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Paul Newman: adios hombre!

A cura di Domenico Rizzi

Un uomo tranquillo
Il 27 settembre 2008, dopo una lunga sofferenza durata diciotto mesi, si è spento ad 83 anni uno degli ultimi straordinari interpreti del cinema americano.
Paul Newman, che a differenza di molti colleghi portava il suo vero nome, era nato a Cleveland, nell’Ohio, il 26 gennaio 1925, da padre ebreo e madre di origine ungherese. Sposato da mezzo secolo con Joanne Woodward – fatto abbastanza inconsueto in un ambiente dove i divorzi non facevano neppure notizia, talmente erano frequenti – aveva iniziato da fanciullo nel teatro, assecondando la passione materna per la recita.
Dopo la “high school” frequentata a Shaker Heights, dove si distinse nella pratica di alcuni sports – calcio, basket e baseball – a 17 anni si iscrisse al Kenyon College di Gambier nell’Ohio, ma poco tempo dopo, essendo in corso la seconda guerra mondiale, decise di arruolarsi in marina, per frequentare un corso da ufficiale. Le sue aspettative vennero però deluse dalla scoperta di un suo difetto fisico rilevante: l’uomo che possedeva lo sguardo più sexy del mondo, risultò affetto da daltonismo! Dopo avere prestato servizio a Guam e ad Okinawa, nel Pacifico, non gli rimase dunque che tornare al Kenyon College per specializzarsi in economia.
Intanto, però, il giovane sosteneva sempre più spesso parti interessanti sul palcoscenico. Nel 1949 interpretò “Lo zoo di vetro” nel Wisconsin, quindi recitò in una quindicina di commedie, fra le quali “Cyrano de Bergerac” a Woodstock, nell’Illinois. Secondo quanto dichiarò alla stampa, Newman si era dato alla recitazione “perché era l’unico modo di attirare l’attenzione su di sé”, ma col tempo dimostrò di essere un attore nato.
Sposatosi nel dicembre 1949 con Jackie Witte, dalla quale ebbe i tre figli Scott, Susan e Stephanie, se ne separò dopo sette anni. Nel 1951, dopo essersi occupato del negozio di articoli sportivi di suo padre, morto prematuramente, andò ad iscriversi alla scuola teatrale di Yale. Un anno più tardi, su consiglio dei professori, si trasferì a New York, la città che offriva le maggiori opportunità ad un esordiente.


Una classica immagine tratta da un film western

Paul lavorò spesso per la televisione, con l’invidiabile stipendio di 200 dollari al mese. Nel 1953-54 fu ingaggiato da William Inge a Broadway per una produzione intitolata “Picnic”, che lo impose all’attenzione dei critici e della stampa più qualificata. Il “New York Times” descrisse in termini molto positivi le sue interpretazioni e la commedia ottenne un immenso successo, arrivando addirittura, dopo oltre un anno di repliche, a conseguire il premio Pulitzer.
In quel periodo Newman incontrò una giovane attrice della Georgia, Joanne Woodward e se ne innamorò, sposandola in seconde nozze nel 1958 per non separarsene mai più. Poi si iscrisse all’Actor’s Studio ed ebbe modo di conoscere da vicino personaggi quali Elia Kazan, indimenticabile regista di “Un tram chiamato desiderio” e “Fronte del porto”. Fece la conoscenza anche di un giovane e scapestrato talento, James Dean, idolo dei “teen agers” destinato a scomparire a soli 24 anni mentre era all’apice del successo.
Nel 1954, Paul si decise a partire per Hollywood per lanciarsi nella grande avventura del cinema.
Come ogni Americano che si rispetti, lo fece senza rimpianti, lasciandosi alle spalle un matrimonio fallito e portandosi dietro un decisivo bagaglio di esperienze che lo avrebbe lanciato sul grande schermo.
Tuttavia, nella vita privata Newman si comportò sempre come una persona schiva e riservata, legato alla famiglia e alle amicizie, fra le quali spicca quella con Robert Redford, dedicandosi anche ad interventi umanitari elargiti attraverso la sua fondazione Newman’s Own.
L’intramontabile passione per le corse in automobile, che lo portò a vincere la 24 ore di Daytona a 70 anni, gli fece dire una volta che la sua musica preferita era “quella di un motore otto cilindri”.

