 nomination ottenute, Mitchell fu gratificato dell’Oscar, insieme a Hageman per la colonna sonora. Quanto a John Wayne, protagonista principale, avrebbe dovuto fare gavetta per molti anni ancora, prima di poter impugnare la preziosa statuetta. Pur essendosi già distinto in una serie di pellicole, fra le quali il western “Il grande sentiero” diretto da Raoul Walsh nel 1930, per “Ombre rosse” l’attore ebbe un modesto compenso di 3.700 dollari, pari a un quarto di quello toccato alla sua partner Claire Trevor.

MOMENTI DI GLORIA

Nel periodo fra il 1940 e il 1950 il cinema produsse alcuni buoni western, che consolidarono la sua fama imponendo all’attenzione generale registi e attori di successo. “Giubbe rosse” e “L’uomo del West”, entrambi distribuiti nel 1940, si riferivano a fatti o personaggi storici, con le inevitabili libertà che i cineasti si prendono ogni volta che affrontano questa materia.
Il primo (“North West Mounted Police” in originale) interpretato da Gary Cooper, Madeleine Carroll e Paulette Goddard, era un altro asso nella manica del celebre De Mille e si basava sulla tragica rivolta dei Meticci nel 1885, guidati da Louis Riel e affiancati da alcune tribù indiane, per conquistare l’indipendenza della regione del Saskatchewan contro il governo anglo-canadese. Girato con l’impiego del Technicolor, i particolari curiosi erano che, per le riprese effettuate in interni, il regista pretese ed ottenne che si impiantasse una finta foresta di 300 pini negli studi e che Paulette Goddard soffiò la parte di Louvette Corbeau a due celebrità quali Marlene Dietrich e Rita Hayworth. Cooper era invece Dusty Rivers, un Texas Ranger inviato in Canada dal governo americano per catturare un delinquente e che gli eventi spingevano a collaborare con le Giubbe Rosse, la famosa polizia a cavallo dalle uniformi scarlatte.
“L’uomo del West” (“The Westerner”) diretto da William Wyler si basa sulla leggenda sorta intorno al giudice Roy Bean (Walter Brennan) che viene infine ucciso in un teatro di sua costruzione, mentre nella realtà il personaggio si spense di morte naturale nel 1903. Suo partner è l’immaginario cowboy Cole Harden (Gary Cooper) mentre la componente femminile è rappresentata da Doris Davenport (Jane Ellen Mathews) e Lilian Bond (l’attrice inglese Lily Langtry, la donna amata platonicamente dall’eccentrico magistrato).


The Westerner

Durante la guerra, che impegnò gli Stati Uniti dal 1941 al 1945, uscirono soltanto 33 western, pochi dei quali sono menzionabili come di un certo livello. Fra questi lo pseudo-biografico “La storia del generale Custer” (1941) di Raoul Walsh, con Errol Flynn e Olivia de Havilland e “Alba fatale” (1943) di William A. Wellman, interpretato da Henry Fonda, Dana Andrews e Anthony Quinn, sul tema del linciaggio. Invece il provocatorio “Il mio corpo ti scalderà”, diretto da Howard Hawks e dal suo quasi omonimo Howard Hughes, dal copione abbastanza modesto, riuscì soltanto a suscitare scandalo per le procaci forme di Jane Russell, nonostante il nudo sia completamente assente nel film.
Nell’immediato dopoguerra Ford tornò alla ribalta con “Sfida infernale”, personalissima interpretazione della famosa faida dell’O.K. Corral di Tombstone, affidata ai ruoli di Henry Fonda, Victor Mature e Walter Brennan. Di storico il film non contiene quasi nulla, posticipando date reali – il 1882 anziché il 1881 – e alterando vistosamente tanto le biografie dei protagonisti quanto la dinamica degli eventi. Ford vi introdusse personaggi di fantasia, quali la meticcia Chihuahua (Linda Darnell) e la maestra Clementine Carter (Cathy Downs) ignorando le figure di Mattie Blaylock e Josephine Marcus, entrambe amate da Wyatt Earp nella realtà. Le libertà che il regista si prese furono parecchie, da Old Man Clanton ( Walter Brennan) fatto morire nella sfida (mentre quello reale era già defunto a quell’epoca) insieme a Doc Holliday (Mature) che invece si spegnerà di tisi nel Colorado sei anni più tardi. Nonostante l’arbitrarietà delle modifiche apportate alla vicenda, il National Board of Review of Motion Pictures lo inserirà nell’elenco dei 10 migliori film del 1946.
Lo stesso anno King Vidor girò il dramma psicologico “Duello al sole”, impegnando attori della levatura di Gregory Peck – una volta tanto nelle vesti del “cattivo” Lewis McCanles – Jennifer Jones (la meticcia Pearl Suarez) e Joseph Cotten, nel ruolo del fratello buono di Mc Canles, ai quali si aggiunsero i collaudatissimi Lionel Barrymore (il senatore Mc Canles) e Lilian Gish (la moglie Arabella) oltre a Harry Carey, figura di spicco del western dei primordi. Prodotta da David Selznick, la pellicola ottenne incassi superlativi (20 milioni e mezzo di dollari, a fronte dei 6 e mezzo impegnati) nonostante l’impiego di un numero incredibile di comparse per alcune scene di massa. Alla fine non arrivò alcun premio, ma Selznick, che avversava il western, si ritenne soddisfatto: soltanto “Via col vento”, fra le sue produzioni, aveva superato abbondantemente questo film ai botteghini, ma era stato anche vincitore di 8 Oscar.


