Chi ha ucciso Liberty Valance

A cura di Domenico Rizzi

Il cinema western ha dato vita, nell’arco dei suoi 108 anni di esistenza, a circa 3.500 titoli, dei quali oltre 400 prodotti in Italia e almeno 300 realizzati da altri Paesi europei. La maggior produzione si concentrò soprattutto nei primissimi anni del Novecento, dopo l’uscita di “L’assalto al treno” di Edwin S. Porter e la comparsa di registi come Thomas H. Ince e David W. Griffith, seguiti più tardi da Cecil B. De Mille, William S. Hart, George B. Seitz e John Ford. Alcune delle prime pellicole vennero finanziate o dirette da celebri uomini della Frontiera: “The Bank Robbery” del 1908 ebbe come regista Billy Tilghman che era ancora in attività come marshal; “The Indian Wars” nel 1914 fu interpretato da Buffalo Bill, che ne era anche coproduttore insieme alla Essanay Film Manufactoring Company.
Nel 1939, l’anno in cui apparve sugli schermi “Ombre Rosse”, il filone western occupava il 35.% dell’intera produzione hollywoodiana; nel 1956 si era attestato sul 30%, distribuendo oltre 80 film in un anno, ma un quinquennio più tardi il genere cominciava ad accusare un vistoso calo.
Durante gli Anni Quaranta e Cinquanta avevano dominato la scena pellicole come la trilogia militare di Ford (“Il massacro di Fort Apache”, “I cavalieri del Nord-Ovest” e “Rio Bravo”) “Il Fiume Rosso” di Howard Hawks, “Il grande cielo” di Howard Hawks (1952) “Mezzogiorno di fuoco” di Fred Zinneman” (1952) “Il cavaliere della valle solitaria” di George Stevens (1953) “L’ultimo Apache” di Robert Aldrich (1954) “Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges (1957)“Sentieri selvaggi” di Ford. “Un dollaro d’onore” di Raoul Walsh (1959) e “I Comancheros” di Michael Curtiz (1961) furono tra gli ultimi western spettacolari della storia del genere prima della grande crisi e Ford chiuse virtualmente la sua lunga rassegna con “L’uomo che uccise Liberty Valance” nel 1962. La gente disertava da tempo le sale cinematografiche, la televisione prendeva sempre più il sopravvento e il western, giunto al suo sessantesimo compleanno, mostrava tutti i segni dell’età. Per molti si trattava di un definitivo tramonto, per altri il genere risentiva di un’evidente stanchezza, avendo esaurito ormai le proprie chance.
Sergio Leone non la pensava affatto così, ma credeva che occorresse immettere nuova linfa in un albero che si stava essiccando. Lo fece spettacolarizzando i duelli, esasperando i primi piani e accompagnando l’azione con le colonne sonore di un grandissimo musicista: Ennio Morricone. La sua concezione del West è tanto semplice da apparire quasi elementare. Forse la si può sintetizzare nel titolo di uno dei suoi film: “Il buono, il brutto, il cattivo”.


Un’immagine tratta da uno spaghetti-western

Dunque, uno schema assai meno complesso di quello contenuto in altre pellicole precedenti, ma infinitamente più efficace, nel quale la recitazione degli attori assume un valore assoluto. Nei suoi film, come del resto in quelli di John Ford, non vi è un protagonista, ma un personaggio circondato da co-protagonisti che gli contendono il campo. Come scrisse un critico, lo “spaghetti-western” ridisegnò gli archetipi del genere (Gian Piero Brunetta, “Storia del cinema italiano”, Editori Riuniti, Roma, 1993). Ovviamente il regista italiano partì con un budget limitatissimo, girando gli esterni a Colmenàr Vijo, una cittadina distante meno di 40 chilometri da Madrid e sperando che “Per un pugno di dollari” – da lui firmato come Bob Robertson – riuscisse a recuperare almeno la somma investita. Invece incassò molto di più, raggiungendo la cifra di quasi 3 miliardi e 200 milioni di lire (Massimo Moscati, “Western all’italiana”, Pan Editrice, Milano, 1978).
Sebbene con introiti molto minori rispetto alla “trilogia del dollaro” – 2 miliardi e mezzo di lire solo in Italia – “C’era una volta il West” del 1968 rappresentò la definitiva consacrazione del mito, presentando una Frontiera in via di trasformazione nella quale l’elemento femminile cominciava ad emergere e ad imporsi prepotentemente.
Al declino dei pistoleri, rassegnati al loro destino, subentravano “uomini di buona volontà” che costruivano le ferrovie e “donne di piccola virtù” ormai redente che affondavano radici inestirpabili nella nuova terra. Leone aveva capito perfettamente l’evoluzione del West: per questo ringraziò forse sommessamente Ford, del quale non condivideva peraltro la visione eccessivamente ottimistica delle vicende umane. “C’era una volta il West” si conclude, come il film-testamento del regista di origine irlandese, con l’immagine di un treno, ossessivamente incombente nel “Mezzogiorno di fuoco” di Fred Zinneman nel 1952. I bounty killer muoiono dignitosamente o scompaiono all’orizzonte seguendo una strada che non li condurrà in alcun luogo. Qualcuno, scrive Stefano Jacurti in “Dove arriva quel treno” (Il baule della prateria”, 2008) rimetterà piede nella vallata di Sweet Water, realisticamente proiettato verso il coronamento di un sogno interrotto a metà, perché “dopo quello che era successo… lui non poteva restare”. In realtà, perché il tempo della gente come lui, Armonica, si era concluso.