A cavallo del mito

Paul Newman ha interpretato, nella sua lunghissima carriera, circa 60 film, vincendo due Oscar e vari premi. La critica ha spesso ravvisato in lui caratteristiche comuni ad altri attori – soprattutto James Dean e Marlon Brando – ma ciò è dovuto ai suoi atteggiamenti anticonformistici ed ai modi di fare scanzonati, a volte addirittura irritanti.
Il suo esordio cinematografico avvenne con il film “Il calice d’argento”, un’opera in costume diretta da Victor Saville.


Butch Cassidy and the Sundance Kid

Fra le altre innumerevoli interpretazioni di grande prestigio, vi sono “Lassù qualcuno mi ama” (regia Robert Wise, 1956) “La lunga estate calda” (Martin Ritt, 1958) “La gatta sul tetto che scotta” (Richard Brooks, 1958) “Furia selvaggia. Billy the Kid” (Arthur Penn, 1958) “Exodus” (Otto Preminger, 1960) “Lo spaccone” (Robert Rossen, 1961) “La dolce ala della giovinezza” (Richard Brooks, 1962) “Hud il selvaggio” (Martin Ritt, 1963) “Detective’s Story” (Jack Smight, 1966) “Hombre” (Martin Ritt, 1967) “Nick Mano Fredda” (Stuart Rosenberg, 1967) “Butch Cassidy” (George Roy Hill, 1969) “Un uomo oggi” (Stuart Rosenberg, 1970) “La stangata” (George Roy Hill, 1973) “L’inferno di cristallo” (John Guillermin, 1974) “Buffalo Bill e gli Indiani” (Robert Altman, 1976) “Il verdetto” (Sidney Lumet, 1982).
Nel 1986 ottenne il primo Oscar speciale “alla carriera”; l’anno successivo il secondo per la sua interpretazione in “Il colore dei soldi”, di Martin Scorsese.
Come regista, diresse sua moglie Joanne Woodward nel film “La prima volta di Jennifer” (1968) seguito da “Sfida senza paura”, da lui stesso interpretato insieme a Henry Fonda e Lee Remick e da “The Effect of Gamma Rays On Man In The Moon Marigolds”, ancora con la Woodward.
Fra le parti teatrali di maggior spicco, oltre a “Picnic” di Joshua Logan, tratto dalla commedia di William Inge (1953-54) recitò in “Ore disperate”, di Robert Montgomery (commedia di Joseph Hayes) accanto a Karl Malden e ne “La dolce alla della giovinezza” di Elia Kazan, tratta dal celeberrimo lavoro del grande drammaturgo Tennessee Williams, dove fu partner dell’affascinante Geraldine Page.

Sui sentieri del west

Newman non si può considerare un attore-simbolo del western alla stregua di John Wayne o James Stewart, avendo interpretato un esiguo numero di pellicole sull’argomento. Tuttavia, ha avuto sicuramente un peso notevole anche in questo filone per alcuni film universalmente conosciuti, soprattutto “Butch Cassidy”, recitato insieme a Robert Redford e Katherine Ross .
Come in “Furia selvaggia” e “Buffalo Bill e gli Indiani”, Paul rievoca il personaggio storico di Robert Le Roy Parker, meglio noto come Butch Cassidy, fuorilegge e rapinatore nel West, ucciso probabilmente dalla polizia in Bolivia ai primi del Novecento.
I pregi del film sono notevoli, dalla superba recitazione di Newman, alla stupenda colonna sonora composta da Hal David e Burt Bacharach, imperniata sul motivo “Raindrops Keep Falling On MY Head”.


