Quando Lincoln tentò di arruolare Garibaldi

A cura di Arrigo Petacco

Abraham Lincoln e Giuseppe Garibaldi
Lo chiamano in dialetto “er campo d’i genchi” quell’angolo dell’incantevole baia di Panigaglia situata nel golfo della Spezia, ma pochi sanno che genchi è semplicemente la deformazione dialettale di yankee e che in quella località, allora appartenente al Regno di Sardegna, aveva la sua base una Task Force della marina degli Stati Uniti cui il governo di Torino aveva concesso ospitalità.
Si era allora nei primi decenni dell’800, i pirati barbareschi erano ancora molto attivi al di qua e al di là dello Stretto di Gibilterra, ma aggredivano di preferenza le navi mercantili americane perché prive della protezione militare che i Paesi europei assicuravano ai rispettivi traffici marittimi. Per questa ragione, il governo di Washington aveva ritenuto indispensabile creare una base militare nel Mediterraneo per collocarvi una forza navale con un contingente di “marines” di pronto impiego e la scelta era caduta su questa baia ottenuta in affitto dal governo di Torino.
I genchi soggiornarono nel Golfo per alcuni decenni, costruirono banchine, caserme, depositi e anche un piccolo cimitero di guerra. Essi c’erano ancora quando, nel 1860, il mondo applaudi la gloriosa spedizione dei Mille e c’erano ancora l’anno dopo quando, il 12 aprile del 1861, ebbe inizio la Guerra di Secessione americana. In quell’occasione, “nordisti” e “sudisti” si azzufTarono anche nella baia di Panigaglia finché non intervennero i nostri carabinieri a ristabilire l’ordine.


Garibaldi ed i suoi soldati

E a questo punto che entra in scena Giuseppe Garibaldi al quale fu offerto il comando delle truppe “nordiste” impegnate in quella guerra. La storia è poco nota perché gli storici americani hanno sempre preferito sorvolare su questa vicenda, ma quell’offerta ci fu ed ebbe degli sviluppi imprevedibili anche se si preferì cancellarli dalla storia. D’altronde, Garibaldi è pur sempre un italiano e, come sappiamo, in America si preferisce storicizzare gli italiani piuttosto come gangster che come eroi positivi.
A suggerire a Lincoln di “arruolare” Garibaldi era stato l’ambasciatore americano a Torino P.H. Marsh il quale, essendo a cono-scenza di quanto bolliva nella pentola italiana, si era convinto che l’invitto Generale potesse essere indotto ad affrontare una nuova avventura oltre Oceano. Infatti, dopo la spedizione dei Mille, la popolarità dell’Eroe dei due Mondi aveva raggiunto lo zenit in Europa e nel mondo, ma Torino il Generale era invece guardato con sospetto per le sue non nascoste intenzioni di proseguire la guerra e risolvere con le armi anche la complessa “questione romana”. «Ora – riferiva infatti Marsh al suo governo – il conquistatore delle Due Sicilie si è ritirato nell’isola di Caprera, deluso e imbronciato, ma non certo rassegnato a rimanere inerte. Averlo quindi al nostro fianco sarebbe per noi un grosso successo». D’altra parte, in quel momento, la Guerra di Secessione non andava affatto bene per i “nordisti”. Malgrado l’indiscussa superiorità dell’esercito del Nord, i soldati “blu” collezionavano sconfìtte su sconfìtte perché difettavano di buoni comandanti. Fu appunto per queste ragioni che il suggerimento di Marsh venne preso molto sul serio dal governo di Washington e il presidente Lincoln non si lasciò scappare questa opportunità. Lanciò infatti un pubblico appello a Garibaldi chiedendo “all’Eroe della libertà di prestare la potenza del suo nome, il suo genio e la sua spada alla causa della Repubblica stellata”.