Una scena di C’era Una Volta il West

E’ l’anacronistica figura di un ex pistolero che si arrende all’inesorabile incedere della vita e al mutare dei tempi che con essa si accompagna. Gli altri, quelli che hanno fondato sulle armi l’unica ragione della loro rischiosa esistenza, vengono inghiottiti dal magma del progresso; quelli che non lo fanno, muoiono come Cheyenne (Jason Robards) Frank (Henry Fonda) o Liberty Valance (Lee Marvin) allo stesso modo di personaggi reali di una Frontiera ormai sorpassata.
“Bonnie e Clyde” annota Andrea Bosco nel recentissimo libro pubblicato insieme a Domenico Rizzi (“I cavalieri del West”, 2011) “in realtà scappano dal futuro. Sognano di una vita di agi e di avventura, rinviando prima irresponsabilmente e poi con sempre maggiore consapevolezza, una fine che non potrà che essere drammatica.”
L’uccisione di Valance e l’uscita di scena di Tom Doniphon (John Wayne) la morte di Frank e la partenza di Armonica (Charles Bronson) per una destinazione ignota esauriscono la lunga parentesi storica del West, preludendo al prossimo tramonto del genere dopo quasi 70 anni di onorata attività.
Il revisionismo di Sam Peckinpah, Elliott Silverstein, Ralph Nelson, Arthur Penn, Robert Aldrich ne tenta la riesumazione rivoluzionandone i canoni fondamentali e per un po’ di tempo l’esperimento funzionerà. Poi sarà Clint Eastwood ad infrangere un imbarazzante silenzio con “Il cavaliere pallido” nel 1985, ma i cerchi provocati dal sasso lanciato nello stagno svaniranno di nuovo senza avere un seguito immediato, finché Kevin Costner, attingendo all’avvincente romanzo di Michael Blake non imporrà il suo dirompente “Balla Coi Lupi” nel 1990, conquistando 7 Oscar. Improvvisamente la luce sembra riaccendersi più fulgida che mai, i Liberty Valance e i Frank fremono dalla loro incorporea dimensione presagendo travolgenti ritorni sulla scena, Uncas riaffila le sue armi contro il perfido Magua (“L’ultimo dei Mohicani”, di Michael Mann, 1992) e Geronimo ritorna a cavalcare contro le truppe di Crook e Nelson Miles (“Geronimo”, di Walter Hill, 1993). Riappaiono pure, nel volgere di pochi anni, Wyatt Earp e Doc Holliday, i fratelli Clanton e Johnny Ringo (“Tombstone”, di George P. Cosmatos, 1993 e “Wyatt Earp”, di Lawrence Kasdan, 1994) mentre una banda di scombinate ragazze (“Bad Girls”, di Jonathan Kaplan, 1994) si mette sulla scia di Little Britches e Cattle Annie in un’improbabile remake delle loro gesta. Anche Jim Jarmush propone una sua onirica visione del western con “Dead Man” nel 1995, prima che Sam Raimi (“Pronti a morire”, 1995) assesti il colpo di grazia alle speranze degli amatori del genere, facendo leva sul fascino di Sharon Stone e sulla collaudata professionalità di Gene Hackman per alimentare una trama assurda e farraginosa che riesce a far dimenticare i 4 Oscar recentemente conquistati da “Gli spietati” di Clint Eastwood (1992).


