Il massacro di Camp Grant

A cura di Pietro Costantini

Un dipinto che mostra il massacro di Camp Grant
Il primo popolo moderno ad abitare l’attuale Arizona meridionale fu quello degli O’odham. Essi sono divisi in due branche principali: gli Akimel O’odham, o popolo del fiume, e i Tohono O’odham, il popolo del deserto. Non erano genti nomadi. Erano coloni che si stanziavano lungo il corso dei fiumi, praticavano l’agricoltura e vivevano in piccoli villaggi. Gli Akimel O’odham risiedevano lungo il Gila e deviavano l’acqua del fiume mediante canali d’irrigazione come i loro antenati, gli Hohokam. I Tohono O’odham ed i loro immediati progenitori, i Sobaipuri, avevano colonizzato le zone lungo i fiumi San Pedro e Santa Cruz, che scorrevano verso nord, dal Messico all’Arizona.
I villaggi sul Santa Cruz comprendevano Tubac, Bac e Chuk Son. I popoli Atapascan, noti come Navajo e Apache, erano dei nuovi arrivati, migrati in Arizona in qualche momento del XV secolo, proprio un centinaio di anni prima dell’arrivo degli Spagnoli.
Avventurieri spagnoli comparvero sulla costa orientale del Messico nel 1519. Dopo la conquista della capitale azteca, Tenochtitlán, nel 1520 allargarono i territori conquistati, premendo verso nord e verso sud.
Il capo Eskiminzin
Esploratori spagnoli giunsero in Arizona attorno al 1540.
Ben presto le loro rivendicazioni si rivolsero su gran parte del continente nord americano, che chiamarono Nuova Spagna. Ovviamente non era sufficiente battezzarlo e rivendicarlo. Il legittimo possesso di un territorio presuppone che esso debba essere popolato e controllato, e questo non venne previsto dai legislatori spagnoli. Dopo che divenne chiaro che i Russi erano interessati all’alta California e stavano calando dall’Alaska, gli Spagnoli instaurarono una catena di missioni e presidi lungo la costa californiana per rafforzare le loro rivendicazioni in quelle zone. Nell’attuale New Mexico si spinsero sul Rio Grande verso nord, assicurando una loro forte presenza in quei luoghi, con una capitale, Santa Fè. Ebbero una forte presenza anche nel Texas, per un certo periodo. In Arizona la storia era diversa. Il punto più a nord che raggiunsero fu il villaggio O’odham di Chuk Son, che essi chiamarono Tucson.


Zona degli stanziamenti O’odham

Se le teste coronate d’Europa riconobbero le assurde pretese territoriali della Spagna nell’emisfero occidentale, non altrettanto fecero le genti che già là vivevano. C’erano periodiche rivolte tra i popoli nativi che, con ragioni da vendere, si opponevano alla schiavitù. La rivolta più significativa fu quella dei Pueblo nel 1680. Benché gli Indiani dei pueblos del Rio Grande riuscissero a tenere lontano gli Spagnoli solo per una ventina d’anni, la rivolta dei Pueblo ebbe conseguenze importanti, che avrebbero modificato la geografia politica dell’intero continente: nella loro fuga terrorizzata, gli Spagnoli persero una mandria di cavalli.
La cultura del cavallo acquisita dagli stallieri indiani istruiti dagli Spagnoli, si propagò rapidamente nel sistema dei commerci dei Nativi. Le praterie erbose delle Grandi Pianure che sostentavano le grandi mandrie dei bisonti provvedevano di foraggio anche i nuovi arrivati, i cavalli. Quasi da un giorno all’altro, cominciarono ad emergere potenti Nazioni native di guerrieri che montavano cavalli. Nelle Pianure del nord vi era la confederazione Sioux-Cheyenne, nel sud i Kiowa e i Comanche e, a ovest di questi, gli Apache. Al tempo dell’invasione americana del Messico, nel 1846, queste tribù meridionali erano già quasi riuscite a scacciare i Messicani fuori da quello che oggi è territorio degli U.S.A. Fu nella prima decade del ‘700, meno di venticinque anni dopo la rivolta dei Pueblo, che le autorità spagnole cominciarono a ricevere lamentele dagli O’odham a causa delle razzie degli Apache contro i loro villaggi e magazzini del raccolto. Le incursioni Apache diventavano un problema. Inizialmente, gli Apache potrebbero aver visto i cavalli come un altro modo di vivere la loro vita selvaggia senza essere sottomessi a nessuno. Ma presto razziare cavalli al “nemico”, sia per rimpinguare le loro mandrie, sia per venderli, diventò un espediente per vivere per alcuni Apache, specialmente per i Chiricahua. Essi consideravano gli agricoli O’odham “mangiatori di fagioli” e talvolta li deridevano dicendo: «prendetevi cura dei vostri cavalli, torneremo a prenderli più tardi». Le due tribù erano mortalmente nemiche. Naturalmente gli Apache assalivano anche le fattorie e le miniere degli Spagnoli.


