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L’ultimo colpo in canna

A cura di Omar Vicari

Bill Fleming e gli Apache
Questa è una storia vera, una tra le tante riferite a quegli uomini che hanno contribuito a strappare agli Apaches quella terra selvaggia che era il territorio dell’Arizona. E’ la storia, a firma del giornalista Tom Baily, di un cavalleggero, Bill Flemming, che riuscì con un’impresa disperata a portare a casa la pelle sebbene gravemente ferito e accerchiato da numerosi guerrieri Apaches. Accanto a se aveva solo due borracce, una piena di whisky, l’altra di acqua e un fucile a ripetizione Henry con tredici cartucce in canna e altrettante allineate in ordine meticoloso di fronte a lui su di una pietra. Sei gallette e un pezzo di carne di daino costituivano le sue riserve di cibo. Oltre a ciò, per rimanere in vita, non aveva altro che la sua immensa volontà di vivere. La sua situazione era disperata: aveva una gamba rotta e una freccia indiana gli aveva provocato una ferita alla spalla che rischiava di andare in cancrena. Era a dieci miglia dalla più vicina pozza d’acqua conosciuta e il suo cavallo si stava aggirando da qualche parte del deserto.
Come se non bastasse, gli Apaches erano sulle sue tracce ed entro poche ore lo avrebbero trovato.
Pensava di potercela fare, almeno per un’ora. Dopo, una volta finite le cartucce, c’era l’amara consolazione di avere un ultimo proiettile di riserva nella tasca della camicia da usare contro se stesso.


Bellissimo esemplare di fucile Henry

Tutto ciò accadeva nell’Arizona nel giugno del 1867. Bill Flemming e altri otto cavalleggeri di Fort Lowell, erano stati assaliti dagli Apaches mentre tornavano da un’esplorazione. Sei soldati erano caduti durante lo scontro, mentre gli altri tre, Bill Flemming, Frank Hode e George Appleby erano riusciti a darsi a una fuga precipitosa nel corso della quale erano tutti rimasti feriti.
Flemming era stato colpito alla spalla da una freccia, Hode al petto da una pallottola ed Appleby all’inguine. A peggiorare le cose, il cavallo di Flemming era inciampato e, cadendo, aveva provocato la frattura della gamba del padrone. Per miracolo, tutti e tre erano riusciti a rifugiarsi in un canyon. Sapevano bene però che si trattava di una fortuna temporanea, poiché gli indiani avrebbero ben presto scoperto le loro tracce.
Mentre i cavalleggeri prendevano in esame la situazione, Flemming disse che non ce l’avrebbe fatta a cavalcare con una gamba rotta e pregò i suoi compagni di lasciarlo lì. Con un po’ di fortuna loro avrebbero potuto raggiungere il Forte e dopo mandare una pattuglia a salvarlo. Prima di andarsene, Hode e Appleby trasportarono Flemming su di una collinetta rocciosa dalla quale poteva dominare con facilità la zona circostante. Ormai solo, provò a farsi coraggio con una sorsata di whisky.
Flemming presto si rese conto con terrore che la morte che gli si prospettava era la peggiore, anche se gli indiani non lo avessero scoperto. La cancrena e l’inedia avrebbero provveduto a finirlo.
A un tratto il cavalleggero avvistò gli Apaches: erano a un miglio di distanza e procedevano in fila lungo il letto asciutto del torrente. Erano perlomeno venti, un vero e proprio schieramento di guerra.
Giunti a duecento metri, gli indiani erano un facile bersaglio ma Flemming si trattenne. Aveva poche pallottole e non voleva sprecarne neanche una. Gli Apaches non lo videro; ignari del fatto che i soldati si erano separati, passarono davanti a Flemming seguendo il corso del torrente.
Egli notò che alcuni avevano carabine a un sol colpo, mentre altri erano armati con archi e frecce.
In confronto a loro, il suo Henry lo metteva in una posizione di netto vantaggio.
Dopo aver percorso circa un miglio, gli Apaches si accorsero che stavano seguendo le tracce di due soli cavalli. Sei guerrieri tornarono sui loro passi, scesero da cavallo e si misero a studiare attentamente il terreno proprio sotto il nascondiglio di Flemming. Dopo un po’ gli Apaches rimontarono a cavallo. Flemming attese che il capofila degli indiani fosse a meno di cinquanta metri da lui, quindi sparò il primo colpo. Il guerriero ruzzolò giù da cavallo e Flemming colpì il secondo e poi il terzo. Tre Apaches giacevano al suolo, mentre un quarto, evidentemente colpito da un proiettile che aveva proseguito, era caduto da cavallo e cercava di strisciare via. Flemming sparò di nuovo e vide l’indiano irrigidirsi. Uno dei superstiti si precipitò giù per il torrente nel tentativo di raggiungere il grosso della schiera e chiedere aiuto. Flemming trattenne il fiato e sparò. Colpito, il quinto Apache rotolò giù dal pony e giacque esanime tra le rocce. Sei colpi e cinque indiani uccisi.
Un bel risultato, ma l’elemento sorpresa ora non si sarebbe ripetuto. Rimaneva il sesto indiano. Flemming riuscì a scorgerlo mentre si muoveva dietro una roccia. Sparò e subito vide il guerriero cadere riverso in un ultimo spasimo di agonia.


