Il lento declino

A cura di Domenico Rizzi

Speciale a puntate: 1) John Wayne, un gigante del cinema western 2) La lunga gavetta di John Wayne 3) John Wayne: la ripresa del western 4) John Wyane, attore ormai affermato 5) Altri film di John Wayne 6) Strada aperta per John Wayne 7) Il meglio di John Wayne 8) Strade diverse 9) Alamo, un trionfo a caro prezzo 10) Uomo d’azione 11) Eroe nell’ombra 12) Gli anni del cambiamento 13) Il lento declino 14) La solitudine dell’eroe

Dal 1969 al 1973 Wayne interpreta una serie di film non proprio esaltanti, dedicandosi comunque soprattutto al western, prima di interpretare alcuni polizieschi.
Cominciando da “The Undefeated” (“I due invincibili”) del 1969, è visibile il calo dell’attore che inconsapevolmente sta entrando in una dimensione sempre più opaca. D’altronde, è iniziata un’epoca in cui il genere, che ha subito un calo rilevantissimo, viene rilanciato dapprima dallo “spaghetti western” e poi dal cinema di stampo revisionista.
Quando il Duca riceve l’Oscar alla carriera, è già uscito un film come “Un uomo chiamato Cavallo” di Elliot Silverstein, Ralph Nelson sta per portare sugli schermi il polemico “Soldato Blu” e Arthur Penn il suo provocatorio “Piccolo Grande Uomo”. L’italiano Sergio Leone contende – dopo l’indiscusso successo della sua “trilogia del dollaro” nel 1964-66 – la maestosa Monument Valley dell’Arizona ad uno dei padri del western, quel John Ford che egli ha sempre ammirato pur con qualche contestazione.
“C’era una volta il West”, del 1968, vuole mettere la parola fine alla grande avventura eroica interpretando l’imminente scomparsa della Frontiera attraverso i suoi pistoleri quasi surreali di Armonica, Cheyenne e Frank.
Al Duca non interessa il revisionismo, così come non piace il genere all’italiana, con quei duelli di esasperante lentezza che egli non ha mai dovuto sostenere nei suoi film con Ford, Hawks o Hathaway. Galvanizzato dall’Academy Award appena ottenuto e dall’energica ripresa dopo la vittoriosa lotta contro il cancro, John pensa che il western debba rimanere fedele al proprio clichè e inorridisce – conservatore com’è sempre stato – all’idea che qualcuno possa riuscire a snaturarlo completamente. Nel corso della sua lunghissima carriera ha eliminato gli avversari con il Winchester (“Ombre rosse”, “Sentieri selvaggi”, “Un dollaro d’onore” e “L’uomo che uccise Liberty Valance”) li ha stesi a pugni in quasi tutte le sue interpretazioni, oppure si è limitato a metterli in fuga dopo avere disperso i loro cavalli, come in “I cavalieri del Nord-Ovest”. Inoltre non è affatto d’accordo con chi travisa lo spirito della Frontiera: il West è una terra conquistata con il sudore della fronte di impavidi pionieri, combattimenti contro Pellirosse (“Rio Bravo”, “I Comancheros”) e Messicani (“La battaglia di Alamo”) e i suoi protagonisti non meritano di essere dequalificati, come stanno facendo alcuni registi, con insulse parodie che spesso offendono la coscienza nazionale. Il suo patriottismo viscerale lo spinge a recitare un altro copione classico con Andrew Victor Mc Laglen – figlio di quel Victor Mc Laglen interprete insieme a lui della “trilogia militare” di Ford – sotto il quale ha già lavorato in “Mc Lintock” pochi anni prima.
La trama attinge dal romanzo di Lewis B. Patten e da un racconto di Stanley L. Hough, riprendendo la tematica della riconciliazione nazionale dopo la Guerra Civile già sfruttata da Sam Peckinpah in “Sierra Charriba” (1964). Wayne è il colonnello nordista John Henry Thomas, che al termine del conflitto rinuncia alla carriera militare per catturare cavalli bradi da vendere all’esercito americano, ma poi si fanno avanti alcuni emissari dell’imperatore del Messico Massimiliano d’Asburgo che offrono un compenso più elevato.


