Le Lettere alla figlia di Calamity Jane

A cura di Emanuele Marazzini

La copertina del libro
La recente riedizione per i tipi di Mimesis Edizioni delle lettere di Martha Cannary alla figlia Janey (pagine 60, euro 4,17), ci offre l’occasione per riesaminare brevemente i retroscena e gli aspetti di questo singolare quanto discusso carteggio a senso unico che copre un arco di venticinque anni, dal 1877 al 1902.
Se diamo retta alle parole di Calamity Jane, la sua leggendaria e segreta unione (1870) con James Butler Hickok avrebbe portato alla nascita di una bambina, Janey (1873). Su questa ipotetica figlia circolarono da subito innumerevoli storie: una riferisce che la neonata venne affidata ad una coppia inglese, gli O’ Neil, Jim e Helena (nel West in visita di piacere), i quali la allevarono in patria, dopo averla adottata. La nota in calce al quaderno, “Jim O’ Neil, per favore dà quest’album a mia figlia, […] dopo la mia morte”, sembra dare pieno credito a questa diceria.
Jim, capitano di mare, rimase per molti anni in contatto con Calamity, organizzando anche incontri per permetterle di vedere la figlia, molti dei quali avvennero durante le tourneès del Wild West Show (la Cannary rimase nello staff del circo di Buffalo Bill dal 1896 al 1902): il quaderno ne attesta tre, due negli Stati Uniti (a Omaha e Richmond) ed uno in Inghilterra.
Nel 1941 (ben quarant’anni dopo) una certa Jean “Hickok” Burkhardt Mc Cormick si proclamò come la legittima figlia di Wild Bill e Calamity; la donna, a prova della sua buona fede, esibì una Bibbia di famiglia recante il nome dei potenziali genitori, nonché la data e il luogo del loro matrimonio (Benson’s Landing, Montana, il 25 settembre 1873, curiosamente lo stesso giorno della sua nascita) ma né il libro, né il legame sono mai stati considerati autentici. Si scoprì infatti che la rivelazione era stata fatta a scopo di lucro, al fine cioè di ottenere un risarcimento per gli anni di servizio militare che Wild Bill aveva svolto durante la Guerra Civile. Il denaro venne comunque versato sul conto della truffatrice per manifesta somiglianza.
Resta infine lo strano episodio secondo cui, alcuni anni prima della sua morte (avvenuta nel 1903 a soli 51 anni), Calamity fosse giunta sulle Black Hills in compagnia di una ragazzina sconosciuta, la quale fu messa a pensione nella Catholic Academy di Sturgis.


Jean Hickok Burkhardt Mc Cormick (1873-1951)

Di certo la reticenza della famosa donna riguardo gli eventi della propria eventuale vita “coniugale” colpisce e sconcerta: nelle sue stringate quanto “ufficiali” memorie (pubblicate nel 1936 dal giornalista Paul C. Phillips) non vengono infatti menzionati né il fantomatico matrimonio con Wild Bill né la nascita di Janey; anzi, il legame con il pistolero viene ridimensionato a semplice amicizia. Infine, le seconde, controverse nozze (nel 1885) con un non meglio identificato Clinton Burk del Texas che lavorava come postiglione sulle Black Hills (ricordato nelle Lettere alla figlia, non si sa per quale motivo, anche come Charley Burke) sembrerebbero quasi il primo, risoluto passo verso una sistemazione definitiva, del tutto in antitesi con la vita da vagabonda e prostituta che aveva condotto fino a quel momento.
Difficile interpretare un atteggiamento di questo genere: sebbene “Calamity interessasse […] i gazzettieri solo per le sue stravaganze e la sua singolarità e non per il suo stato civile, nozione allora nebulosa ed estranea”, per quale motivo la donna avrebbe volutamente glissato sull’ unica relazione davvero significativa (nonché dal grande spessore mediatico) della sua vita, a totale discapito di ogni onestà autobiografica ed intima? Perché probabilmente non c’era proprio nulla da nascondere: la storia d’amore con l’ex sceriffo di Abilene e la nascita di una figlia non erano che una montatura; ma ormai, poiché l’equilibrio psichico si faceva sempre più fragile, poiché la vista calava giorno dopo giorno, poiché finzione e realtà tendevano inevitabilmente a sovrapporsi, tanto valeva continuare a fingere… I numerosi atti di amore postumo nei confronti di Wild Bill sono leggibili in questa luce.
Tra tutti, la foto in posa davanti alla tomba di Hickok a Deadwood può essere interpretata sia come un ultimo tocco da teatrante sia come prova del fatto che ella stessa cominciava a credere nelle storie che aveva raccontato. Afflitta da disturbi fisici e mentali, sembra si fosse stancata del ruolo che si era inventata.
Infatti, a quelli che la incontrarono nei suoi ultimi anni, Calamity apparve come una vecchia donna priva di ogni romanticismo. Non aveva nessun pregiudizio riguardo al sesso, beveva sempre molto e mentiva in tutta evidenza col massimo piacere quando rievocava i momenti salienti della propria esistenza.


