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Apache vuol dire nemico

A cura di Luca Cazzetta

Un guerriero Apache
L’Apache era di aspetto attraente: testa ben fatta, collo perfetto, zigomi alti, naso proporzionato, occhi neri e vivaci, mandibole forti, labbra né sottili né tumide (carnose, sporgenti). Aveva i capelli lunghi e neri che gli scendevano lungo le spalle. La poca barba veniva tolta con delle pinzette di stagno.
Snello, agile e muscoloso, l’Apache possedeva una resistenza straordinaria. Ben conformato, aveva la schiena robusta, il petto ampio e la vita sottile. Raramente superava, in altezza, il metro e ottanta.
Il dottor John B. White, nel 1873, esaminò un centinaio di Apache dell’Arizona, uomini e donne. “Gli Indiani sono stati scelti casualmente e, mediamente, gli uomini avevano una statura di un metro e sessantotto centimetri, le donne di un metro e mezzo.
Gli uomini più alti misuravano un metro e ottanta centimetri e le donne un metro e cinquantacinque centimetri. L’uomo più basso era di un metro e cinquantacinque centimetri, la donna, invece, di un metro e trentanove centimetri”.
Gli studiosi dell’epoca scrivevano, spesso, della notevole intelligenza degli Apache. Disponevano di un istinto e di un’astuzia quasi animale. Dotati di grande perspicacia e capacità riuscivano a superare le difficoltà del clima e della natura del territorio in cui vivevano. Erano abili nel prevedere le azioni del nemico e nel coordinare le proprie, pur operando in piccoli gruppi su vasta regione.
Spiritosi, intelligenti, allegri, non si lasciavano travolgere dalle difficoltà della vita. Sempre pronti ad agire, nulla poteva coglierli di sorpresa.
E’ stato un errore credere che gli Apache fossero privi di principi morali. Le loro regole di vita erano fermamente osservate. Ovviamente il loro modo di intendere la vita era profondamente diverso da quello osservato dai Bianchi. Un Apache era degno di rispetto se primeggiava nelle battaglie e nelle scorrerie. La donna apache veniva considerata esemplare per le fatiche che sopportava e per la fedeltà. Per gli Apache gli altri popoli rappresentavano il nemico.
L’unica ambizione di un ragazzo apache era di diventare un grande guerriero, un abile predone e di catturare molti scalpi di nemici.
Un fatto d’armi, fine a se stesso, non aveva molta rilevanza. Anzi, veniva considerato una sciocchezza. Ma il sorprendere e annientare l’avversario con l’astuzia era un atto degno di lode.
L’Apache più corteggiato era quello che possedeva il maggior numero di cavalli e di bestiame razziati e che poteva offrire alla giovane apache l’oggetto più bello sottratto al nemico. Il modello da seguire era lui anche se l’ammirazione veniva riservata ai guerrieri e ai capi che, per la loro superiorità nelle battaglie e nelle trattative, sapevano come proteggere e condurre l’intera tribù nei momenti difficili. Oltre all’abilità nel compiere una scorreria, un capo doveva possedere altre doti: l’intelligenza, la capacità strategica e una volontà ferrea. Cochise, Victorio e Mangas Coloradas incarnavano queste prerogative.
La pietà era un sentimento sconosciuto agli Apache e la crudeltà era una loro caratteristica. Si deve però ammettere che gli Apache non commisero mai le atrocità che invece subirono dai loro nemici cristiani. L’Apache era coerente al suo credo di crudeltà e di avidità; l’Uomo Bianco invece ostentava con ipocrisia la misericordia e l’onestà per poi superare gli stessi Apache in azioni indegne e spietate.


Uno splendido ritratto di un Apache

L’Apache aveva un comportamento totalmente diverso con la sua gente. Manteneva immutato il suo atteggiamento nell’adempimento dei propri doveri nei confronti della famiglia, del suo clan o gruppo. Tradire i modelli comportamentali del suo popolo gli procurava dolori e sanzioni severe quanto quelle che reggono una società civile. L’Apache osservava il codice sociale più di qualsiasi Uomo Bianco. Considerava una virtù il dire sempre la verità, non derubava mai i membri della sua tribù e non mancava di pagare i propri debiti. Era generoso e divideva con i compagni ciò che possedeva. I genitori amavano teneramente i loro bambini e avevano cura anche per gli altri componenti della famiglia. Anche a costo della propria incolumità e del proprio benessere esigevano soddisfazione per i torti fatti ad amici e parenti. Il lavoro e le spese richiesti per le cerimonie del matrimonio o di sepoltura dei morti erano divisi tra le famiglie. Le donne erano fedeli e pazienti nell’espletare i compiti domestici.

La lingua e le origini
Gli etnologi concordano solo su un fatto: gli Apache appartengono alla famiglia athapasca, il più diffuso ceppo linguistico degli Indiani del Nord America. Anticamente, era sparso nella maggior parte del continente. Le diverse tribù popolavano le coste dell’Artico e del Pacifico e si estendevano, a sud, fino alla parte settentrionale del Nuovo Messico e, a est, sino al Rio Grande. Sono tali le caratteristiche della lingua athapasca che si possono distinguere, senza esitazione, da quelle degli altri Indiani d’America anche se, nel tempo, sono nate differenze linguistiche e fisiche fra i gruppi della famiglia athapasca.
Le particolarità degli idiomi della famiglia athapasca sono descritte dal Dr. Frederick W. Hodge: “La fonetica è per gli europei aspra e difficile, per una serie di suoni gutturali, di consonanti continue e di frequenti pause e aspirazioni. Per quanto riguarda il punto di vista morfologico i linguaggi athapaschi sono caratterizzati da verbi di notevole complessità, dovuta in gran parte alla caduta di prefissi e a variazioni della radice che indicano il numero e la natura del soggetto e oggetto. Tra le varie lingue compaiono diversi cambi fonetici regolari, specialmente di vocali e, mentre certe parole sono comuni, ogni idioma, indipendentemente dagli altri, ha dato origine a molti nomi composti e ha trasformato la struttura dei suoi verbi”.
Il reverendo Frank Uplegger di San Carlos (Arizona), un glottologo eminente, che ha vissuto tra gli Apache per 13 anni e ha predicato nella loro lingua, mi ha gentilmente offerto un compendio dello spirito e delle caratteristiche del linguaggio apache: ” La caratteristica principale dell’ apache, come di altri linguaggi della grande famiglia athapasca, consiste nell’essere una lingua accentata nel senso stretto del termine. Possiede i suoni vocali degli spagnoli, ma timbro, modulazione, lunghezza e intensità portano il loro numero a 60 e concorrono tutti a creare immagini mentali, grazie alla combinazione di consonanti e transizioni della voce dai toni medi ai più alti o ai più bassi, irriconoscibili da un orecchio non apache proprio come la stonatura di un quarto di tono per molti violinisti principianti.


