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La verità su Geronimo

A cura di Domenico Rizzi

Il grande Geronimo
Su Goyathlay o Goyackle, alias Geronimo, capo guerriero dei Bedonkohe si è scritto molto, ma forse non a sufficienza per chiarirne la complessa natura fino in fondo.
Il revisionismo cinematografico degli Anni Sessanta-Settanta lo ignorò, scegliendo Ulzana come protagonista dell’unico film serio imperniato sugli Apache. Il regista Walter Hill gli diede invece la centralità che meritava in “Geronimo” (1994) interpretato da Wes Studi, Robert Duval, Gene Hackman e una serie di attori di grande livello. Una pecca di questa pellicola è l’aspetto un po’ troppo giovanile (45-48 anni) del personaggio, che all’epoca doveva averne una sessantina; un’altra è l’eccessiva stima tributata al capo apache dal tenente Britton Davis (Matt Damon) che invece nelle sue memorie (“The Truth about Geronimo”) diffidava della sua lealtà. Con ciò Hill fece davvero un passo avanti rispetto a tutte le pellicole precedenti , soprattutto nei confronti di quel “Geronimo” girato da Arnold Laven nel 1962, nel quale il condottiero era interpretato da un quarantenne Chuck Connors.
La figura di Geronimo più somigliante alla realtà rimane quella ripresa in un breve scorcio di “Ombre Rosse” del 1939, nell’unica inquadratura che lo ritrae mentre sta per lanciare l’assalto alla diligenza (attore navajo White Horse). Ma non si tratta semplicemente di una somiglianza fisica: Ford sapeva quanto fosse difficile penetrare a fondo il carattere degli Indiani e spesso li relegava ai margini del contesto narrativo, permeandoli di un alone di mistero, come fece in “Fort Apache”, “Rio Bravo” e “Sentieri selvaggi”. Non per questo, però, la loro presenza, ridotta a una minaccia incombente, era meno inquietante.
In realtà, la figura di Geronimo, prediletta dal cinema che gli dedicò numerosi film, resta una delle meno conosciute sotto il profilo storico e le sue gesta sfiorano spesso il limite della capacità di comprensione sia da parte degli Americani che della sua stessa gente. Assodato che non fu mai un capo politico e che doveva essere nato fra il 1823 e il 1829 in una regione indefinita fra l’Arizona e il New Mexico, gli va riconosciuta l’enorme capacità di eludere la sorveglianza di Bianchi e Messicani e di imbrogliarli spesso e volentieri con i suoi atteggiamenti falsamente concilianti. Ciò premesso, forse Geronimo non fu mai un vero e proprio nemico degli Stati Uniti ed è questa una delle poche ammissioni autentiche delle memorie dettate a Barrett nel 1906. Semplicemente, braccato dalle truppe americane e spinto anche dalla solidarietà tribale, li combattè con durezza, pur senza smarrire il suo vero obiettivo, che era quello di sterminare la gente della Sonora e del Chihuahua, colpevole di avergli massacrato la famiglia verso la metà del secolo.
La banda di Geronimo
Sostenere che Geronimo sia stato un patriota che combatteva per le proprie terre invase dagli Occhi Bianchi suona gravemente inesatto. Lo hanno affermato pochi autori e registi cinematografici dichiaratamente schierati dalla parte degli Indiani senza averne effettivamente approfondito la storia. Anche la sua bravura nello sfuggire ripetutamente all’accerchiamento dei militari nell’ultima fase della campagna – 1885-86 – necessita di un opportuno ridimensionamento. E’ vero che il generale Nelson Miles impiegò 5.000 soldati, pari ad un quinto dell’esercito statunitense di allora – che peraltro era uno dei più esigui del mondo in rapporto alla popolazione della nazione, che superava i 50 milioni di persone – e che venne coadiuvato dall’azione di centinaia di volontari civili e da 2.000 Messicani oltre frontiera, ma ciò rientra nella più assoluta normalità. Anche 8.000 uomini sparsi sulla superficie di tre Stati – Arizona, New Mexico e Sonora – rappresentano un numero irrisorio rispetto alla vastità dei loro territori, a quell’epoca in gran parte disabitati (l’Arizona aveva poco più di 80.000 abitanti, il New Mexico 150.000) dal momento che il raggio d’azione delle piccole bande guidate da Geronimo – che non superarono mai i 250 elementi comprese le donne e i bambini – si estendeva su una superficie pari ad oltre un terzo di quella dell’Italia. Ebbene, per stroncare il banditismo nel Mezzogiorno nel 1861-65, su un’area territorialmente molto più ristretta, il governo dell’Italia unita dovette mettere in campo una quantità di truppe dieci volte superiore a quella impiegata da Miles e dagli alleati messicani, nonostante che il nucleo più consistente di briganti fosse di circa 2.000 unità. Mi è sembrato necessario evidenziare più dettagliatamente queste differenze nel mio recente libro “Frontiere del West”, dedicando un lungo capitolo al leader degli Apache, dopo averne già parlato diffusamente in “I cavalieri del West”, pubblicato nel 2011 insieme al giornalista Andrea Bosco.
Quanto all’efficacia delle incursioni degli Apache, generalmente coronate da successo, si spiegano facilmente con le tattiche usate dai Pellirosse in generale. Si tenga sempre presente, se si vuole condurre un’analisi obiettiva e senza facili retoriche, che i popoli nativi erano abituati a quel genere di guerriglia da secoli. Molto prima che Cristoforo Colombo mettesse piede sul suolo americano, le tribù indiane si combattevano aspramente fra loro, derubandosi a vicenda e compiendo spietate rappresaglie.