Nei panni di Buffalo Bill

Pare che l’intenzione del regista, George Roy Hill, fosse di affidare la parte di Cassidy a Jack Lemmon e quella di Sundance Kid allo stesso Paul, ma quando venne tirato in ballo anche Redford, i ruoli apparvero più chiari. “Vedevo Butch come un ragazzo affettuoso, aperto e amabile” dichiarò in seguito Hill “e Newman è proprio così”.
Come tutti i tentativi di portare la Storia sullo schermo, anche questo concede parecchio alla fantasia, ma la vicenda reale della Banda del Buco nel Muro – com’era soprannominata la gang di Butch e Sundance – è zeppa di misteri che il tempo non è riuscito a chiarire e l’ironia del regista, che sembra ritagliata su misura per Newman, non ne inficia la credibilità.
Undici anni prima, nel 1958, Paul si era calato nei panni del più noto tra i banditi della Frontiera, quel William Henry Bonney – ammesso che questo fosse il suo vero nome – conosciuto nel New Mexico come Billy the Kid, un ragazzo cresciuto negli “slums” di New York che a ventun anni vantava, almeno secondo la leggenda, ventun omicidi. Confrontandolo con altri film sul medesimo tema, il lavoro di Arthur Penn dimostra una discreta fedeltà storica, ma anche in questo caso è la figura di Newman ad essere convincente nella parte. Benchè infinitamente più bello del Kid, l’attore sembra possederne alcuni tratti salienti, come l’aria sprezzante che quasi sempre contraddistingue i ruoli da lui ricoperti nel cinema.
Discutibile invece “L’oltraggio”, di Martin Ritt, girato nel 1964, audace tentativo di trasferire in ambiente western la vicenda di “Rashomon”, di Akira Kurosawa. Nella parte del messicano Carrasco, accusato di avere violentato una donna uccidendone il marito, Newman è tanto sicuro di sé da rappresentare l’unico punto di riferimento dell’intricata faccenda. La sua figura di essere immorale e senza principi lo pone al di sopra di ogni giudizio etico, facendone apprezzare soltanto l’estrema bravura recitativa.


The Life and Times of Judge Roy Bean

Altrettanto spregiudicato ed insultante il personaggio di “Hud il selvaggio”, ancora sotto la regia di Ritt, un film che si vide aggiudicare 3 Oscar (miglior attrice, Patricia Neal, miglior attore non protagonista, Melvyn Douglas e miglior fotografia, di James W. Howe). Non è un western in senso stretto, essendo la vicenda ambientata in epoca più moderna, ma appartiene al periodo del declino della Frontiera, quando le macchine ed il progresso soppiantano definitivamente quel che resta del mondo dei cow-boy.
Il personaggio di Hud è di un cinismo assoluto, i suoi comportamenti sono quelli del giovane viziato alla ricerca di una vita facile e senza problemi, in contrapposizione all’attaccamento ai valori tradizionali del vecchio allevatore, che ha creato il suo piccolo impero con gli sforzi ed i sacrifici di una vita intera. Disprezzo e arrivismo fanno del giovane un individuo detestabile, la cui filosofia si sintetizza nella battuta: “L’unica cosa che chiedo ad una donna è quando rientra suo marito”. E’ il trionfo dell’egoismo più spregiudicato su un modello di vita considerato ormai superato dall’affarismo emergente delle nuove generazioni.
Newman incarna esattamente l’opposto dei personaggi portati sullo schermo da Steve Mc Queen (“L’ultimo buscadero”, Sam Peckinpah, 1972) e Robert Redford (“Il cavaliere elettrico”, Sidney Pollack, 1979) uomini fortemente legati al proprio background culturale. Senza alcun legame nostalgico con il passato, Hud non esita invece a distruggere, per il proprio vantaggio personale, tutto ciò che altri hanno faticosamente costruito. Ma lo fa con grandissima abilità, confermandosi insuperabile anche in questo ruolo negativo.
Meno affascinanti le due figure storiche interpretate da Newman in “L’uomo dai sette capestri”, di John Huston (1972) e “Buffalo Bill e gli Indiani”, di Robert Altman (1976) rispettivamente del giudice Roy Bean e del celeberrimo William Frederick Cody, cavalli di battaglia del revisionismo western. Newman non fa alcuna fatica ad immedesimarsi nei personaggi che il nuovo corso del cinema ha spogliato dell’aureola leggendaria, mostrandoli nella loro vera dimensione: un farabutto assurto a difensore della legge ed un opportunista che la penna di Ned Buntline ha trasformato in un eroe.
Il western sta vivendo il momento più acuto della sua dissacrazione e l’eccezionale versatilità dell’attore offre un contributo considerevole alla fine del mito.