Un Apache Lipan

“Il registro consonantico comprende più di 30 suoni, omettendo f, p, r, v e x, ma con molte coloriture consonantiche e combinazioni estranee alle lingue europee. Il linguaggio non è “gutturale”, ma sono frequenti aspirate iniziali e finali, suoni esplosivi, arresti improvvisi o consonanti occlusive. Ricco di variazioni sonore, l’idioma apache possiede anche un cospicuo vocabolario. In effetti, la dovizia di radici, permette la formazione indefinita di parole nuove come i nuovi oggetti entrano nel campo visivo di colui che parla. In tal modo i valori esprimenti azione, soggetto, oggetto, relazione indiretta dell’oggetto a ciò che precedeva, modo di esecuzione e indicazione della durata formano agevolmente una parola dove in inglese, invece, occorrono unità separate, ovvero un concetto o proposizione principale e una proposizione relativa. Questa caratteristica di esprimere un pensiero molto complesso con una sola parola, insieme alla sua peculiarità di lingua timbrica tonale e alla facilità con cui i nativi articolano i suoni con un movimento appena percettibile degli organi della parola, rendono difficoltoso per un europeo intendere e parlare l’apache e hanno impedito ad ascoltatori non apache di apprezzare pienamente la logica e la musicalità del linguaggio”.
La famiglia athapasca si suddivide in tre gruppi: quello settentrionale, quello del Pacifico e quello meridionale. Siamo interessati a quest’ultimo. Le tribù che formarono il terzo gruppo erano disperse su una vasta area del Sudovest, comprese parti del Colorado meridionale e dello Utah, dell’Arizona e del Nuovo Messico, le regioni occidentali del Kansas e del Texas e il Messico fino al 25° grado di latitudine. Tra costoro c’erano i Navaho e gli Apache. Che queste due popolazioni siano strettamente imparentate è chiaro sia dagli idiomi che dalle caratteristiche fisiche. L’adattabilità, una qualità spiccata della famiglia athapasca in generale, è dimostrata dal fatto che i Navaho e gli Apache adottarono e assimilarono vari riti e cerimonie degli Indiani Pueblo con i quali ebbero contatti prolungati e talvolta stretti. Il vocabolario e le caratteristiche di base dei linguaggi navaho e apache sono quasi identici.
Il termine comprensivo per gli Athapasca che abitarono il Canada è Tinnè. Sia gli Apache che i Navaho appartengono a questo ramo. Originariamente, gli Apache e i Navaho costituivano un unico popolo. Non si sa quando e perchè queste due tribù si separarono. I Navaho hanno sempre superato per numero gli Apache. Può essere che i Navaho li abbiano allontanati per l’inclinazione degli Apache a seminare discordia e per la
loro eccessiva turbolenza. D’altro canto, può essere che gli Apache si siano staccati per il desiderio di condurre una vita più avventurosa ed errante. In epoca storica i Navaho si sono dedicati all’agricoltura – specialmente alle attività pastorizie – più degli Apache.
Questi ultimi non sono rimasti fedeli alla cultura athapasca settentrionale quanto i Navaho nè gli Indiani Pueblo hanno lasciato su di loro un’impronta così decisa. Quando gli Apache fecero la loro prima apparizione sulla scena storica, nel 1540, quasi certamente si erano già separati del tutto dai Navaho e non costituivano un popolo numeroso e neppure di grande importanza.
Ricerche pazienti indicano che gli Apache non hanno una conoscenza precisa della loro origine razziale o del loro habitat primitivo. E raro, infatti, trovare un Apache che sia in grado di fornire una qualsiasi notizia riguardante un antenato più lontano del nonno. Il mito della creazione è l’unico racconto ampiamente noto sull’origine del loro popolo, anche se parecchie tribù degli Apache dell’Ovest conservano racconti dettagliati sulle emigrazioni della loro gente dal Nord e Nordest, cioè dalle regioni ora occupate dai Navaho e dagli Hopi. Sebbene sussistano molte incertezze sui periodo in cui avvenne il trasferimento e sulla regione di provenienza, non c’è dubbio che in un passato non remoto ci fu una migrazione dal Nordest alla regione che ora abitano a sud del fiume Little Colorado e a nord della Southern Pacific Railroad.
La tradizione attribuisce agli Apache una grande crudeltà, anche prima dell’epoca storica. L’Apache era l'”uomo malvagio” per antonomasia del Sudovest. L’Indiano Pueblo fu la sua vittima prima dell’arrivo dei Bianchi. Solo dopo che i Pueblo furono sottomessi agli spagnoli – e, di conseguenza, sotto la loro difesa – la guerra contro gli invasori bianchi divenne un fatto all’ordine del giorno. Sin dall’inizio, gli Apache sono stati la tribù più audace, bellicosa e nomade della Storia. “Vagavano dovunque e non si fermavano in nessun luogo”. Saccheggiando e uccidendo, erano continuamente in movimento, i nemici più sconcertanti e temibili. Erano talmente abili nelle imboscate e così furtivi negli attacchi che pochi di loro erano in grado di terrorizzare una comunità o tenere bloccato un esercito. Bandelier scrive: “Erano per gli Indiani che coltivavano la terra come la tigre mangiatrice di uomini per le comunità dell’India. Nessuno sapeva dove avrebbero colpito. Un solo
Apache poteva tenere in allarme un pueblo con parecchie centinaia di persone e ostacolarne il lavoro quotidiano. Non doveva preoccuparsi di null’altro che di omicidi, rapine e razzie, che costituivano i suoi mezzi di sussistenza, mentre gli altri avevano i loro campi da arare e, nell’adempimento di tale mansione, erano costantemente in pericolo: l’Apache si mostrava quando e dove era meno atteso”.
Geronimo
Gli Apache non promettevano mai obbedienza assoluta e permanente a nessun capo supremo e non riconoscevano i capi ereditari. Il comando, per quanto e fino a quando durava, era conquistato, in tempi di grave emergenza sul campo. Gli Apache, più di qualsiasi altro gruppo, mutarono la mappa etnologica del Sudovest. Costituirono una costante minaccia per i Pueblo tanto da bloccare la loro avanzata verso est. In un periodo successivo la loro pressione costrinse gli Indiani Sobaipuri della valle San Pedro (Arizona) a ritirarsi verso ovest, al Santa Cruz, dove si riunirono con i Pima, i Papago e alla fine, fondendosi, persero la propria identità tribale. Altre tribù ostili, costrette ad allearsi con loro alla fine vennero assorbite, se non addirittura annientate come nel caso dei Mabo.
Alcuni statunitensi ricordano ancora come ai tempi della Guerra Civile e poco dopo gli Apache avessero reso inabitabili vaste zone del territorio, tra le più fertili dell’Arizona.
Sin dai primordi della Storia del Sudovest c’è sempre stata confusione e incertezza a proposito della distribuzione geografica degli Apache, della consistenza e dei nomi che designavano le tribù. Il primo a citarli fu Castaneda, cronista della spedizione di Coronado. Gli spagnoli li incontrarono per la prima volta nell’Arizona orientale, nelle vicinanze del fiume Gila. Un gruppo ben diverso di Apache venne in contatto con Coronado e il suo esercito, agli inizi del 1541, nel nordest del Nuovo Messico. Castaneda chiama questi Indiani “Querecho”. Dopo una generazione, Onate incontra una loro tribù e li chiama “Apiche” o “Apache”; e Benavides, nel suo Diario li cita come Apache Gila, Apache Navaho e Apache Vaqueros. La confusione continua fino ai nostri tempi. Gli spagnoli attribuirono la denominazione generica di Apache ai Tonto, ai Chiricahua, ai Gileiìo, ai Membrefio, ai Taracon, ai Mescalero, ai Llanero, ai Lipan e ai Navaho. Queste denominazioni derivano dallo spagnolo e indicano animali, un prodotto del suolo, un luogo o una caratteristica di un gruppo.