Alcuni guerrieri con il capo

I loro accampamenti furono sempre pieni di donne e bambini catturati agli avversari e gli scontri intertribali causarono un numero di vittime senz’altro superiore a quello delle guerre sostenute contro i Bianchi. Basti rilevare che il numero più elevato di morti causato dallo scontro fra due tribù rivali – Shoshone e Piedi Neri – si riscontrò nel 1826 sul fiume Snake, dove caddero in combattimento oltre 250 guerrieri. E’ probabilmente questa la battaglia più sanguinosa sostenuta dagli Indiani nell’Ottocento, naturalmente dopo quella del Little Big Horn.
Gli Apache, al di là delle confessioni postume fatte da Geronimo allo scrittore Barrett, disdegnavano le pratiche agricole, attività che lasciavano quasi sempre alle donne. Oltre alla caccia, l’attività in cui eccellevano era costituita dalle razzie, che compivano ai danni dei Pueblo, dei Navajo, dei Pima e dei Papago, così come lo facevano nei confronti delle popolazioni messicane, frutto dell’incrocio fra gli Aztechi e gli Spagnoli. Quando gli Stati Uniti presero possesso dell’Arizona e del New Mexico, nel 1848, gli spazi degli Apache cominciarono a restringersi dinanzi all’avanzata dei coloni, che non si fermavano né davanti alle asperità della terra, né al suo clima torrido. Cittadine come Yuma e Tombstone sorsero addirittura in mezzo al deserto, perché la scoperta dell’oro e dell’argento costituivano un richiamo irresistibile.
Geronimo si era misurato sul campo con i Messicani di Arizpe, avendo buon gioco su un paio di compagnie di irregolari, ma al Passo Apache constatò di persona quanto fosse rischioso affrontare a viso aperto gli Americani: infatti Mangas Coloradas si era ritirato ferito e con le pive nel sacco dopo avere perso 66 uomini, dinanzi ai cannoni del capitano Thomas Roberts. La lezione indusse gli Apache a tenersi lontani dai confronti campali anche quando potevano contare sulla supremazia numerica. La lunga lotta di Geronimo contro Americani e Messicani si sintetizzò, da quel momento in poi, in una serie di azioni di guerriglia, con attacchi rapidi e improvvisi, repentine ritirate e lunghe soste nelle località più inaccessibili della Sierra Madre. Quasi certamente l’esercito non sarebbe mai riuscito a prevalere su un nemico tanto inafferrabile, se non avesse potuto disporre dell’esperienza di scout come Al Sieber, Mickey Free e Tom Horn, ma ancor più per il contributo offerto dagli esploratori indiani, quali Alchesay, Apache Kid e Chato, per citarne solo alcuni dei più noti. Se le truppe statunitensi sopportarono un numero di perdite abbastanza contenuto rispetto ai Messicani, lo si dovette in larga misura al loro aiuto.