Incursione Apache contro una missione spagnola – stampa

Gli Spagnoli eressero una serie di forti (i presidios) nelle province settentrionali di Sonora e Chihuahua, in modo da proteggere la cittadinanza, che subiva frequenti uccisioni nel corso delle incursioni degli Apaches. In Arizona il primo presidio fu costruito a Tubac, sul fiume Santa Cruz. Nel 1775 ne venne costruito un altro molto più a nord, a Tucson. Nel 1786 la Corona, avendo avuto ben poca fortuna nelle guerre contro gli Indiani, istituì una nuova politica, il Gàlvez Plan. Gli Apaches che avessero rinunciato alle incursioni avrebbero ottenuto, presso i presidios, razioni settimanali di grano, carne, zucchero e tabacco. Questo piano funzionò e presto ci furono villaggi di Apaches mansos (cioè Apaches domati) in ciascuno degli avamposti settentrionali, e diminuirono di molto le incursioni. Il Messico ottenne l’indipendenza dalla Spagna nel 1821 e il nuovo governo era già fallito in partenza. I Messicani non potevano più permettersi di essere generosi con le razioni di cibo e nel 1832 la fornitura di razioni si fermò completamente. Che cosa potevano fare gli Apaches? Le incursioni ricominciarono. In risposta i Messicani adottarono una brutale politica di sterminio. I massacri erano all’ordine del giorno. I Messicani all’alba coglievano di sorpresa un campo Apache addormentato e massacravano tutti quelli che c’erano, oppure invitavano gli Apaches a commerciare, davano loro bevande a base di mezcal e li uccidevano quando cadevano addormentati. I governatori di Sonora e di Chihuahua pagavano taglie per scalpi Apache. L’assassinio a sangue freddo di uomini, donne e bambini Apache avvenne nel Messico settentrionale. Nel 1853 il governo messicano del generale Santa Anna vendette agli Stati Uniti una striscia di terra a sud del Gila River. Il “Gadsden Purchase” fissò il confine tra le due Nazioni con lo stesso tracciato valido ancora oggi. La città di Tucson, con 600 abitanti, faceva ora parte degli Stati Uniti. All’inizio non cambiarono molte cose: c’era una bandiera diversa e nel 1856 i soldati messicani furono sostituiti dall’esercito americano, ma era ancora una città messicana. Continuarono ad affluire molti Anglosassoni e nel 1870 la popolazione ammontava a oltre 3.000 persone. Si erano stabiliti nei dintorni anche alcuni Apache. Per esempio la banda dei White Mountain coltivava pacificamente la terra a nord di Fort Apache, ma i Chiricahua continuavano a fare incursioni.