Vestiario
L’Apache primitivo indossava solamente il breechclout, una specie di brache corte, mocassini e, nelle scorrerie o in battaglia, un copricapo ornato con piume.
Con arco e frecce
Originariamente il breechclout era confezionato con pelle di daino conciata; successivamente fu sostituita da una striscia di mussola, lunga circa centottanta centimetri, che veniva passata tra le gambe e attorno ai fianchi e sistemata in modo da permettere che le estremità ricadessero, coprendo le cosce sino al ginocchio.
I mocassini erano di pelle di daino, particolarmente adatti a proteggere i piedi e le gambe dai serpenti velenosi e dalle spine delle piante. Raggiungevano il polpaccio e avevano suole resistenti che si curvavano verso l’alto sull’alluce, terminando in una sorta di bottone con le dimensioni di un mezzo dollaro. La parte superiore veniva rimboccata e i risvolti diventavano piccole tasche dove si mettevano gli oggetti piccoli.
Dopo l’arrivo degli statunitensi i guerrieri apache usavano, quasi sempre, una striscia di flanella o di cotone legata stretta sulla testa per tenere in ordine i capelli. Le donne indossavano gonne di pelle di daino, con frange, che coprivano il ginocchio. I mocassini delle donne erano diversi da quelli dei guerrieri: non così alti e neppure tanto resistenti. Arrivavano poco
sopra le caviglie.

Abitazioni
L’abitazione degli Apache era una piccola capanna circolare oppure ovale, chiamata wickiup. Veniva costruita dalle donne con rami intrecciati e frasche. Pali lunghi e sottili erano conficcati nel terreno a una distanza di sessanta centimetri l’uno dall’altro e incurvati verso il centro finché non si toccavano. Erano legati in alto.
Veniva lasciato un piccolo buco per consentire la fuoriuscita del fumo. All’interno il terreno veniva scavato per quaranta, sessanta centimetri e costituiva la camera da letto. La terra ammassata intorno alla base del wickiup serviva a dare solidità alla capanna e a offrire protezione durante le tormente. Quando faceva freddo accendevano un piccolo fuoco nel centro e intorno si sedeva la famiglia. Se un Apache si trasferiva da un luogo a un altro, e sempre quando moriva un membro della famiglia, il wickiup veniva bruciato. Le dimensioni di queste capanne erano: tre metri, tre metri e sessanta per due e quaranta, o, al massimo, due metri e settanta.


Un classico wickiup

L’ingresso era basso e talvolta dotato di un piccolo frangivento con pali e cespugli. Gli Apache non costruivano i loro wickiup distanti l’uno dall’altro ma, di solito, vicini a gruppi di quattro o cinque.

Cibo
Il cibo era estremamente vario. Gli Apache mangiavano molta carne, preferivano quella di mulo e di cavallo. Quasi tutti gli animali, però, venivano apprezzati, dal daino al bufalo ai roditori e alla lucertola. L’Apache non si cibava con la carne dell’orso, del maiale, del tacchino e del pesce. Eppure, cacciava il tacchino, il falco e l’aquila, per le loro penne e il visone, il castoro e il topo muschiato per le pelli. Talvolta il territorio diventava così arido e povero che era costretto a nutrirsi di radici, bacche, noci e semi.