I cavalieri del Nord-Ovest

Suo avversario è il colonnello sudista James Langdon, che, a guerra ormai perduta, si trasferisce in Messico dopo aver bruciato la propria casa in stile neoclassico, portandosi dietro il proprio reggimento: un fatto che ha un fondamento storico, perché alcuni comandanti confederati – come il generale di cavalleria Joseph O. Shelby, che nel giugno 1865 condusse i suoi 1.000 uomini oltre il Rio Grande – preferirono offrire i loro servigi al regnante austriaco piuttosto che accettare la resa.
La vicenda si complica quando fanno la loro comparsa i guerriglieri di Benito Juarez, che contendono la mandria a Thomas e fanno prigionieri i Sudisti. Da questo momento nasce un’inaspettata alleanza fra i due colonnelli reduci della guerra di secessione, che si troveranno a combattere per una causa comune dalla medesima parte. Thomas perde la mandria e Langdon rinuncia alla prospettiva di continuare a combattere per il Sud, ma mentre oltrepassano insieme il Rio Grande, la nazione, divisa per quattro anni da feroci scontri, è tornata ad essere unita.
Un western che, secondo il critico newyorkese Leonard Maltin, aveva “ben poco da offrire”, tranne “il buon assortimento della coppia Wayne-Hudson…” Alan G. Barbour rilevò invece: “Le spettacolari panoramiche dei cavalli in marcia attraverso il meraviglioso paesaggio messicano, fotografato da William Clothier, insieme alla scena della rissa, di rigore nei film di Wayne, sono la vera attrazione del film. Notevole anche il contributo di Ben Johnson, che fa da valida spalla a Wayne e del regista Andrew Mc Laglen che ha saputo trarre un buon film da una sceneggiatura piuttosto fragile.” (Barbour, “John Wayne”, Milano Libri Edizioni, 1979, p. 114).
I due lavori successivi, che vedono il Duca protagonista nel 1970, non appaiono di eguale livello. Il primo, “Chisum”, ancora diretto da Mc Laglen, se la cava abbastanza bene, presentando una biografia romanzata di John Simpson Chisum (1824-1884) un ranchero originario del Tennessee che impiantò nel Texas nord-occidentale il ranch più alla moda del West, costruendovi intorno un bosco, giardini ben curati ed altre peculiarità che, unite ai sontuosi arredi della residenza – particolari totalmente omessi nella pellicola – ne fecero una autentica cattedrale nel desertico panorama di quella regione dello Stato. Va aggiunto che l’imprenditore giunse a possedere circa 100.000 capi di bestiame, che fu coinvolto più o meno direttamente nell’aspra contesa della Contea di Lincoln nel New Mexico – causa, nella prima metà del 1878, di 22 uccisioni – e per un certo periodo ebbe al suo servizio il famigerato Billy il Kid (1859-1881) uno dei più noti fuorilegge d’America. Anche questa volta Wayne trova la spalla ideale nell’eccezionale Ben Johnson, che nel 1971 vincerà l’Oscar come miglior attore non protagonista con “L’ultimo spettacolo” di Peter Bogdanovich.
La parte di Chisum calza a pennello a John, che ha modo di vestire nuovamente i panni del burbero allevatore di bestiame intransigente e coriaceo, ma la storia, eccessivamente romanzata – tratta da un racconto è di Andrew G. Fenady, che è anche il produttore del film – gravita tutta intorno al personaggio del Kid e Wayne forse non si accorge di recitare una parte di secondo piano. Molto bella in compenso la fotografia di William H. Clothier e interessante l’incasso, che supera i 6 milioni di dollari in USA e Canada.


Chisum

Assai meno stimolante e piuttosto banale, invece, è “Rio Lobo”, soggetto di Leigh Brackett e Burton Wohl, la cui direzione è affidata a Howard Hawks. Quest’opera è tutto fuorchè entusiasmante, capace di deludere anche il più acceso supporter di Wayne e lo stesso Hawks, che pure aveva diretto magistralmente “Un dollaro d’onore” sembra avere smarrito lo smalto dei tempi migliori, com’era già emerso in “El Dorado”. Narra del solito colonnello nordista – questa volta chiamato Cord Mc Nally – alla caccia di un traditore che durante la guerra aveva commissionato una rapina ferroviaria ad alcuni guerriglieri sudisti. Di apprezzabile vi sono soltanto alcune scene, fra cui quella di un disastro ferroviario ed anche Wayne sembra recitare la propria parte in modo eccessivamente forzato.
Forse il film che segue “Rio Lobo” è ancora peggiore.
“Big Jake” (“Il grande Jake”) prodotto da Michael Wayne e diretto nel 1971 da George Sherman su un soggetto di Julian e Rita Fink, sposta l’azione negli ultimi anni della Frontiera, nel 1909, senza riuscire a darne un ritratto convincente, nonostante la comparsa di mezzi motorizzati. Wayne nella parte di Cord Mc Candles, impegnato a liberare un nipote rapito da un gruppo di malviventi, appare a tratti esagerato e quasi caricaturale. Rendendosi conto che la concorrenza dei western europei si è fatta agguerrita, si tuffa in alcune scene di violenza che esulano dal suo clichè naturale. Il risultato è purtroppo mediocre, a dispetto della musica del prestigioso Elmer Bernstein e della presenza nel cast di Maureen O’Hara, che ha peraltro una parte marginale. L’incasso riesce tuttavia a superare i 7.500.000 dollari dopo averne spesi quasi 5.