Il presidio di Tubac in un dipinto di William Ahrendt

Per i Chiricahua il nuovo confine apriva nuove opportunità. Negli U.S.A. c’era un mercato per il bestiame rubato in Messico, e viceversa, ed i compratori non facevano molte domande. Essi passavano tanto tempo nella Sierra Madre messicana quanto nei monti Chiricahua e Dragoons in Arizona e spesso si spostavano tra i due Paesi su di una pista che correva attraverso la San Pedro Valley. La protezione delle vite e delle proprietà dei cittadini era adesso responsabilità dell’esercito degli Stati Uniti ed furono impiantate numerose basi in Arizona per fronteggiare gli Apaches. Camp Lowell era a circa un’ora di distanza a nord ovest di Tucson (ora è un parco entro i confini della città), mentre Camp Grant, che aveva preso il nome dal presidente in carica, era ubicato dove l’Aravaipa Creek incontra il fiume San Pedro. C’era una banda di Apaches che considerava la zona intorno a Camp Grant come madrepatria dei propri antenati. Questo era un motivo di contesa tra gli O’odham e gli Apaches Aravaipa, perché i Sobaipuris, una tribù collegata agli O’odham, una volta viveva nell’Aravaipa Canyon. Da lì erano stati scacciati negli anni successivi al 1760 dagli Apaches. I sopravvissuti si accorparono con il villaggio O’odham di Bac, a sud di Tucson, e nel 1871 c’era ancora qualcuno, lì residente, che tramandava oralmente questo racconto.
L’Aravaipa Canyon è un posto molto bello, con acqua che vi scorre tutto l’anno. Nel 1871 il capo degli Apaches Aravaipa, Ezkiminzin, era deciso a sistemarsi in una fattoria per darsi alla coltivazione. La sua gente era sempre stata più sedentaria che i Chiricahua, ed egli era stanco di essere inseguito. Nel febbraio del 1871, dopo che alcune donne della tribù si erano già recate a Camp Grant, diversi gruppi di Apaches Aravaipa, condotti dai capi Ezkiminzin e Capitan Chiquito, arrivarono al forte per parlare con il comandante, il tenente Whitman. Essi spiegarono che non volevano andare sulle White Mountains, perché non vi cresceva il mescal e che volevano semplicemente coltivare la terra in pace, affermando: «I nostri padri e i loro padri prima di loro hanno vissuto fra queste montagne e hanno raccolto il mais in questa valle».
Whitman, sebbene non fosse autorizzato a istituire una riserva di sua iniziativa, acconsentì alla proposta. Egli acconsentì anche a fornire razioni di cibo finché maturasse il raccolto degli Indiani e a permettere alle donne Apache di tagliare il fieno per i cavalli dei soldati. Esse sarebbero state pagate con buoni che potevano essere usati per comprare vestiti e beni per la casa. Le cose andarono bene per circa un mese e alla fine di aprile la banda decise di allestire una grande danza di celebrazione del nuovo accordo.
Quell’anno a Tucson gli umori della gente non erano calmi. Nonostante tutto, alcuni Apaches effettuavano ancora razzie. Gli allevatori continuavano a subire perdite di bestiame e c’era la molestia delle rapine sulle strade. Molti Anglosassoni erano ora funzionari civili ed erano sostenitori del punto di vista che la loro città dovesse essere vista come un posto sicuro per il commercio. All’epoca Tucson aveva una popolazione di 3000 persone e numerosi saloon. Vi erano persone che si erano arricchite con la guerra di secessione e contavano di trarre profitti anche dalle guerre indiane. I giornali fecero del loro meglio per suscitare sentimenti anti-Apaches. Vi era abbondanza di rabbia, sciovinismo e assoluto razzismo. Scriveva il giornale Arizona Weekly Miner: «Questo paese è nostro, non degli Apaches. Il popolo americano adesso non può fare altro che aiutarci a combattere la grande battaglia della civilizzazione; per sconfiggere i barbari e insegnare loro che la superiorità dei bianchi, anche in Arizona, è decretata da Dio». Un altro giornalista del Miner diceva: «Lo sterminio è la nostra sola speranza e più presto avverrà, meglio sarà». Un nuovo giornale era stato fondato a Tucson, l’ Arizona Citizen. Il suo editore, John Wasson, nel 1870 scrisse un articolo intitolato “Gli Indiani prenderanno il Paese?». Come notò uno studioso, i giornali dell’Arizona “rappresentavano regolarmente Tucson stessa come una città sotto assedio, che sistematicamente fraintendeva attacchi sporadici e non collegati fra loro come fossero una campagna concertata, condotta da un unico nemico tribale.”