Una donna prepara del cibo

Ghiande, mescal e fagioli di mesquite erano il cibo base degli Apache. La polpa del mescal corrispondeva, per loro, al nostro pane. Disponibile quasi ovunque,veniva raccolta dalle donne e arrostita nelle buche. Poteva essere immagazzinata e
trasportata. Il bacello di mesquite e la ghianda veniva ridotti in polvere e trasformati in focacce. I dolci frutti rossi dei grandi cactus pitahaya erano apprezzati. Nei momenti difficili gli Apache mangiavano i frutti di altri tipi di cactus e la yucca. Gli esploratori paragonarono il gusto di questi frutti, una volta essiccati, a quelli del fico, del dattero e della banana. I semi, dopo essere stati macinati su una pietra larga e piatta, venivano trasformati, con l’aggiunta di acqua, in una pasta con la forma di focaccia.

Svaghi e passatempi
Gli Apache, dopo il pasto principale, che di solito era quello della sera, si sedevano in cerchio, nell’accampamento per raccontare i fatti del giorno, le scorrerie e le battaglie sostenute. Si riunivano spesso per festeggiare, danzare e partecipavano ai diversi riti. Prima e dopo un combattimento, i guerrieri prendevano parte alle danze di guerra, mentre le donne stavano a guardare. C’erano danze esclusive per i giovani: maschi e femmine e i più anziani vi assistevano, commentando e conversando. Il nuoto era lo svago preferito. Ogni Apache, che fosse uomo, donna o bambino, amava il gioco e scommetteva di tutto, dal cavallo alla camicia. Diversi erano i giochi con la palla; il gioco preferito era quello del Cerchio e del Bastone dal quale venivano escluse le donne. A loro, invece, era riservato un gioco simile al moderno hockey. Gli Apache si divertivano anche con gli indovinelli e con gli incontri di lotta, gare di abilità con l’arco e le frecce e nel lancio di pietre in una buca.

Bambini e giochi
Quando i bambini erano abbastanza grandi da poter camminare con le proprie forze, i genitori li lasciavano liberi e raramente venivano sgridati o puniti. I ragazzi lottavano, correvano, si scagliavano pietre o si esercitavano con l’arco.


Bambini trasportati dalle madri

Le bambine costruivano piccole abitazioni con i legni e le pietre, modellavano bambole con stracci e pezzetti di pelle di daino o con pianticelle. Nelle casette simili a quelle reali venivano messe le bambole. Con il fango modellavano piccoli cavalli, uomini e donne.

L’addestramento giovanile
La razzia era correlata alla caccia, in quanto era un mezzo per procurarsi il cibo e gli altri oggetti necessari alla vita. La razzia era un dovere economico. Le spedizioni di guerra erano molto più numerose. Un ragazzo veniva addestrato dal nonno materno e dal padre. Da piccolo riceveva in dono un arco e frecce spuntate. Quando era più grande gli avrebbero insegnato a costruire, da solo, le armi. Un giorno importante era quello in cui gli veniva concesso di partecipare alla caccia con il padre e con gli zii.
Il gruppo si assumeva la responsabilità dell’addestramento dei giovani guerrieri quando erano pronti per scendere sul sentiero di guerra: intorno ai 15-16 anni. Normalmente venivano addestrati in primavera o in autunno. I ragazzi dovevano nuotare nell’acqua fredda e immergersi in quella ghiacciata. Dovevano correre, a lungo, con un peso sulle spalle e respirare solo con il naso; dovevano costruirsi da soli le proprie armi e dimostrare con quanta abilità sapessero servirsene. Il giovane doveva anche esercitarsi nelle attività svolte dagli adulti, comprese le corse a cavallo.
Mettevano alla prova la sua volontà e la sua resistenza, costringendolo a restare sveglio anche due giorni di seguito. Un addestramento così intenso continuava per molto tempo, fino a che il giovane non si comportava come un vero Apache. Jimmie Stevens, interprete nella riserva di San Carlos, figlio di una donna apache e di un mercante statunitense, ha raccontato all’autore che il culmine dell’addestramento era raggiunto quando il giovane si allontanava dall’accampamento, solo, e doveva sopravvivere con la sua abilità e resistenza.
In seguito, il giovane poteva partecipare alle battaglie. Era il momento in cui si celebrava l’evento con una festa nel corso della quale gli venivano consegnati uno scudo e un copricapo appositamente preparati. Nella danza di guerra doveva dimostrare tutta la sua resistenza e la sua agilità.
L’agguato
In quell’occasione gli veniva insegnato il linguaggio da usare nelle battaglie. Era un linguaggio difficile da apprendere ma, su sua richiesta, poteva partecipare a una incursione. Il suo addestramento non veniva considerato completo finché non aveva preso parte a quattro scorrerie o combattimenti. Nel corso di questa ultima fase dell’insegnamento, doveva accendere il fuoco, preparare il cibo, badare ai cavalli e stare di guardia la notte, sempre attento e all’erta, e usare esclusivamente l’idioma di guerra. Solo in seguito poteva partecipare al combattimento dove avrebbe dimostrato tutto il suo valore.

Arte e utensileria
Pare che gli Apache non fossero interessati all’arte. Non è così strano, considerata la loro vita nomade. Nel disegnare e modellare maschere rituali, abiti da cerimonia e strumenti musicali, mostravano una certa abilità pittorica e decorativa, ma il meglio lo si riscontrava nella costruzione di cesti e di brocche per l’acqua. Da principio la bellezza venne subordinata alla praticità, in seguito le donne apache raggiunsero una notevole abilità.
Venivano usate due tecniche: l’intreccio per i cesti e l’avvolgimento a spirale per le brocche. Molti prodotti sono tuttora conservati nei musei. I più belli sono le terrecotte.
E’ difficile stabilire fino a che punto fosse un’arte originale e caratteristica degli Apache e quanto invece fosse un’acquisizione culturale. Probabilmente gli Apache furono influenzati dai Pueblo, dai Pima, dagli Indiani della California e dagli Yuma.