La banda di Geronimo

Sostenere che Geronimo fosse il principe dell’arte della guerriglia è opinabile. Era senz’altro un maestro in questa tecnica, già impiegata da Cochise per dieci anni e applicata in seguito da Victorio, Nana, Ulzana e diversi altri. Anche Keintpoos, leader dei Modoc, aveva tenuto in scacco le truppe americane per diversi mesi e Capo Joseph era riuscito a tirarsele dietro per 2.000 chilometri, dall’Oregon al Montana, battendole più di una volta sul campo, nonostante la loro superiorità numerica e l’armamento di cui disponevano. In un passato più remoto, vi era stato l’esempio di Osceola, i cui attacchi di sorpresa causarono circa 1.400 morti al nemico e 20 milioni di dollari di spesa all’erario. Dopo ogni battaglia – uno dei quali costò agli Stati Uniti, nel 1835, la perdita di 104 uomini, con la distruzione della colonna del maggiore Dade – i Seminole si ritiravano nelle paludi impenetrabili dell’Everglades, così come gli Apache ripiegavano sui monti Mogollon e Dragoon.
La fortuna di Geronimo fu dovuta al fatto di operare sempre in aree semidesertiche e pressochè disabitate come l’Arizona e la Sonora messicana: se avesse condotto la sua guerriglia in una regione come la California – già abitata nel 1885 da 1.100.000 persone e disseminata di fattorie e aree coltivate – la sua resistenza sarebbe durata molto meno.
Un argomento assai controverso riguarda il comportamento del presidente democratico Grover Cleveland che, mostrandosi più duro dei Repubblicani, ordinò la deportazione in Florida degli ultimi Apache e del generale Nelson Miles che la attuò. Letteratura, cinema e testi scarsamente obiettivi hanno sempre tessuto le lodi – in gran parte meritate – del generale George Crook, “amico” degli Indiani in contrapposizione al “cattivo” George Armstrong Custer. Anche su quest’ultimo personaggio ho ritenuto opportuno ritornare ampiamente nella mia opera “Frontiere del West”, per controbattere – prove alla mano – l’errato giudizio negativo che la storia ha espresso su di lui. Custer non fu il solo responsabile del disastro del Little Big Horn, ma alla classe politica dirigente dell’epoca faceva molto comodo che lo si credesse; in secondo luogo occorreva trovare un colpevole delle vessazioni inflitte agli Indiani e la figura del generale – che si era messo in urto con il presidente Grant e con l’amministrazione repubblicana del tempo – sembrava ideale.
In verità Crook, che Geronimo considerava peraltro una persona subdola, sterminò molti più Pellirosse di Custer. Questo fornisce un’idea di quanto la storia sia stata falsata dalla partigianeria di alcuni autori, mentre il giudizio estremamente critico espresso – anche dall’esploratore Tom Horn – su Nelson Miles merita una riflessione più attenta. Che avesse ingannato Geronimo e Naiche, nascondendo loro il piano di deportarli in Florida insieme alla loro gente, non è del tuttto vero: infatti, nei colloqui svoltisi in Messico pochi giorni prima della resa definitiva degli Apache, il tenente Gatewood era stato esplicito verso Naiche e Geronimo: “Dopo la resa sarete condotti con le vostre famiglie in Florida, per attendere in quel posto la decisione del presidente sul vostro futuro.”
Forse Miles prese frettolosamente una decisione che non aveva ancora l’approvazione – sebbene apparisse scontata – delle autorità di Washington. La sua fu una scelta dettata dalle contingenze, perché gli Indiani rischiavano di essere giudicati da un tribunale ordinario dell’Arizona, che li avrebbe sicuramente condannati a morte. Non si dimentichi che soltanto negli ultimi 18 mesi della loro guerriglia gli Apache avevano trucidato 75 civili in varie operazioni e nessuna corte di giustizia avrebbe potuto sorvolare su tale evidenza. Il trasferimento in una località lontanissima, pur con tutti i disagi possibili e l’immenso dolore causato alle famiglie, rappresentò paradossalmente la loro salvezza.