Hombre

Per quanto non sia facile individuare il miglior western di Paul Newman, sono molti a far convergere il giudizio su “Hombre”, girato nel 1967 da Martin Ritt e prodotto dalla Twentieth Century Fox, con un cast di tutto rispetto: Martin Balsam, Diane Cilento, Fredric March, Richard Boone, Barbara Rush,
Ancora un ruolo western
Rispetto al romanzo omonimo di Elmore Leonard da cui è tratto, la versione cinematografica introduce soltanto la figura nuova della vedova Jessie (Diane Cilento) l’interlocutrice più diretta di John Russell (Newman) mentre tutti gli altri personaggi risultano pressochè identici alla trama del libro. L’innovazione è importante perché la donna finisce per rappresentare l’unico barlume di coscienza di un essere indipendente e asociale, guidato esclusivamente dall’istinto di conservazione..
Il contesto è inizialmente quello che già fu del fordiano “Ombre Rosse”, ma poi, man mano che la vicenda si sviluppa, se ne distanzia notevolmente.
John Russell , chiamato “Hombre” o “Tres Hombres”, è un uomo bianco cresciuto fra gli Apache, dei quali condivide mentalità ed usanze. Non fa nulla per nessuno, non interviene a difendere un soldato dalle minacce del bandito Grimes (Richard Boone) né si prodiga per salvare l’equipaggio della diligenza, come il Ringo Kid di “Stagecoach” (John Wayne). Insensibile alla sofferenza altrui ed agli eventi che si succedono intorno a lui, riesce ad impressionare per la sua abulica calma. “Lei non è stanco, lei non ha fame, lei non ha sete. Ma è un uomo?”. Neppure l’osservazione di Jessie riesce a smuovere quel monumento all’indifferenza, perché Russell si limita a rispondere con un provocatorio “Più o meno”.
“Hombre” non prova pietà per i defunti, nè per gli esseri viventi: “I morti sono morti. Vanno sepolti“ commenta in una battuta del film, alla quale la solita Jessie replica: “Il guaio, signor Russell, è che lei pensa la stessa cosa riguardo ai vivi”.
Perché quest’uomo rivela tanta acredine? Il messicano Mendez, che gli è amico da anni, ha una sua spiegazione: “Ed io che voglio portarti in una casa che ha i vasi di fiori sui davanzali e la tovaglia sulla tavola! Un selvaggio!”.
Russell non esita ad abbandonare al suo destino il dottor Favor (Fredric March) un agente indiano corrotto appropriatosi del denaro destinato agli Apache della riserva di San Carlos e non si impietosisce neppure quando i fuorilegge legano la moglie del funzionario (Barbara Rush) in un punto esposto al sole rovente, che le devasta il viso. Ma è davvero un uomo senza cuore? Il critico Michael Kerbel, in una sua opera su Paul Newman, ritiene che l’atto eroico finale di Russell per salvare la signora Favor sia soltanto un suicidio, l’estremo gesto di un uomo convinto “che la vita sia senza speranza”. Altri hanno sostenuto, richiamando la drammatica realtà del problema indiano, che la morte del protagonista rappresenti la logica fine di un emarginato, disprezzato dalla società dei Bianchi egoisti ed impostori.
Probabilmente la verità è un’altra e il John Russell di “Hombre”, che Kerbel definisce “proprio crudele” non è rimasto insensibile al gesto della vedova Jessie che si offre di soccorrere la moglie di Favor prigioniera, chiedendogli: “Mi dia un coltello, da lei non voglio altro”. L’uomo le risponde infatti: “Signora, lei si aspetta molto di più da me” e fronteggia i banditi da solo, affidandosi all’improbabile protezione del fucile di un inesperto ragazzo.


Il pistolero mancino

Fatalismo, indifferenza, a volte crudeltà, ma dietro gli occhi chiari della sua maschera di pietra, Russell nasconde un sentimento inconfessato e indefinito verso una donna che, benchè spietatamente critica nei suoi confronti, ne avverte l’attrazione magnetica. Ammirazione per il coraggio di lei, per la sua capacità di sacrificarsi o qualcosa di molto più elevato? Un’espressione che, se non è amore, gli somiglia parecchio. Perché, altrimenti, il regista Martin Ritt avrebbe inserito nel film la figura di Jessie, che nell’opera di Elmore Leonard è completamente assente?
Il personaggio che Newman interpreta ha forti connotazioni psicologiche, non sempre facili da decifrare, ma rivela una logica ed una gestualità elementari. Il suo cinismo, perfetto e amorale, si infrange davanti alla semplice offerta di una donna onesta di soccorrere una persona in difficoltà. Il suo atto di eroismo è simile ad un fiore che sboccia inaspettatamente nel deserto: un sentimento contenuto, senza clamore, velato da un ostentato distacco che gli fa dire, prima dell’ultimo scontro a fuoco: “Si muore tutti, è questione di tempo!”
Ed è con quello sguardo fiero e sprezzante, con il suo sorriso canzonatorio, con l’atteggiamento arrogante dello spaccone che Newman ha lasciato la sua impronta indelebile nel cinema, anche per merito di questa sua grande, insuperabile interpretazione.
Addio, Paul!
Adiòs, Hombre!