Le armi e la capacità combattiva
Gli Apache anticamente erano armati di arco, frecce e lancia. Le frecce erano lunghe poco più di 90 centimetri: costruite con canna o giunco e legno duro; la punta era di pietra, osso o ferro.
Un guerriero a cavallo
Un Apache era capace di colpire un bersaglio distante 150 metri. La vittima difficilmente riusciva a liberarsi della freccia: il più delle volte la punta rimaneva nella ferita. Talvolta venivano impiegate frecce avvelenate. La lancia, invece, era lunga più di 4 metri e aveva in cima un puntale affilato. Un Apache, quando affrontava un nemico, teneva la lancia sopra la testa, con entrambe le mani, mentre controllava il cavallo con le ginocchia. Gli Apache combattevano raramente in campo aperto ed evitavano le formazioni numerose e ben armate, se non erano attaccati all’improvviso.
L’Apache era molto paziente e abile nel tendere imboscate. Si nascondeva così bene che si confondeva con il paesaggio e l’incauto esploratore lo vedeva troppo tardi. Le sentinelle apache, sistemate su rocce e monti, controllavano vaste zone di territorio, osservando per giorni le prossime vittime. Assalivano uomini soli o piccoli gruppi senza difesa. Avevano però un particolare rispetto per i soldati. Raggiungevano ranchs e miniere, per uccidere, razziare e bruciare per poi ritirarsi velocemente portandosi via i cavalli catturati. Quando una banda di Apache veniva inseguita e costretta allo scontro, si divideva in piccoli gruppi per riunirsi, successivamente, in un luogo prestabilito.

La comunicazione
L’Apache conosceva perfettamente il suo territorio per centinaia di chilometri. Non aveva problemi nell’accumulare o trasportare ciò che gli serviva. Poteva portare con sé il cibo necessario per qualche giorno e trovarne dell’altro anche se la regione era arida. Era capace di spostarsi a piedi, su un terreno accidentato, percorrendo anche 130 chilometri al giorno e la sua resistenza gli consentiva di tenere quel passo per giorni e giorni. Aveva un proprio linguaggio gestuale e sapeva come trasmettere messaggi: la posizione di una pietra capovolta, il modo in cui era stato spezzato un ramoscello, come erano sistemati tre bastoncini, persino il letame del cavallo forniva particolari notizie.
L’Apache utilizzava anche il fumo per comunicare. Sia Cremony che White spiegano con scrupolosità, questo mezzo di comunicazione: “I segnali sono di vario tipo e ciascuno ha un significato particolare. Uno sbuffo improvviso che si alza dai monti verticalmente e scompare quasi subito dissolvendosi nell’atmosfera rarefatta di quelle altezze, indica semplicemente la presenza, nella pianura, di un gruppo di uomini; ma se le colonne di fumo si ripetono più volte avvertono che il nemico è numeroso e ben armato. Se il fumo viene mantenuto costante, per un certo periodo, vuol significare che le bande dovranno riunirsi in un dato luogo. Di notte i segnali vengono fatti con il fuoco, schermato in modo discontinuo, secondo i messaggi da comunicare”.

La famiglia e la ritualità del matrimonio
Sia sotto il profilo sociale che economico la famiglia era base della tribù. La casa della madre costituiva il nucleo della famiglia. Era lei il capo. Se le figlie erano sposate, i mariti dovevano abitare nell’accampamento della suocera anche se non potevano guardarla o conversare con lei.
Un Apache era vincolato per sempre dalla propria famiglia.


Un Apache e sua moglie

– Robert Frost scrive in uno dei suoi poemi: La casa è il luogo in cui, quando ti rechi, devono ospitarti Per gli Apache era esattamente così. La famiglia si prendeva cura di ogni suo componente, della sua educazione, della scelta del partner, divideva le disgrazie e le gioie, sfidava la malattia dello spirito nel preparare un defunto alla sepoltura e, in caso di morte violenta e ingiusta, aveva il dovere di vendicarlo.
Quando una ragazza apache aveva raggiunto l’età della pubertà la famiglia celebrava l’evento con uno o due giorni di festa. Come segno che la giovane era ormai una donna, le dicevano di correre verso Est, dove sorge il sole. Un mese o due più tardi si organizzava una grande festa. Questa volta si trattava di una cerimonia che coinvolgeva la comunità. Durava quattro giorni e venivano invitati parenti e amici, vicini e lontani. La spesa della cerimonia era a carico dei genitori anche se, a volte, altri componenti della famiglia davano il loro contributo. Talvolta i genitori cominciavano a risparmiare e a predisporre i preparativi molti mesi prima; non era insolito che gruppi imparentati organizzassero un’unica festa per due o tre ragazze.
Quando giungeva il giorno stabilito, gli invitati che venivano da lontano, si accampavano vicino al luogo scelto per la cerimonia. Lì, su uno spazio veniva allestito un wickiup nel quale la giovane donna avrebbe trascorso quattro giorni in una faticosa veglia compiendo danze rituali. L’Uomo Medicina era colui che doveva organizzare i riti religiosi. Il capofamiglia doveva occuparsi di offrire cibo e divertimenti alla gente intervenuta. Dopo che i doni e il cibo erano stati portati nel wickiup, la giovane donna sarebbe apparsa vestita con l’Abito della Pubertà. Con le assistenti poi rientrava nel wickiup. Fuori nel frattempo si svolgevano le danze mentre all’interno del wickiup, la giovane donna, a volte, rimaneva inginocchiata per ore e, a volte, danzava. E così avveniva il secondo giorno. La seconda o terza notte, mascherati con pelli di vari animali, giungevano i danzatori che ballavano intorno al fuoco centrale. Sul principio i guerrieri e le donne anziane
mostravano preoccupazione per la comparsa di queste belve ma, non essendo capaci di allontanarle, si univano a loro nella danza a cui avrebbe partecipato anche la giovane donna. Il culmine di queste cerimonie si verificava la notte del quarto giorno quando tutti avrebbero ballato ininterrottamente.
Al sorgere del sole il rituale veniva concluso dall’uomo medicina. Il wickiup veniva distrutto e la ragazza correva, veloce, verso est.
M.E.Opler scrive: E’ una cerimonia del sole, una preghiera affinché la forza che fa prosperare tutte le piante possa garantire anche a questa giovane apache salute e vigore.
per una ragazza apache il wickiup della madre era il fulcro dell’universo. Madre e figlia erano quasi sempre insieme, sia nei lavori domestici che nella ricerca del cibo.
La ragazza, dopo essere entrata nel mondo degli adulti partecipava con la madre alle danze e ad altri incontri della tribù dove poteva parlare con i giovani guerrieri. Era lei a scegliere il suo partner per le danze. Trasgredendo alle severità del codice sociale, i giovani trovavano il modo di dichiararsi il loro amore. E’ vero che le famiglie esercitavano una forte influenza su di loro nella scelta del compagno, ma, nella maggior parte dei casi sceglievano liberamente. Dopo che un giovane guerriero aveva deciso, doveva ottenere il consenso della propria famiglia al matrimonio, poi doveva informare i genitori della ragazza delle sue intenzioni: il padre o il fratello del giovane si accollavano il compito. La consuetudine voleva che si offrissero doni alla ragazza e alla sua famiglia. Poiché i cavalli erano il simbolo della ricchezza, durante la notte, il giovane doveva legare uno, due o più cavalli al wickiup della ragazza.