Danza Apache

I più vecchi abitanti della comunità messicana, ricordando i tempi passati, rimproveravano i nuovi venuti anglosassoni di essere gente che faceva tanti discorsi e nessuna azione.
Un “Comitato di salute pubblica” venne nominato da William Oury, pioniere dell’Arizona. Questo personaggio era scampato alla battaglia di Alamo: non si trovava al forte al momento dell’assalto finale perché inviato da Travis in cerca di aiuti presso Sam Houston. Il comitato attribuì le scorrerie di aprile agli Apache di Camp Grant, anche se si era perfettamente a conoscenza della natura pacifica di tali Apache, che tra l’altro vivevano ad una distanza notevole dai luoghi delle scorribande. La cittadinanza di Tucson non vedeva di buon occhio la collaborazione tra gli Aravaipa e i Bianchi, perché con una tale situazione c’era il rischio di una riduzione dei controlli e di nuovi presidi militari nella zona e, di conseguenza, una riduzione dei profitti che si sarebbero potuti ricavare da future guerre, che non avevano possibilità di verificarsi vista la voglia di pace sia dei Bianchi che degli Apache di Camp Grant. Il comitato non poteva lasciarsi sfuggire un’occasione così favorevole per porre fine a questa pace.
William Oury
Alla fine ci fu un incidente che finì per portare ad un massacro a Camp Grant.
Il 20 marzo Leslie B. Wooster, un colono proveniente dal Connecticut e sua moglie furono uccisi nel loro ranch vicino a Tubac. William Oury in seguito spiegò che «l’opera di morte e distruzione venne condotta con forza sempre crescente poiché il massacro di Wooster e di sua moglie a Santa Cruz, sopra Tubac, aveva infiammato talmente la gente che venne convocato a Tucson un consiglio di indignati…ed era determinato ad allestire subito una compagnia militare.» Nella stessa assemblea gli uomini giurarono di radunare la Compagnia. Benché l’omicidio dei Wooster non potesse essere attribuito a nessuno degli Indiani accampati nell’Aravaipa Canyon, quello era l’accampamento Apache più vicino ed era l’unico che potesse essere attaccato.
Venne inviato un emissario al villaggio O’odham di Bac e da qui vennero inviati messaggi ai villaggi circostanti. Agli Indiani venne detto di non portare né cibo né armi, che sarebbero stati forniti dai Bianchi. La Compagnia prese accordi per radunarsi il 28 aprile sulla riva del Rillito River, a nord di Tucson. Si ritrovarono 146 uomini: 6 Americani, 48 Messicani e 92 guerrieri O’odham. Sam Hughes, l’aiutante generale del territorio, si incontrò con la Compagnia e distribuì fucili dell’armeria dell’Arizona. I “vigilantes” cavalcarono per due giorni verso est, attraversarono il Reddington Pass e si diressero poi a nord, verso Camp Grant, lungo il fiume San Pedro.
Un soldato di Camp Lowell si trovava in città e aveva appreso della spedizione. Riferì tutto al suo superiore e quindi venne inviato un messaggero a Camp Grant con l’ordine di fermare l’attacco. Questa mossa venne prevenuta da fiancheggiatori della Compagnia, e vennero mandati due uomini per intercettare il messaggero e ritardarne l’arrivo per un paio d’ore.
Gli attaccanti strisciarono attorno al forte e raggiunsero l’entrata del canyon e, prima dell’alba, Americani e Messicani si posizionarono sulla sommità. Gli Apaches dormivano profondamente dopo le feste della notte precedente e, alle prime luci del mattino, cominciò il massacro. Gli O’odham preferivano le loro tradizionali mazze di legno di mesquite alle armi da fuoco e sciamarono nell’accampamento, colpendo le loro vittime alla testa e incendiando i loro wickiups, mentre i loro più civilizzati alleati sparavano in continuazione nel canyon. Quando fu tutto finito, i partecipanti prestarono giuramento di segretezza sulla vicenda e tornarono a Tucson. Il messaggero dell’esercito arrivò a Camp Grant alle 7,30 del mattino. Il tenente Whitman mando subito i suoi due interpreti nel canyon per avvisare gli Indiani del pericolo, ma essi arrivarono troppo tardi. Trovarono solo “il campo…che bruciava e il suolo pieno di donne e bambini mutilati”. Pochi, della banda di Eskiminzin, riuscirono a fuggire, fra i quali lo stesso capo.