Ancora Geronimo durante una scorreria

In Florida e nell’ Alabama dove molti di essi vennero inviati in seguito, furono trattati alla stregua di prigionieri di guerra e i loro bambini costretti ad iscriversi alla Indian Industrial School di Carlisle, in Pennsylvania, dove tuttavia pochi completarono i corsi.
Dunque, una soluzione senz’altro drastica, perché con ciò gli Apache venivano sradicati dalle loro terre e dalla propria cultura secolare, ma ragionevole perché aveva evitato il loro sacrificio. Non si dimentichi che lo stesso Crook, considerato uno dei più umani fra i generali impegnati nel Sud-Ovest, aveva spedito sul patibolo più di un guerriero. Si è scritto che in questa deportazione di massa il torto maggiore lo subirono le guide indiane, trattate alla fine come i combattenti di Geronimo e Naiche, ma anche qui occorre ricordare che alcune di esse si erano macchiate di crimini intollerabili. Un esempio è quello di Chato, il quale, avendo sterminato insieme alla sua banda la famiglia del giudice Mc Comas tre anni addietro, sarebbe finito sulla forca se il giudizio fosse spettato alla giustizia ordinaria. La detenzione in Florida e il successivo trasferimento in una riserva dell’Oklahoma gli consentirono invece di vivere fino al 1934, raggiungendo l’età di 74 anni.
Quanto a Geronimo, la prigionia gli permise di diventare ancora più celebre, di conoscere ed apprezzare il progresso dei Bianchi, di partecipare ad eventi importanti e di guadagnare parecchio denaro sfruttando la propria immagine. Alla grande Fiera di Saint Louis del 1904 fu trattato con il massimo rispetto, ricevette inviti e potè vendere molte sue fotografie autografate, racimolando un discreto gruzzolo. Il suo carattere spigoloso ne ebbe un giovamento soltanto parziale, perché il condottiero litigò perfino con il pastore della Chiesa Riformata Americana alla quale aveva aderito, divorziò dalla moglie Ihtedda e fu piantato in asso dopo un solo anno dalla successiva compagna Mary Loto. La passione per il whisky sostituì quella che gli Apache avevano in passato per il tiswin e Geronimo non la abbandonò mai. Fu proprio una sbornia a costargli la vita, mentre tornava a casa da Lawton, in Oklahoma, dopo essersi ubriacato. Come si sa, cadde sulla riva di un rigagnolo in una notte di pioggia e si prese una polmonite che lo condusse alla morte.
Ho raccontato queste e molte altre cose nei miei libri “I cavalieri del West” e nel più recente “Frontiere del West”, cercando di scovare ogni notizia utile a tracciare un ritratto più preciso del famoso guerriero.


Il treno conduce Geronimo e i suoi lontano dalla loro terra

Geronimo non fu uno stratega, ma piuttosto un abile tattico, che improvvisava la azioni di guerriglia seguendo un costume atavico. Il fatto che riuscisse molto spesso a sottrarsi a ricerche e inseguimenti, dipese, oltre che dalla vastità del territorio e dalle sue asperità, dalla crudele determinazione con cui gli Apache sapevano spingere le proprie cavalcature fino al limite estremo di resistenza, uccidendole con una coltellata nel collo quando erano ormai incapaci di proseguire. Come ha scritto Andrea Bosco: “Gente dura, gli Apache. Gente implacabile…Un guerriero poteva spingere il proprio pony per novanta miglia. Quando cadeva stremato dalla fatica, lo finiva, lo macellava e si rimetteva in marcia a piedi per altre novanta.” (Bosco-Rizzi, “I cavalieri del West”, citato).
La medesima cosa facevano nei riguardi dei prigionieri catturati, che erano quasi sempre donne e bambini: chi non era in grado di sopportare una marcia di centinaia di miglia a piedi o sul dorso di un mustang, veniva eliminato. Questa non era peraltro una caratteristica dei soli Apache, ma della maggior parte delle tribù nomadi: durante i loro ripiegamenti dalle regioni messicane, al termine delle razzie, Comanche e Kiowa si comportavano nella stessa identica maniera. L’immagine dell’Indiano umano e comprensivo verso la donna bianca catturata, arbitrariamente diffusa da certa letteratura e da qualche film revisionista, poggia sul grosso equivoco che le prigioniere, per loro stessa ammissione, non fossero state oltraggiate dai loro carcerieri. Si tratta di un palese falso storico, perché a nessuna donna – salvo il caso in cui fosse rimasta incinta durante la cattività – veniva in mente di rivelare la violenza subita, per il semplice motivo che sarebbe stata discriminata dalla sua stessa gente, imbevuta della rigida morale vittoriana dell’epoca.