Una famiglia di Apache Tontos

Il numero dei cavalli indicava lo status del pretendente e il suo ardore. Se lei si prendeva cura dei cavalli il giovane sapeva che la sua proposta era stata accettata. Ma se venivano trascurati, allora comprendeva di essere stato respinto. Alla giovane donna venivano concessi quattro giorni per riflettere. Era disdicevole occuparsi subito degli animali, ma se gli avesse ignorati per più di tre giorni, sarebbe stata considerata orgogliosa e sciocca. Se i cavalli restavano al palo, trascurati, alla fine del quarto giorno al pretendente non restava altro da fare che riprenderseli. Se, invece, era stato accettato, si sarebbe svolta la festa di matrimonio che durava tre giorni.
Durante i tre giorni la giovane coppia non poteva comunicare, ma alla terza notte i due sparivano all’improvviso, evitando la sorveglianza degli anziani e si recavano in un wickiup, preparato dallo sposo, in un luogo ben nascosto nei boschi, non distante dall’accampamento. Dopo una settimana o più, ritornavano dai genitori. E così veniva eretto il loro wickiup vicino a quello della madre della ragazza, ma con l’ingresso rivolto nella direzione opposta. Il genero non poteva guardare la suocera né parlare con lei.
Un uomo poteva anche avere più mogli. La scelta doveva però limitarsi alle sorelle o alle cugine della prima moglie. Se l’uomo rimaneva vedovo doveva rispettare il lutto per un anno, poi si poteva risposare.
Una volta coniugato, l’uomo lasciava per sempre la famiglia d’origine che non aveva più alcun diritto su di lui. Gli unici obblighi erano per la famiglia della suocera. Doveva mantenere e proteggere i familiari, acquisiti, portar loro quanto aveva cacciato e vendicarli di eventuali torti subiti. La selvaggina doveva essere consegnata alla madre della sposa che la preparava e la cucinava con altro cibo e quindi la figlia ne prendeva una parte per mangiarla con il marito e i figli.
Le separazioni non erano frequenti. Lo scioglimento del matrimonio doveva essere concordato con la famiglia della sposa. Fuggire significava diventare un fuorilegge e, di conseguenza, attirarsi le ire dei parenti acquisiti.

Il gruppo e la banda
Dopo la famiglia, veniva, per importanza, il gruppo, costituito da diversi nuclei familiari. Il gruppo era riconosciuto con il nome del luogo dove veniva posto l’accampamento. Poteva essere una regione ricca di boschi e di acqua, oppure una zona che poteva offrire insoliti vantaggi per immagazzinare le provviste, o perchè consentiva una facile difesa.
Il gruppo, abbastanza piccolo da poter essere immediatamente mobilitato, rapido negli spostamenti, costituiva una forza essenziale per il successo delle scorrerie e delle battaglie. Ogni famiglia, all’interno del gruppo, era economicamente indipendente e avvantaggiata dalla vicinanza reciproca. Quando arrivava il momento di raccogliere i pinoli e il mescal, le donne di sei famiglie trovavano conveniente lavorare insieme.