Orizzonti sbiaditi

Nel periodo che segue, Wayne non si discosta troppo da un genere di soggetti costruiti attorno alla sua figura imponente di vecchio protagonista del West. Il risultato sono le pellicole “The Cowboys”, “The Train Robbers” e “Cahill”, realizzate nel 1972 e 1973.
A ben vedere, il primo – distribuito in Italia come “I Cowboys” e diretto da Mark Rydell, da un romanzo di William Dale Jenkins – possiede una propria originalità, se non altro perché il ranchero Will Andersen (Wayne) viene barbaramente massacrato lasciando ad una squadra di ragazzi adolescenti il compito di condurre la mandria a destinazione. Il Duca ha 65 anni e li dimostra tutti, è diventato improponibile come corteggiatore di donne e funge da istruttore per le nuove generazioni, fino ad immolarsi nel compimento della sua missione. Patetico e un po’ melanconico, ma almeno diverso dalle ultime interpretazioni, il film realizza poco più del budget investito, ricavando in America circa 7 milioni e mezzo di dollari. Il pubblico non gradisce moltola morte dell’uomo-simbolo del West, ma poi comprende che la fine dell’anziano allevatore è una conseguenza inevitabile dell’evoluzione dei tempi. Ormai il western ha assunto connotazioni diverse dal passato, gli eroi di un tempo sono messi in discussione dai revisionisti della materia e gli uomini onesti e laboriosi finiscono malamente trucidati, lasciando tuttavia, con il proprio esempio, un chiaro messaggio a coloro che rimangono. Nelle intenzioni di Wayne, i ragazzini che sono diventati adulti sotto il suo apprendistato, saranno i continuatori della sua opera, la parte sana e costruttiva del West, nonostante che Bogdanovich mostri dei giovani smarriti e senza prospettive nel suo “L’ultimo spettacolo”, uscito il medesimo anno.
“The Train Robbers” (“Quel maledetto colpo al Rio Grande Express”, 1973) si presenta come un film soprattutto d’azione, nel quale una sedicente vedova cerca di recuperare un tesoro – frutto di una rapina – nascosto dal defunto marito nella carrozza di un treno deragliato. Wayne (Lane) ingaggia alcuni uomini, fra i quali l’immancabile Ben Johnson (Jesse) e Rod Taylor (Grady) per scortare Mrs. Belinda Lowe (l’avvenente attrice svedese Ann-Margret, all’epoca trentaduenne) fino al luogo in cui giace il cospicuo bottino, ma una banda avversaria e un funzionario delle ferrovie gli mettono i bastoni fra le ruote.


Quel maledetto colpo al Rio Grande Express

Prodotto da Michael Wayne, scritto e diretto da Burt Kennedy, che non lesina scene di distruzione come in altri suoi lavori, il film è ricco d’azione, ma contiene anche una serie di battute efficaci. Ad esempio, quando Rod Taylor confida al compagno Ben Johnson: “Non reggere più l’alcool è un sintomo di vecchiaia” per ammettere poco dopo: “L’ultima volta che sono stato a Tucson da Kate (evidentemente una prostituta) ho passato la notte ad ascoltare un tizio che suonava il piano.”
Il tema della inesorabile decadenza investe in pieno anche Wayne, imbarazzato e sulla difensiva nei riguardi della Margret, nonostante che questa gli faccia un’esplicita proposta. Il vecchio westerner dribbla ogni tentazione trincerandosi dietro il pretesto dell’età. Quando la donna si ubriaca durante una sosta, egli se ne attribuisce la colpa, commentando tristemente: “Quando per piegare una donna si ricorre al whisky, è ora di chiudere bottega.” Pur non essendo indifferente alle grazie della compagna d’avventura (“Belinda, se quella maglietta che indossa si restringe ancora, sarà una provocazione”) resiste alle sue avance sfoderando una battuta delle sue: “Perfino la sella che adopero ha più anni di lei, Mrs. Lowe!”. Gli incassi del film stentano a raggiungere i 3 milioni di dollari in America, ma compensano almeno le spese sostenute e servono a mantenere attuale l’immagine dell’attore.
Il tramonto definitivo di Wayne è comunque nell’aria e il momento di recitare l’ultimo atto si sta avvicinando a grandi passi.
Prima di impersonare dei poliziotti in due film consecutivi, il Duca vestirà i panni di marshal federale – la stessa parte sostenuta ne “Il Grinta”, del quale ripete molti bruschi atteggiamenti – alla caccia di una banda di rapinatori, della quale hanno finito per far parte due dei suoi figli. “Cahill” (“Stella di latta” è un film violento, con spietate sparatorie e colpi di scena sullo sfondo di un dramma famigliare. Prodotto ancora da Michael Wayne e diretto da Andrew V. Mc Laglen da un racconto di Barney Slalter, non costituisce certamente la migliore delle interpretazioni di Wayne, sebbene riesca a superare gli incassi di “The Train Robbers”.
Nel 1974-75, come si è detto, il Duca si trasforma in un difensore della legge dell’epoca moderna, trasferendo nei nuovi personaggi di Lon Mc Hugh (in Italia come tenente Parker) e dell’ispettore Brannigan le caratteristiche delle figure interpretate nel western.
Nel 1975 l’attore, ormai sessantottenne, accetta di impersonare nuovamente Rooster Cogburn in “Torna il Grinta”, insieme a Katherine Hepburn. La sua malattia sta riaffiorando prepotentemente e Wayne fa di tutto per resistere alla sua subdola azione, reagendo con la consueta durezza dei suoi personaggi.
Quando Don Siegel gli propone la parte del pistolero John Bernard Books, afflitto dal suo stesso dramma, Wayne si appresta a compiere senza indugio la sua ultima cavalcata.

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