Duello al sole

Dei 16 film prodotti nel 1947, forse il solo “Notte senza fine” di Walsh merita attenzione. La rivista “Variety” lo definì un “western convincente” caratterizzato da “una suspense eccezionale” nonché da “un cast solido e efficace”. Walsh viene additato come il regista che “introduce Freud nel western”, mediante la problematica relazione fra il protagonista Jeb Rand (Robert Mitchum) e la sorella adottiva Thorley Callum (Teresa Wright). Il film, in bianco e nero, con sceneggiatura di Niven Busch, si avvale di una buona colonna sonora composta da Max Steiner e spezza una certa ripetitività di schemi del filone tradizionale, ambientando la storia nel New Mexico di fine Ottocento, al termine della vittoriosa campagna degli Stati Uniti contro Cuba.
Nel complesso, dal 1941 al 1947 il western visse un periodo abbastanza altalenante, talvolta addirittura incolore, che le successive produzioni di John Ford e Howard Hawks avrebbero provveduto a ravvivare.

RITORNO TRIONFALE

Il 1948 segna il grande ritorno del genere classico con almeno 3 film di cartello: “Il massacro di Fort Apache”, “Il Fiume Rosso” e “Cielo giallo”.
John Ford si ispirò al racconto di James Warner Bellah “Massacre” pubblicato l’anno precedente, ne affidò la sceneggiatura a Frank S. Nugent, la fotografia a William H. Clothier e la colonna sonora a Richard Hageman, lo stesso che aveva vinto l’Oscar con “Ombre rosse”. Il cast impegnato era fra i più ricchi e variegati, comprendendo Henry Fonda (il colonnello Thursday, trasformato in Turner nella versione italiana) John Wayne (capitano Kirby York) Ward Bond (sergente maggiore Michael O’Rourke) l’ex ragazza prodigio Shirley Temple (Philadelphia, figlia del colonnello) Victor Mc Laglen (sergente Mulcahy) Pedro Armendariz (sergente Beaufort) Miguel Inclàn (capo Cochise) John Agar (tenente Michael Shannon O’Rourke) e diversi altri nomi noti del cinema. La trama prendeva spunto dal disastro del Settimo Cavalleria a Little Big Horn e il colonnello Thursday voleva essere una personificazione del generale Custer, in un contesto molto lontano e differente dalle pianure del Montana. Infatti, la vicenda si svolge nel remoto presidio di Fort Apache, dove il neo-comandante giunto dall’Est intende interrompere la monotona vita di guarnigione con un successo eclatante contro gli Apache. La sua arroganza lo rende inviso sia ai propri sottoposti che agli Indiani, che alla fine lo umilieranno annientando il suo reggimento in un canyon e risparmiando soltanto il reparto del capitano York, comportatosi lealmente verso di loro.