Guerrieri Apaches al tempo delle guerre in Arizona

Nell’eccitazione della battaglia, il dolore alla gamba non si era fatto sentire, ma ora lo sfinimento e la tensione lo facevano soffrire di più. La gamba si era gonfiata per cui Flemming fu costretto a tagliare lo stivale. Versò del whisky sulla ferita della spalla e vide che la borraccia era quasi vuota. Il sole stava tramontando e in tutta quella vasta arida distesa non si percepiva altro che il cantare dei grilli. Si rese conto che non c’era nessuno che potesse venire in suo aiuto.
Fu in quel momento che udì un rumore di cavalli giù per la gola. Allungò la testa tra le rocce e vide allora altri guerrieri Apaches in marcia forse verso il villaggio dei Chiricaua.
Flemming per la prima volta pensò di avere una possibilità di fuga dato che gli indiani non si accorsero dei loro fratelli uccisi. Col crepuscolo che avanzava, Flemming riuscì di tanto in tanto a cadere in una specie di dormiveglia. In un momento di lucidità, volse lo sguardo a sinistra e gli sembrò di scorgere qualcosa muoversi tra le rocce. All’improvviso tre sagome scure avanzarono contro di lui. Flemming, seppure in condizioni precarie, riuscì a sparare il più rapidamente possibile riuscendo a uccidere anche questi tre indiani. Ora non sapeva quante cartucce gli erano rimaste. Una cosa però gli era chiara, ne aveva una di riserva per se in caso di estrema necessità.
A un tratto sentì nuovamente rumori di cavalli giù per la gola. Guardò nella semi oscurità e vide altri guerrieri Apaches che si avvicinavano alla sua postazione.
Intanto il compagno di Flemming, Frank Hode, era riuscito ad arrivare a Fort Lowell e stava pregando il capitano Ira Carpenter di portare aiuto al suo amico forse ancora vivo. Il giorno successivo alle tre del pomeriggio il capitano decise di mandare otto cavalleggeri affinché provvedessero a seppellire Flemming dato che nessuno credeva che potesse essere ancora in vita.