L’ultimo dei Mohicani

Il western conosce un’effimera resurrezione come la mitologica Fenice, ma il suo ritorno ha assunto ancora una volta il sapore di un malinconico addio.
Ho letto più di una volta opinioni di chi attribuisce il declino del genere alle esagerazioni delle pellicole italiane degli Anni Sessanta e Settanta. Lo stesso regista Sergio Corbucci dichiarò ad un certo punto “Basta con le parodie. Perché il western all’italiana l’hanno ucciso soprattutto Bud Spencer e Terence Hill…Non si poteva più restare credibili a lungo.” Lo stesso Leone aggiunse in un’intervista: “Il pubblico era saturo di vedere idiozie…” Probabilmente c’è del vero anche in queste analisi, perché a forza di Gringo, Garringo, Sabata, Sartana, Django, Trinità e Alleluja dell’epopea autentica non rimaneva più niente, grazie anche a titoli come “Ehi, amico, c’è Sabàta. Hai chiuso”, “La mia Colt ti cerca…quattro ceri ti attendono” oppure “Oremus, Alleluja e così sia!”. Tuttavia non si può imputare allo “spaghetti-western” la principale ragione del crollo: nella seconda metà degli Anni Settanta in America venivano girati ancora film come “Buffalo Bill e gli Indiani” di Robert Altman (1976) e “Io grande cacciatore” di Anthony Harvey (1979) che lasciavano ben sperare nella continuità del genere. Chi ha dunque ucciso Liberty Valance, cioè il simbolo stesso della filmografia western?
Ad un esame obiettivo bisognerebbe rispondere: tutti e nessuno. Infatti, se da un lato è incontestabile che il numero delle pellicole di Pellirosse e banditi è andato progressivamente scemando dal 1960 in poi – fatta esclusione appunto per il periodo del western italiano, che inflazionò il mercato – è altrettanto vero che la produzione non è mai cessata completamente e che periodicamente ripropone nuove storie sullo schermo.
In questi ultimi anni, abbiamo potuto apprezzare ottimi lavori come “Terra di confine” di Kevin Costner (2003) “The New World” di Terrence Malick (2006) “Broken Trail” di Walter Hill (2006) “Appaloosa” di Ed Harris (2008) “Il Grinta” di Joel e Ethan Coen (2010). Naturalmente non tutti gli esperimenti si possono considerare riusciti, come nel caso dell’artefatto remake di “Quel treno per Yuma” di James Mangold (2007) e dei semi-western “L’ultimo Samurai” di Edward Zwick (2003) o “Hidalgo. Oceano di fuoco” di Joe Johnston (2004) ai quali si è recentemente aggiunto il demenziale “Cowboys & Aliens” di Jon Favreau…Teniamo conto, del resto, che il western ha sfornato, nel corso della sua lunga storia, centinaia di B movies, che non sono però riusciti ad intaccare il fascino della sua vena narrativa. Secondo l’opinione di chi scrive, se il bicchiere non è più pieno come una volta, lo rimane ancora per metà e forse i buoni propositi prevarranno sulle previsioni più pessimistiche.
Ricordiamo che dopo lo spettacolare “Il Grinta” dei fratelli Coen, vi sono in cantiere altri film d’interesse, quali, per esempio, “Meek’s Cutoff” di Kelly Reichardt, girato nel 2011, mentre la tanto amata guerra di secessione – celebrata da Edward Zwyck con “Glory. Uomini di gloria” nel 1989 e ancor più da Ronald F. Maxwell con “Gettysburg” nel 1993 – rivive nel drammatico evento dell’assassinio di Lincoln in “The Conspirator”, di Robert Redford. Qualche timore può suscitare invece “Django Unchained” di Quentin Tarantino, che richiama nel titolo il personaggio lanciato da Corbucci negli Anni Sessanta. Rivedremo improbabili giustizieri che si tirano dietro una bara contenente una mitragliatrice? Speriamo in qualcosa di più, oppure questa volta il contenuto della cassa da morto sarà il genere western.