Il massacro di Fort Apache

Il film, girato in bianco e nero ancora nella Monument Valley, incassò probabilmente meno delle aspettative – superando comunque i 3 milioni di dollari dopo averne spesi più di 2 – e non fu gratificato da alcun premio importante, ma rappresenta una pietra miliare del western tradizionale, fornendo a Ford l’ispirazione per una trilogia.
Con “Il Fiume Rosso”, Howard Hawks confermò le proprie capacità, dando vita ad un film sulla difficile vita dei cowboy che sarebbe rimasto un simbolo per decenni. John Wayne ne era il protagonista principale, nella parte del duro allevatore Tom Dunson in conflitto con il figlio adottivo Matt Garth (Montgomery Clift) e con l’anziano Nadine Groot (Walter Brennan) sulle modalità di trasferimento di una mandria dal Texas al Kansas. Neppure questo film vinse alcun premio significativo, ma questa volta l’incasso gratificò ampiamente Hawks che ne era stato anche il produttore (oltre 9 milioni di dollari contro i 2 e mezzo spesi per realizzarlo). Soprattutto Wayne, artificialmente invecchiato per il suo ruolo, ne uscì trionfatore: “John Wayne sullo schermo impersona la potenza e la forza più di qualunque altro” dichiarò il regista “è maledettamente bravo, altrimenti non sarebbe stato sulla cresta dell’onda così a lungo” aggiungendo, nel corso della medesima intervista “Lui è un duro. Le sole persone che riuscivano a tenergli testa eravamo io e Ford.” (Joseph McBride, “Il cinema secondo Hawks”, Pratiche Edizioni, Parma, 1992, p. 144 e 146). Riconoscendo la sua grande capacità di improvvisazione, Hawks aggiunse: “Wayne non leggeva mai i copioni che gli davo. Voleva sempre che fossi io a raccontarglieli… Sapeva memorizzare due o tre pagine di battute in tre o quattro minuti.” (McBride, op. cit., p. 147)
Ma le lodi di Hawks si estesero anche ad uno dei più celebri caratteristi della storia del cinema, già vincitore di un Oscar per il film “L’uomo del West”: “…penso che Walter Brennan fosse il più grande esempio di personalità che io abbia mai usato.” (McBride, op. cit., p. 136).
Seppure in tono un po’ minore rispetto ai due film citati, anche “Cielo giallo” rappresenta un ritorno al western canonico e non manca di suspense fino alla fine. Ricavato dal romanzo inedito “Stretch Dawson” di W.R. Burnett, diretto da William A. Wellman (regista di “Buffalo Bill” nel 1944, una ricostruzione quasi completamente romanzata delle imprese del celebre William Frederick Cody) con la sceneggiatura di Lamar Trotti, ha il suo punto di forza nelle scene ambientate nel deserto, dove i protagonisti – banditi in fuga dopo avere rapinato una banca – scoprono la cittadina fantasma di Yellow Sky, abitata soltanto dalla graziosa Constance Mae (Anne Baxter) e dal nonno (James Barton) custodi di un segreto pericoloso, in quanto nelle vicinanze esiste una miniera d’oro. Dopo un assedio da parte dei fuorilegge, dai quali si dissocia il pentito James “Stretch” Dawson (Gregory Peck) innamoratosi della fanciulla, vi sarà lo scontro finale di quest’ultimo con il più duro dei criminali, Dude (Richard Widmark).
La tesi dei “redenti” di John Ford ha preso piede e il pubblico apprezza ancora le storie romantiche a lieto fine, mentre il “bel tenebroso” Gregory Peck comincia a diventare l’idolo di molte donne.