Resti del vecchio Fort Lowell in Arizona

Intanto Flemming passò il giorno senza che succedesse niente e la mattina successiva dopo essersi svegliato, con sua meraviglia, trovò il suo cavallo vicino a lui. Forse la Santa Provvidenza glielo aveva mandato indietro, pensò. Muovendosi solo con la forza della disperazione, Flemming riuscì a salire in sella. Davanti a lui si stendeva una delle più aride e selvagge zone del West, un deserto di novanta miglia, abitato solo da lucertole, crotali, coyotes e dagli Apaches.
Flemming, conoscendo la zona, decise di non seguire i sentieri battuti in direzione di Fort Lowell, sentieri che la pattuglia di soccorso avrebbe dovuto percorrere, ma poiché nessun cavalleggero si era visto, egli era convinto che non ne fosse stata mandata alcuna.
La gamba aveva perso ogni sensibilità e la ferita alla spalla stava andando in cancrena. Le gallette e la carne erano finite ed egli non aveva più di che cibarsi. Distava ancora circa sessanta miglia da Fort Lowell, o almeno così credeva. A un tratto, scrutando il deserto, sotto l’arida calura del pomeriggio, avvistò una schiera di una cinquantina di Apaches. Si rese conto di essere stato visto poiché gli indiani avevano voltato i cavalli e galoppavano nella sua direzione.
Proprio sulla destra, vide l’apertura di un piccolo canyon. Era l’unico posto in tutta quella terra selvaggia capace di offrire un immediato riparo. Spronò il cavallo e imboccata la stretta gola si trovò in uno spiazzo erboso circondato su tre lati da rocce inaccessibili e raggiungibile solo attraverso il passaggio che aveva seguito. Scivolò da cavallo e si mise al coperto. Man mano che gli indiani avanzavano lungo la strettoia, egli li abbatté uno dopo l’altro. L’unica via per arrivare a lui era quella di passare attraverso la strettoia, ma per il momento agli indiani non sembrò la soluzione migliore. Flemming pensò di aver trovato per il momento un ottimo nascondiglio, purtroppo però si accorse che gli erano rimaste solo due pallottole. Sperava ardentemente che gli Apaches capissero l’inutilità dei loro sforzi e se ne andassero, ma quelli non avevano simili intenzioni.
Calò il crepuscolo e poi la notte fu inondata dal chiarore della luna. Egli poteva scorgere il bagliore dei fuochi accesi dagli indiani riflettersi sulle rocce, segno evidente che essi si erano accampati con l’intenzione di prenderlo per fame. Ma non era tanto la fame a impensierirlo. La cancrena stava invadendo il suo organismo e la gamba gonfia era diventata nera. Certamente sarebbe stato necessario amputarla. La febbre lo divorava e tutto ciò che ora desiderava, era solo dormire un poco. Ma ancora non voleva cedere. Se doveva morire, era meglio farlo combattendo.
Passò un’ora e poi a un tratto dietro una sporgenza di una roccia, vide la canna di un fucile balenare al chiarore della luna. L’indiano era riuscito in qualche maniera a scalare la roccia nel tentativo di prenderlo di sorpresa. Flemming trattenne il fiato e quando l’Apache si mosse ancora, sparò.
Il guerriero cadde all’indietro e andò a sfracellarsi venti metri più sotto. A quel punto non vi era più scampo. Flemming doveva prendere una decisione: usare l’ultima cartuccia contro di se oppure serbarla per un altro Apache. Sapeva quali torture gli sarebbero toccate se fosse stato preso vivo degli indiani. Venne il giorno e nel frattempo i cavalleggeri spediti da Fort Lowell in suo soccorso, trovarono la pista indicata che Hode e Appleby avevano disegnato su di una carta. Raggiunsero il canyon dove Flemming avrebbe dovuto essere, ma dell’uomo non c’era nessuna traccia.
Trovarono invece i corpi degli indiani morti. Non trovando il loro commilitone, pensarono che gli Apaches lo avessero catturato e portato via.
A Fort Lowell intanto, un ragazzo messicano si precipitò di corsa chiedendo trafelato del comandante. Riferì di un uomo, un cavalleggero più morto che vivo che, assicurato alla sella da una corda, era arrivato alla loro casa. Non aveva potuto dire molto ai messicani, sennonché aveva una spalla in cancrena e una gamba che stava marcendo. Quando il capitano Carpenter, un dottore e diversi cavalleggeri raggiunsero la casa, sulle rive del Santa Cruz, trovarono Flemming privo di sensi. Aveva deviato da Fort Lowell di parecchie miglia, perché non era più stato in grado di guidare il suo cavallo.
La gamba di Flemming fu tagliata al di sopra del ginocchio. In quanto alla spalla, anche dopo l’intervento, non ne rimaneva granché. Tuttavia si rimise. Raccontò poi di come gli Apaches se ne fossero andati dal canyon a un certo punto della notte, probabilmente consapevoli che altri cavalleggeri fossero sulle sue tracce. Sul far del mattino Flemming aveva ripreso conoscenza, era salito in sella e si era legato avviandosi in direzione di Fort Lowell.
Quando al Forte esaminarono il suo fucile, trovarono in canna una sola cartuccia: quella che aveva tenuto in serbo per lui.