Soldati nordisti

Anche Garibaldi, contattato dagli emissari di Lincoln, prese in seria considerazione quella proposta. Tanto è vero che si rivolse direttamente a Vittorio Emanuele II per chiedergli il permesso di rispondere positivamente all’appello rivoltogli dal Presidente americano. La sua richiesta autografa è contenuta in un semplice biglietto postale, di colore azzurro, regolarmente affrancato e indirizzato a “Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele. Torino”.
Ecco il testo: «Sire, il Presidente degli Stati Uniti mi offre il comando di quell’esercito ed io mi trovo in obbligo di accettare tale missione per un Paese di cui sono cittadino. Nonostante ciò, prima di risolvermi, ho creduto mio dovere informare Vostra Maestà per sapere se crede che io possa avere ancora l’onore di servirla. Ho il piacere di dirmi di Vostra Maestà il devotissimo servitore. G. Garibaldi». Sul biglietto postale la data è indecifrabile, ma siamo certamente nel luglio del 1861, ossia in un momento molto delicato della politica italiana perché la “questione romana” era all’ordine del giorno. Il Partito d’Azione organizzava ovunque grandi manifestazioni popolari per reclamare la presa di Roma, ma il governo invece nicchiava temendo complicazioni internazionali. L’appello di Lincoln giungeva quindi nel momento più opportuno. Offriva infatti l’occasione di liberarsi dell’ingombrante Generale in una maniera più che onorevole. E infatti, per non farsi scappare questa occasione, Vittorio Emanuele si affrettò ad accogliere con benevolenza quella richiesta. Garibaldi fu quindi lasciato libero di varcare l’oceano, ma prima di muoversi, il Generale, che non era poi così ingenuo come si vuole far credere, pretese delle precise garanzie dal Governo americano e, in particolare, una dichiarazione che quella guerra aveva come scopo principale l’abolizione della schiavitù.
Lincoln e Garibaldi
Per quanto possa sembrare strano (considerando che secondo la storia americana tramandataci da Hollywood i soldati “blu” combatterono per liberare gli schiavi) fu proprio la richiesta dell’affrancamento della schiavitù a raffreddare gli entusiasmi del governo americano. Lo schiavismo era ancora giudicato una importante risorsa economica e nessuno aveva intenzione di abolirlo. Le trattative furono quindi sospese e Garibaldi, rinunciata la trasferta americana, si assorbì completamente nella preparazione dell’impresa, che, al grido di «O Roma o morte!», sarebbe poi miseramente naufragata nell’agosto del ’62 sull’Aspromonte con lo scontro fratricida fra garibaldini e bersaglieri.
Fu appunto dopo questo avvenimento che Garibaldi, prigioniero e ferito, venne tradotto nel carcere militare del forte di Varignano che si affaccia sul tratto di mare del golfo della Spezia dove le navi americane stavano alla fonda. La presenza del Generale non sfuggì naturalmente al commodoro S.H. Stringham, comandante della Task Force, il quale ne riferì subito a Washington dove ancora non si era rinunciato all’idea di arruolare l’Eroe dei due Mondi. Anzi, nel frattempo, la condizione posta dal Generale era caduta poiché Lincoln, per rendere più popolare la sua guerra, si era finalmente deciso a promettere l’abolizione della schiavitù se la vittoria avesse arriso alle forze dell’Unione.
Questa volta, l’incarico di prendere contatto col Generale fu affidato all’ambasciatore americano a Vienna, Teodoro Canisius che ricevette, fra le altre, le seguenti istruzioni: «Dica al signor Garibaldi che riceverà il grado di Maggior Generale dell’esercito degli Stati Uniti con lo stipendio re-lativo e la cordiale accoglienza del popolo americano». Senza perdere tempo, il 1° settembre del 1862, Canisius scriveva a Garibaldi: «Ora che siete ormai nell’impossibilità di condurre a termine la vostra grande impresa patriottica forse sarete meglio disposto ad offrire il vostro braccio per la lotta che la grande Repubblica sostiene per la libertà e l’unità, ecc. …».


Giuseppe Garibaldi

Garibaldi gli rispose nei seguenti termini: «Signore, sono prigioniero e gravemente ferito: per conseguenza mi è impossibile disporre di me stesso. Credo però che se sarò messo in libertà e se le mie ferite si rimargineranno, sarà arrivata l’occasione favorevole in cui potrò soddisfare il mio desiderio di servire la grande Repubblica Americana, che oggi combatte per la libertà universale». Ma questa volta fu uno scoop giornalistico a impedire la trasferta americana dell’Eroe dei due Mondi. L’ambasciatore Canisius, per attribuirsi il merito dell’impresa, comunicò infatti alla stampa il testo della lettera inviata a Garibaldi e provocò un pandemonio. In questa lettera, come abbiamo visto, veniva definita grande opera patriottica la spedizione garibaldina in Aspromonte che l’esercito italiano aveva invece represso nel sangue. Ciò provocò, fra Torino e Washington, uno scambio risentito di contestazioni che giunsero a sfiorare una crisi diplomatica. Andò così a finire che Canisius fu richiamato in patria, mentre a Marsh venne ordinato di interrompere ogni contatto col Generale. Anche la Task Force fu sfrattata da Panigaglia, sia pure con la scusa di far posto all’Arsenale in via di costruzione.
Garibaldi quindi non andò più in America. E fu davvero un peccato soprattutto per la futura mecca del cinema. I registi di Hollywood, che sono stati capaci di trasformare in eroi popolari dei rozzi cow boy dal grilletto facile, chissà quale affascinante epopea western sarebbero riusciti a sceneggiare avendo a disposizione un vero eroe in carne ed ossa.

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