Una banda di guerrieri

L’intera comunità partecipava alla caccia. Le donne seguivano i loro uomini per il trattamento e la conservazione della carne e per l’espletamento dei lavori domestici necessari. Poi la cacciagione veniva equamente distribuita a ogni famiglia.
Nel gruppo si distinguevano uomini particolarmente abili e con una spiccata personalità. Anche se diventavano dei leaders, non potevano essere considerati dei capi. Non potevano obbligare nessuno a compiere una determinata azione, o a rispettare degli accordi, o un trattato sottoscritto da loro.
Ecco perchè fu così difficile per gli statunitensi venire a patti e rispettare le tregue con gli Apache.
Tra i leaders, nei momenti di crisi, veniva scelto il capo: il più saggio, il più ricco, il più abile.
Sarebbe stato il capo a parlare, a nome del gruppo, negli avvenimenti importanti e a portarlo sul sentiero di guerra. Anche se le sue decisioni e le sue parole avevano molto perso sui suoi guerrieri, non aveva alcuna autorità su di loro. Tra gli Apache vigeva una vera democrazia, tutti partecipavano alle scelte. Finché un capo riusciva, con coraggio, a difendere la sua gente, condurla alla vittoria, essere abile a procurarsi un bottino, manteneva il comando dei guerrieri. Quando falliva gli obbiettivi, veniva sostituito da uno più capace. Un capo audace e fortunato dava prestigio al gruppo e i giovani ambiziosi guerrieri facevano a gara per unirsi a lui. Il suo gruppo si conquistava un posto più importante nella banda apache nella quale apparteneva. Sotto il suo
comando c’era sicurezza, un ricco bottino, e l’intera nazione apache desiderava conoscere e onorare la sua saggezza e il suo coraggio. Avvenne così per capi come Mangas Coloradas, Victorio e Cochise. Quando uno di loro veniva ucciso o catturato, ilo suo gruppo non desiderava altro che vendicarne la morte.
Dopo il gruppo, nella comunità apache, c’era la banda. Talvolta, per la caccia, il saccheggio o la guerra, era necessario che un certo numero di gruppi si alleassero per un’azione comune. I confini della tribù nei quali questa banda vagava alla ricerca di cibo e di un bottino, non erano ben definiti.
Per quanto vasto fosse il territorio controllato dagli Apache e per quanti fossero i fiumi, i monti e i boschi dove si accampavano e cacciavano, no era certo facile trovare l’acqua e il cibo nelle regioni del Sudovest. Era importante che ogni tribù riconoscesse i propri confini naturali e che ogni banda cercasse il cibo in zone ben precise.
Una banda era composta da vari gruppi che vivevano in accampamenti piuttosto vicini. La banda era il complesso più grande su cui poter fare affidamento per un’azione offensiva o difensiva. Il più forte e il più esperto dei leaders veniva eletto come capo della banda. Questa autorità non era ereditaria.

Raggruppamenti tribali
Infine c’era la tribù. Quando si chiedeva a un Apache di dichiarare la propria identità, prima citava la tribù e poi la banda di appartenenza. Ma il concetto di tribù aveva poca importanza per l’Apache se confrontato con il legame che aveva con il suo gruppo e la banda. I vincoli che lo univano a queste suddivisioni sociali minori erano stretti ed efficienti. Solo rare volte la tribù nel suo insieme partecipava ad azioni di guerra.
Gli Apache parlavano lo Stesso idioma e avevano una cultura comune, ma non tutte le tribù si conoscevano tra loro. M.E. Opler e Granville Goodwin, che vissero per lunghi periodi tra gli Apache e studiarono a fondo le loro usanze e la loro organizzazione sociale, hanno dato nomi diversi alle varie tribù rispetto a quelli attribuiti nel passato. Le nuove suddivisioni sono: Apache Mescalero, Apache Jicarilla, Apache Chiricahua e Apache dell’Ovest. Prima dell’arrivo degli statunitensi, esisteva, tra tutte le tribù apache, un accordo sui limiti del territorio.
Gli Apache Mescalero accampavano diritti sul Nuovo Messico sino a Hondo, a est; Santa Fè, a nord; il Rio Grande, a ovest; la regione Nordovest del Texas, a sud. Gli Apache Jicarilla avevano un vasto territorio del Nuovo Messico nella parte settentrionale, a est, e persino alcune regioni confinanti con il Colorado. Le linee di confine per gli Apache Chiricahua erano il Rio Grande, a est; Laguna e Acoma, a nord; gli attuali confini orientali delle riserve di White Mountain e di San Carlos; a sud comprendevano una parte ragguardevole di Sonora e di Chihuahua. Gli Apache dell’Ovest occupavano tutto il territorio che ora è incorporato nelle riserve di White Mountain e di San Carlos e una vasta regione dell’Arizona, a ovest delle riserve.
Le differenze tra le tribù si evidenziavano nell’abbigliamento, nei fregi, nelle abitazioni e in alcune particolarità linguistiche. Granville Goodwin, che si è limitato allo studio degli Apache dell’Ovest, in una lettera inviata al sottoscritto, afferma che tra gli Apache ci sono clan molto simili a quelli dei Navaho. Opler sostiene, invece, che questi clan non esistono in altre tribù. Goodwin asserisce, inoltre, che “nel linguaggio e nella cultura” alcune delle quattro tribù menzionate si “differenziano l’una dall’altra quanto gli Apache sono diversi dai Navaho”. Sostiene, anzi, che i Navaho, in origine erano Apache.
Gli Apache, invece, si consideravano un solo popolo, differente dagli altri. Nessuna tribù fece guerra a un’altra. Anche se qualche volta i loro rapporti erano tutt’altro che tranquilli e componenti di una tribù mostravano una certa ostilità verso quelli di un’altra. Nel ventennio 1870-1890 ci furono sempre dei problemi ogni volta che il governo degli Stati Uniti cercava di costringere alcune tribù a vivere nella medesima riserva. La resa degli Apache fu dovuta, in gran parte, all’arruolamento di scouts di altre tribù apache.
Gli Apache Mescalero erano suddivisi in due bande: il popolo della pianura, a est, e il popolo della montagna, a ovest. Anche tra gli Apache Jicarilla c’erano due raggruppamenti: i Llanero, il popolo della pianura, a est del Rio Grande, e gli Qllero, il popolo della sabbia, a ovest del Rio Grande. Gli Apache Chiricahua erano divisi in due bande: gli Uomini Rossi del nord, che operavano nelle regioni settentrionali di Sonora e Chihuahua e quella dei Chiricahua, nel Sudovest. Gli Apache dell’Ovest erano suddivisi in quattro gruppi: i Coyotero, o White Mountain, i Tonto, i Cibecue e i San Carlos. Si tratta di definizioni moderne anche se le tribù occupavano, anticamente, gli stessi luoghi che abitano ora.

I riti religiosi e gli sciamani
L’Apache temeva i cadaveri. Seppelliva i propri morti al più presto e di giorno. Il compito di preparare i cadaveri per la sepoltura era affidato ai parenti maschi, più prossimi. Solo pochi assistevano alla sepoltura. Il corpo veniva calato in qualche lontana cavità o in qualche profonda fenditura.
Se necessario, veniva scavata una buca poco profonda dove il morto veniva sistemato con tutti i suoi effetti personali. Poi veniva ricoperto con terra, rami e pietre in modo tale che i coyote non potessero raggiungerlo. I primi soldati statunitensi ebbero modo di vedere, in Arizona, questo tipo di sepoltura.
Prima di tornare all’accampamento, i parenti si strofinavano il corpo con dell’erba che poi posavano, a forma di croce, sul tumulo. Una volta tornati al wickiup del defunto, lo bruciavano con tutto quello che aveva indossato o toccato quando era in vita. Incenerivano anche gli abiti che indossavano al momento della sepoltura.