Calamity in visita alla tomba di Wild Bill (1900)

E allora perché queste Lettere alla figlia? Qual è la loro effettiva natura? Un’insolita valvola di sfogo da riservare al fuoco serale di bivacco? O solo un groviglio inestricabile di verità, fantasia e segreti ideato da un’ alienata?
Partendo dal presupposto che in ogni frase di Calamity si può celare una bugia, azzardiamo un’ analisi generale dell’opera. La mittente, non presupponendo una risposta del destinatario, dà vita ad un monologo cronologicamente frammentato in cui questa figlia è un vero e proprio spettro: interlocutrice impossibile, destituita della sua carnea realtà e idealizzata in forma di foglio bianco. […] Viene negata a queste lettere la natura di corrispondenza, sottraendole alla cerimonia del recapito, per rinviare, evitare l’incontro con colei che non dovrà rispondere né giudicare, bensì accettare, in virtù della morte, l’immagine che […] la madre le aveva dedicato.
L’intento dunque non è quello di instaurare un dialogo alla pari, bensì quello di delineare ed affidare all’ ignota “erede” un proprio ritratto, per certi versi molto vicino ai toni di un testamento spirituale. L’album, nonostante questi propositi, risulta tuttavia inquinato non solo da uno stile troppo sconnesso e involuto (di cui l’alcol è il primo responsabile), ma anche da un’esasperata ossessione autocelebrativa in cui l’attitudine al plateale prende troppo spesso il sopravvento, conferendo al testo il medesimo andamento e sapore di una dime novel (gli esempi più plateali sono l’inverosimile visita al Little Bighorn pochi giorni dopo la battaglia e il primo, troppo rocambolesco incontro con Wild Bill).
Malgrado ciò, è toccante come (seppure per via epistolare e prescindendo dal fatto che Janey sia o no un parto della sua mente) Calamity si cali con zelo nei panni di madre, cercando in tutti i modi di mantenere vivo il legame con la figlia, anche e soprattutto tramite una continua rievocazione genealogica; ecco quindi che cimeli di un passato vicino e lontano (fotografie, oggetti appartenuti ai nonni o al “padre” Wild Bill) affiorano spesso dalle pagine.
È evidente inoltre quanto il potere terapeutico della scrittura giovi all’animo ormai debilitato della celebre frontierwoman; non solo la aiuta a distrarsi e a lenire le afflizioni dell’ isolamento sociale (sono rievocate con insistenza le collettive accuse di essere una prostituta), ma diviene anche il veicolo attraverso cui tramandare alla figlia alcuni scorci di una vita improntata all’ essenzialità e al rischio (assalti alle diligenze, incontri con indiani, risse), del tutto incompatibile con quella che la bambina, educata in scuole private e suonatrice di pianoforte, trascorre oltre oceano. Nondimeno, il tentativo di Calamity nel misurarsi con quella realtà estranea è tanto premuroso quanto risoluto: per Janey è realmente disposta a tutto, sia a far resuscitare una femminilità troppo presto rigettata (propone con fierezza ricette di sua invenzione), sia a leggere ed istruirsi per ingentilire la propria immagine (grazie ai libri che Jim O’ Neil generosamente le invia). Una figlia, dunque, che, secondo un bizzarro rovesciamento dei ruoli, è prima di tutto un modello, esempio intangibile di ordine, equilibrio e felicità, capace addirittura di sollecitare nella “madre” lontana un commovente meccanismo di automiglioramento.

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