LEI PORTAVA UN NASTRO GIALLO

Il 1949 è l’anno di una nuova consacrazione, quella di John Wayne come interprete assolutamente eccezionale. L’occasione gli viene offerta ancora da John Ford e dal racconto “War Party” del solito Warner Bellah. Il regista, insieme agli sceneggiatori Frank S. Nugent e Laurence Stalling, imbastisce ne “I cavalieri del Nord-Ovest” una storia meno cruenta del precedente “Fort Apache”, nella quale i sentimenti prevalgono sull’azione. E’ la triste vicenda di un ufficiale, Nathan Brittles, che per una serie di motivi ha avuto la carriera stroncata al grado di capitano nonostante l’impegno profuso nella Guerra Civile e in diverse campagne contro gli Indiani. Un uomo di 63 anni, rimasto senza famiglia, al quale mancano soltanto 6 giorni al congedo, con la triste prospettiva di trascorrere una vecchiaia solitaria e piena di rimpianti. Infatti, dopo aver lasciato la divisa, non avrà un posto dove andare, né un’alternativa diversa dall’”ascoltare le stupide chiacchiere dei vecchi intorno al fuoco”. (Bellah, “War Party”, in “New York Evening Sun”, 1948).


I cavalieri del Nord-Ovest

John Wayne, che di anni ne ha 42, truccato in maniera convincente e con un paio di baffoni grigi che gli conferiscono un aspetto bonario, si immedesima alla perfezione nella parte dell’anziano militare, burbero e scostante, ma dal cuore d’oro. La sua sortita alle soglie della pensione – con un’audace sortita che mette in fuga tutti i cavalli dei Pellirosse – scongiurerà un massacro da ambo le parti. Perfino a Washington si ricordano finalmente di lui, richiamandolo in servizio mentre percorre il sentiero del tramonto, conferendogli la promozione a tenente colonnello e il comando degli esploratori.
Il titolo originale del film è molto più romantico e intriso di nostalgia: “She Wore A Yellow Ribbon” (“Lei portava un nastro giallo”, un motivo militare di George A. Norton, 1917) e la giovane protagonista Joanne Dru, nei panni di Olivia Dandridge, con il suo amore platonico verso Brittles gli riporta alla memoria gli anni migliori della sua esistenza e probabilmente il ricordo di una moglie scomparsa anzitempo insieme ai figli a causa di un’epidemia. Questa volta Ford realizza un autentico capolavoro che la critica non riesce a comprendere fino in fondo, perché non si tratta semplicemente di una storia del West: “I cavalieri del Nord-Ovest”, con le sue cavalcate fra le torri di roccia della Monument Valley, la vita dei militari nel presidio di Fort Stark, le marce dei soldati al canto di “The Girl I Left Behind Me” (La ragazza che ho lasciato alle mie spalle) le rissose sbornie del sergente Quincannon (VictorMc Laglen) e il commosso addio alla sua truppa da parte del capitano, riassume l’intera essenza del West. Winton Hoch, con la sua stupenda fotografia, riesce a portare a casa un Oscar ispirandosi, come rivela lo stesso Ford, ai magnifici dipinti di Frederick Remington, ma rimane il rammarico per altri riconoscimenti mancati, primo fra tutti quello che sarebbe dovuto spettare a Wayne. Nessuno sarebbe mai più riuscito, nei sessant’anni successivi, a ripresentare sullo schermo una figura tanto umana e commovente.
Il western riprende quota soprattutto per merito di pellicole come questa, nella quale si incontrano diversi attori che hanno caratterizzato il genere, da McLaglen a John Agar, da Ben Johnson a Harry Carey jr. In uno dei ruoli minori, quello del barista del forte, vi figura anche Francis Ford, fratello maggiore del regista, che morirà quattro anni dopo. I personaggi femminili, che apparentemente Ford relega in secondo piano, assumono invece un risalto tutt’altro che trascurabile, da Mildred Natwick (la signora Allshard, moglie del comandante del presidio) alla ventisettenne Joanne Dru, che interpreta la parte della nipote del maggiore Allshard. E’ soprattutto alla sua solare presenza – già in evidenza ne “Il Fiume Rosso” l’anno precedente – che si deve il titolo del film, essendo lei ad indossare il nastro giallo, simbolo della cavalleria. La sua parte smentisce l’affermazione di alcuni critici, secondo i quali Ford non avesse “saputo fare ritratti di donne nei western”. (Bodganovich, op. cit., p. 3).
Sebbene il genere fosse ancora dominato da personaggi maschili, alcuni ruoli femminili si possono giudicare, a distanza di tempo, sicuramente determinanti.

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