Geronimo tratta la sua resa con il Generale Crook

Nella realtà, tutte le sfortunate vittime femminili subirono ripetutamente l’oltraggio sessuale, ma pochissime – come Josephine Meeker, prigioniera per tre settimane degli Ute nel 1879 – trovarono il coraggio di confessarlo apertamente. Riottenuta la libertà, la loro esistenza non fu sempre drammatica come quelle di Cynthia Parker o di Anna Brewster Morgan. La maggior parte di quelle che si conoscono, si sposarono, ebbero dei figli e condussero una vita praticamente normale, forse “con un piccolo, schifoso ricordo in più” per citare la battuta di un celebre film di Sergio Leone.
Del resto Geronimo, dopo la fuga dalla riserva di San Carlos nel 1885, aveva rapito, facendosi aiutare dal cugino Perico, sia Ihtedda che un’altra giovane donna, per compensare la rispettiva e temporanea mancanza di mogli. Questo era il costume degli Apache, ma anche di parecchie tribù delle pianure. Anche Cavallo Pazzo, il famoso capo di guerra degli Oglala, si era servito di metodi simili con Donna di Bisonte Nero, già sposata ad un rivale, ma forse l’attrazione che questa provava per lui aveva reso il sequestro meno drammatico. Comunque, il padre di Cavallo Pazzo giustificò il comportamento sbagliato del figlio con “l’incantesimo che uno sciamano gli aveva fatto” ammettendo che con ciò egli fosse “venuto meno al suo codice d’onore” (Bosco-Rizzi, “I cavalieri del West”, citato).
Geronimo invece non dovette giustificare nulla, perché questa prassi era diffusa fra la sua tribù. Imparò soltanto, quando cominciò a stare in mezzo ai Bianchi, che questi comportamenti erano vietati, ma non condivise mai le regole della giustizia civile, così come non perdonò mai i Messicani per quello che avevano fatto alla sua famiglia. Infatti, quando si trattò di combattere contro l’esercito della Sonora, lui e i suoi uomini – catturati dal reparto del capitano Crawford nel 1884 – “solidarizzarono apertamente con gli Americani” e lo scout Tom Horn gridò al comandante del reparto avversario, intenzionato a chiedere la resa dei soldati statunitensi e la consegna dei loro prigionieri pellirosse, che gli Apache “non avrebbero permesso la cattura degli Americani, massacrando, se necessario, tutti i suoi uomini”. (Domenico Rizzi, “Frontiere del West”, Filios Editore, Piacenza, 2012).


Geronimo, ormai anziano

Un’ulteriore frecciata alla gente d’oltre confine, Geronimo la lanciò nel 1904, mentre partecipava come attrazione alla Fiera di Saint Louis, definendo gli Americani “gente assai gentile e pacifica”, mentre, se si fosse trovato in mezzo ai Messicani, sarebbe stato costretto ad impugnare le armi. Forte di questa precisazione, Geronimo sfruttò il proprio mito fino in fondo, perchè gli rendeva, insieme alla popolarità, molto denaro.
Alla parata inaugurale del presidente Theodore Roosevelt, organizzata a Washington nel 1905, il leader apache “cavalcò lungo la Pennsylvania Avenue, fra le acclamazioni della folla”. La gente lo vedeva ormai come una figura mitica e “impazziva per il selvaggio West, celebrato dal cinema come il nuovo genere d’avventura” (Rizzi, “Frontiere del West”, citato). Invece nessuno degli abitanti dell’Arizona, del New Mexico o della Sonora lo rimpiangeva. Anzi, il giorno in cui era stato deportato in Florida insieme ai suoi Chiricahua aveva rappresentato un momento di grande sollievo per i coltivatori, gli industriali e gli allevatori di quelle regioni, perché finalmente avrebbero potuto dormire sonni più tranquilli, come gli abitanti di Tombstone dopo che Wyatt Earp e i suoi amici li avevano liberati dalla pericolosa gang dei Clanton e dei Mc Lowry. Allo stesso modo la pensavano i pacifici indiani del Sud Ovest – Pueblo, Pima, Papago, Navajo – che per decenni avevano subito le angherie dell’imprendibile predone e dei suoi contribali.
Quando Geronimo esalò l’ultimo respiro a Fort Sill, il 17 febbraio 1909, ad ovest del Rio Grande non si era ancora spenta l’eco delle sue razzie, delle incursioni nelle fattorie e delle sanguinose rappresaglie da lui compiute. I Messicani sostenevano, esagerando, che soltanto nell’ultimo anno e mezzo di guerriglia i suoi Apache avessero ucciso 400 persone. Gli Americani circoscrivevano le perdite di questo periodo a 90 morti, dei quali però cinque sesti erano civili.
Ma ormai il cinema aveva cominciato a celebrare le imprese del temerario condottiero indiano – “Geronimo Last Raid” di G.P. Hamilton risale al 1912 – avviato a diventare una leggenda che nessuno avrebbe potuto distruggere.