Camp Grant nel 1870 – foto di John Hillers

Il tenente Whitman cercò eventuali feriti, trovando solo una donna, e bruciò i corpi. I sopravvissuti si nascosero tra i monti per tutto il giorno e la notte seguente, prima di avventurarsi al loro villaggio, dopo che gli interpreti inviati da Whitman li avevano rassicurati che nessun soldato aveva partecipato alla “vile impresa”. Alcuni bambini, per lo più giovani ragazze, erano stati rapiti e portati presso famiglie di Tucson come serventi nelle case, oppure o venduti come schiavi in Messico. Di ritorno a Tucson, i partecipanti al massacro si vantarono della loro impresa, considerando l’attacco un “omicidio giustificabile”.
Dopo una settimana dalla strage, un uomo d’affari del posto, William Hopkins Tonge, scrisse al Commissario per gli affari Indiani, dichiarando che “…al tempo del massacro gli Indiani furono presi di sorpresa perché si consideravano perfettamente al sicuro ed erano quasi completamente disarmati; quelli che riuscirono ad allontanarsi si rifugiarono tra le montagne”. Fu la prima persona a parlare di ciò che era avvenuto come di un “massacro”.
La cronaca del Tucson Citizen’s, intitolata Ritorsione sanguinosa, uscì il 6 maggio e si diffuse per tutto il territorio. Subito, appena i rapporti dell’esercito di Whitman vennero resi pubblici e divenne chiaro che cosa era realmente accaduto, i giornali di tutto il paese cambiarono i termini del loro linguaggio e cominciarono ad usare il termine “massacro”. Gli abitanti di Tucson che avevano preso parte all’azione si difesero e molti continuarono a sostenere la giustezza di ciò che avevano fatto per il resto della loro vita. Il governo federale richiese che i responsabili fossero arrestati e processati. Ci vollero sei mesi di sollecitazioni, inclusa la minaccia di imporre la legge marziale nel territorio, prima che fosse intrapresa un’azione legale. Nell’ottobre 1871, a Tucson, il tribunale convocò 100 degli assalitori, sui quali pendevano 108 accuse di omicidio. Il processo, tenuto due mesi dopo, si incentrò solo sulle predazioni degli Apaches. Dopo cinque giorni di dibattito, la giuria impiegò solo 19 minuti per pronunciare un verdetto di non colpevolezza.


I gruppi Western Apaches abbandonarono subito le loro fattorie e i loro villaggi intorno a Tucson per paura di ulteriori attacchi. Poiché famiglie di pionieri continuavano ad affluire e a stanziarsi nella zona, gli Apaches non furono mai in grado di riappropriarsi della maggior parte delle loro terre ancestrali nella valle del fiume San Pedro. Molti gruppi Apache si unirono agli Yavapais sul Tonto Basin, e da lì cominciarono una guerriglia che andò avanti fino al 1875.
Il capo Chiquito lottò per i successivi quarant’anni per riconquistare la terra dove il suo clan era stato quasi del tutto sterminato e dove erano situate le tombe dei suoi cari. Nonostante il fatto che la Riserva Apache fosse stata posizionata circa 50 miglia a nord, Capitan Chiquito riuscì ad ottenere il permesso di vivere e coltivare la terra sull’Aravaipa Creek. Con il varo del Dawes Act, nel 1887, a Chiquito venne assegnato un lotto di 160 acri, che includeva i luoghi di sepoltura dei membri del suo clan assassinati. Questa terra era concessa dal governo in affidamento a Capitan Chiquito per 25 anni, trascorsi i quali avrebbe potuto far richiesta di ottenerne la proprietà. Questo titolo di possesso fu rinviato a causa delle accuse di aver dato rifugio al rinnegato Apache Kid nel canyon. Questi era membro della banda di Chiquito, ed era ricercato per l’omicidio dello sceriffo di Gila County. Poiché le autorità non erano in grado di trovare Apache Kid, Chiquito e la sua famiglia vennero imprigionati e mandati in Alabama, dove erano detenuti Geronimo e gli Apache Chiricahua.
Dopo tre anni in Alabama, a Chiquito e famiglia venne concesso di tornare in Arizona. Al suo ritorno, egli dovette lottare contro occupanti abusivi che si erano stanziati nella zona in sua assenza. Nei successivi 25 anni Chiquito si preoccupò di ristabilire il vecchio andamento della vita del suo popolo, piantando alberi da frutta e curando le coltivazioni. Morì nel 1919, dopo aver contratto l’influenza dalla gente di cui aveva cura. Poco dopo la sua morte, la titolarità del possesso di questa terra venne attribuita ai suoi eredi, ed attualmente appartiene ai suoi diretti discendenti.

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