Broken Trail

Lasciamo perdere le battute: interpretare i gusti della gente, indovinando quale storia potrebbe catturare l’attenzione generale, è un’impresa difficilissima.
Spesso si è creduto di incontrare un largo favore del pubblico con un film che poi si è rivelato un autentico flop commerciale. E’ il caso di “Alamo. Gli ultimi eroi” di John Lee Hancock (2004) stroncato dalla critica e male accolto dal pubblico nonostante la fedeltà alla ricostruzione storica, costato 140 milioni di dollari con un ritorno di appena un sesto della somma investita. Altre volte, una pellicola senza pretese nelle intenzioni della produzione ha raccolto un successo inaspettato. Il western è argomento solido, che vanta ancora moltissimi appassionati: basta vedere quanti libri vengono ancora pubblicati su questo tema e l’affermazione di portali come Farwest.it, che aumentano continuamente il loro numero di visitatori. Non ha senso neppure parlare di esaurimento dei soggetti sfruttati dal cinema, perché le migliaia di film fin qui prodotti hanno sviscerato un numero di tematiche abbastanza limitato e spesso banalmente ripetitivo.
Il lato più scoperto della filmografia western rimane la sezione biografica, nel senso che, nonostante siano state costruite decine di trame intorno alle figure di Buffalo Bill, Billy il Kid, Pat Garrett, Geronimo, Wyatt Earp e Jesse James, risultano colpevolmente assenti le biografie di personaggi come Cavallo Pazzo (un solo film, “Furia indiana”, di George Sherman, nel 1955, non contando le numerose apparizioni in varie pellicole) Toro Seduto (trattato quasi sempre come una comparsa, a differenza di Geronimo) John “Portugee” Phillips (un eroe dimenticato) Meriwether Lewis e William Clark (anche per loro, un solo film di rilievo: “I due capitani”, di Rudolph Matè, 1955). Se si allarga il discorso alle protagoniste femminili, i cineasti, tanto affascinati dalle solite Pocahontas, Calamity Jane e Belle Starr, si sono scordati figure quali le indiane Sacajawea e Mohnaseetah, le pioniere Tamsen Donner, Susan Shelby e Narcissa Prentiss, le “squaw bianche” Olive Oatman, Cynthia Ann Parker, Fanny Kelly e Millie Durgan e le “pistolere” Annie Oakley, Little Britches, Cattle Annie e Laura Bullion. Soltanto ad Etta Place, il western ha concesso qualche spazio, ma lo ha fatto in quanto era moglie di Sundance Kid del Mucchio Selvaggio (“Butch Cassidy”, di George Roy Hill, 1969). Forse la rivalutazione del gentil sesso quale presenza storica si è arrestata proprio a “C’era una volta il West” di Leone, nel quale la quieta Jill affiora come la vera vincitrice della contesa fra affaristi, mercenari, speculatori e pistoleri. Non era un personaggio reale, ma ne simboleggiava parecchi della Frontiera antica e recente.
Dal momento che la gente della nostra era manifesta molto interesse per il gossip, perché non rispolverare qualche storia “piccante” dei nostri eroi della Frontiera?


BUffalo Bill

E’ risaputo che il colonnello Cody aveva un debole per le grazie femminili e corteggiò attrici e figuranti del suo spettacolo (nel 1996 si stava preparando un film su una sua presunta relazione con la principessa Ada Wilbraham Caetani, conosciuta a Roma nel 1890: la scelta del protagonista avrebbe dovuto ricadere sul bravo Kevin Costner, ma poi non se ne fece nulla) indispettendo la moglie Louisa che ad un certo punto lo lasciò. Sono altrettanto note le infedeltà del generale Custer e la sua relazione con la cheyenne Monahseetah, dalla quale ebbe un figlio, per non tirare in ballo i numerosi partner di personaggi come Big Nose Kate o le tormentate vicende personali e sentimentali dell’indiana Sarah Winnemucca.
Per concludere con un pizzico di polemica, le biografie di Ann Eliza Webb, Lola Montez o Adah Isaacs Menken sembrano infinitamente più interessanti degli improbabili incontri fra cow boy e alieni recentemente proposti dal cinema.
Ma c’è da aspettarsi che fra non molto qualche regista rispolvererà l’eterna immagine di Custer, o parlerà ancora di Doc Holliday, della sfida all’O.K. Corral e della banda di Jesse James. Come è scritto nell’intestazione dei cartelli di molti luoghi storici degli Stati Uniti per dare almeno una succinta informazione al turista laddove non rimane alcun cimelio, “Better than nothing”. Meglio di niente.
Purchè il western, a causa di qualche cervellotico esperimento, non scompaia del tutto.

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