Una danza rituale

Poi si purificavano con il fumo della salvia bruciata. La famiglia si allontanava dal luogo del decesso e costruiva un nuovo wickiup. Il nome del defunto non veniva mai più pronunciato e nemmeno si visitava o menzionava il luogo della sepoltura. Ma, dietro queste precauzioni igieniche, si nascondeva il terrore che lo spirito del defunto potesse ritornare per far loro dei male. Più stretti erano i vincoli di parentela e più facile sembrava questa eventualità. Se un componente della famiglia avesse conservato qualcosa che era appartenuto al defunto, lo spirito sarebbe tornato a rivendicare l’oggetto. Credevano di svegliare o inquietare lo spirito se il suo nome fosse stato pronunciato o se si fossero avvicinati alla sua tomba. Si sono verificati molti casi di “malattia da spirito”: si manifestava con nervosismo e paura. Spesso era causata dai grido di un gufo. L’Apache temeva molto il gufo, perchè il suo richiamo annunciava sventura.
Gli Apache erano anche convinti che lo spirito del defunto si incarnasse nel gufo e che tornasse per aiutarli o per minacciarli.
Alcuni studiosi sostengono che l’Apache sia completamente privo di un senso religioso. Gli Apache, invece, tenevano in grande considerazione il sovrannaturale. L’Apache credeva, infatti in un creatore del mondo e dell’universo che dava origine a ogni fenomeno che condizionava la vita degli uomini.
Per mezzo degli sciamani (o Uomini Medicina), colui che dà la vita interveniva per il bene o per il male dell’uomo. Chi poteva usare i suoi poteri contro un individuo o la comunità, era lo stregone: gli Apache temevano gli stregoni. Questi lanciavano, segretamente, i loro incantesimi mediante animali o fenomeni naturali: l’orso, il gufo, il serpente, il coyote, le nubi, i fulmini, ecc.
John G. Bourke afferma che lo sciamano era l’uomo più autorevole nella vita degli Apache. Dallo sciamano dipendevano la paura, il sortilegio, l’esaltazione. Ogni componente di una famiglia o di un gruppo poteva ricevere segni premonitori. Chiunque poteva diventare uno stregone. Doveva, però dimostrare alla sua gente che aveva acquisito il potere. Diventava noto e credibile chi aveva le visioni, chi dava prova di una grande spiritualità, chi digiunava, chi si isolava, sui monti, per lunghe veglie di preghiera, chi interpretava i segni premonitori, ecc.
Ogni sciamano si dedicava a ciò che gli riusciva meglio. Alcuni avevano il potere di far cadere la pioggia; altri di curare i malati; altri di recuperare gli oggetti smarriti o rubati. Alcuni consultavano gli spiriti, ma non curavano i malati, non esercitavano il potere sulle forze naturali o sul regno animale. Tutti affermavano di essere in grado di compiere magie; ma solamente se le streghe o qualche spirito non interferivano nel suo operato.
Il più solenne e sacro rito religioso era la Danza degli Spiriti; anche nello svolgimento di questa cerimonia vi potevano essere innumerevoli variazioni.
Talvolta si recavano in grotte segrete e sacre. Gli Apache erano molto riservati nei riti religiosi.
I capelli dello stregone possedevano una particolare virtù ed egli non permetteva a nessuno di toccarli. Quando indossava i suoi paramenti non si considerava più un uomo; riteneva di essere l’incarnazione del Potere. Il canto o il battere incessante di un tamburo avevano un effetto calmante sull’ammalato. Gli stregoni richiedevano subito al paziente o ai suoi amici il compenso della prestazione.
Gli oggetti sacri che lo stregone utilizzava erano: l’hoddentin, il copricapo magico, la camicia magica e la corda magica. Impiegava anche altri amuleti, ma i primi erano più importanti.
L’hoddentin era una specie di polvere ottenuta dal giunco di palude. L’hoddentin veniva conservata in un piccolo sacchetto di pelle di daino: raramente un Apache ne era sprovvisto. La considerava efficace in ogni circostanza: cosparsa sulla fronte o sui petto di un malato; disseminata sul sentiero che portava ai wickiup di un infermo o di un ferito; lanciata verso il sole nel periodo della semina e quando un gruppo di guerrieri si allontanava; cosparsa sul corpo di un morto. Veniva inghiottita durante una malattia e restituiva le forze a un guerriero esausto se un pizzico veniva posato sulla sua lingua.
Il copricapo magico e l’abbigliamento della Danza degli Spiriti possedevano poteri soprannaturali: la cura di una malattia, la conoscenza del futuro. La camicia magica era confezionata con pelle di daino e aveva fregi e simboli: il sole, la luna, le stelle, la grandine, la pioggia, il fulmine, l’arcobaleno e le nubi per quanto riguarda la natura e il serpente, il centopiedi, la tarantola per quanto concerne gli animali. Possedeva anche il potere di proteggere il guerriero dalle frecce e dai proiettili del nemico.
Uno degli oggetti più validi e misteriosi dello stregone era la corda magica, fatta di uno, due, tre o quattro capi splendidamente decorati. Agli estranei non era consentito di vederla o di parlarne, tanto era considerata sacra. Fu dopo molte difficoltà che Bourke riuscì ad averne qualcuna. Lo stregone la portava con sé solo nelle occasioni più solenni. Si credeva che possedesse una grande potenza. Le corde potevano essere fatte solo dagli stregoni più importanti e, prima che un nuovo proprietario potesse indossarne una, questa doveva essere ricoperta con una “grande quantità di hoddentin”.