Curiosità sulla storia del west

A cura di Domenico Rizzi

Le molte curiosità generate dallo studio della storia del west restano spesso insoddisfatte per via della difficoltà a reperire documenti o ad approfondire le fonti. E anche quando si riesce a mettere le mani su quelli, è comunque difficile discernere tra verità, leggenda, falso storico ed esagerazioni. Gli stessi storici mostrano spesso di arrivare a ricostruzioni completamente diverse, pur partendo da basi identiche.
Questo è lo scotto da pagare quando si tenta di documentarsi su un periodo epico e leggendario come quello della storia del west del quale fin da quando era ancora cronaca c’era l’abitudine di infarcire i resoconti con montagne di dettagli (e non solo) assolutamente inventati!
Lo scopo di questo articolo è di raccogliere alcune tra le curiosità più diffuse tra quelle irrisolte e provare a soddisfarne alcune.

L’origine dell’espressione “O.K.”
Si leggono e si sentono spesso interpretazioni diverse in merito all’origine di vocaboli, proverbi e modi di dire, non sempre esaurienti o esatte.
Se non persistono molti dubbi circa la derivazione del nome “Indiani d’America” o della parola “mustang”, ve ne sono invece parecchi che riguardano certe espressioni entrate ormai nel linguaggio corrente.


La zona dell’OK Corral

Recentemente è stata fornita – anche su Internet – una spiegazione manifestamente improbabile di una fra le più comuni affermazioni usate in tutti i continenti del globo: O.K. Secondo tale fonte, l’espressione sarebbe nata, non più tardi di qualche decennio fa, tra i soldati americani impegnati nella campagna del Vietnam. A nostro avviso, nulla di più errato.
Pare invece che, intorno al 1880, un capo mandriano dell’Arizona usasse apporre sui recinti, con un pezzetto di gesso, le proprie iniziali O.K., che potrebbero significare Oliver Kenton, Otis Kincaid, ecc. Lo scrupoloso cow-boy compiva questo gesto alla sera, per confermare che il lavoro di raccolta del bestiame era stato concluso positivamente e gli animali si trovavano all’interno degli appositi corral.
Dunque, O.K. ha un’origine autenticamente “western”, databile ad almeno 120 anni fa e il Vietnam, come sappiamo, è un evento troppo recente perché possa costituire una spiegazione credibile della parola “O.K.”. Vale comunque la pena di rammentare che tale modo di dire compare già in alcuni film statunitensi prodotti molto tempo prima del conflitto vietnamita e spesso addirittura anteriori alla Seconda Guerra Mondiale.
La versione riportata venne inoltre pubblicata in un numero del periodico “True West” verso la metà degli Anni Cinquanta, circa dieci anni prima che gli Americani iniziassero le ostilità con i Vietcong.  
E’ inoltre un fatto storicamente provato che a Tombstone, in Arizona, esisteva già il famoso “O.K. Corral” nel 1881, situato fra Allen Street, Fremont Street, la Terza e la Quarta Strada. In questa località, il 26 ottobre di quell’anno ebbe luogo la più celebre sfida della storia della Frontiera, tra i fratelli Wyatt, Virgil e Morgan Earp affiancati da John “Doc” Holliday e la banda dei Clanton e Mc Laury. Si concluse in meno 30 secondi, lasciando sul terreno i cadaveri di Frank e Tom Mc Laury e di Billy Clanton, il più giovane dei fratelli del bandito Ike Clanton.

I quartieri a luci rosse
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, anche l’espressione “a luci rosse” – che evoca misteriosi postriboli del lontano Oriente – ha la sua incontestabile origine nel West e precisamente nelle cosidette “cow-town”, le “città del bestiame” del Kansas.
Quartiere a luci rosse di Leadville
Questo curioso modo di dire nacque infatti in una cittadina assurta a grande notorietà per la sua vita turbolenta negli anni Sessanta-Settanta dell’Ottocento.  
Come si sa, dopo la Guerra di Secessione gli allevatori di “longhorn” del Texas conducevano la maggior parte delle loro mandrie nel Kansas, dove i “cow-boy”, una volta consegnato il bestiame e ricevuta la paga, si abbandonavano per giorni alla baldoria più sfrenata. Oltre alle interminabili partite a poker, “monte” e “faraone” e a colossali sbornie, i mandriani cercavano compagnia femminile nelle sale da ballo e nei “saloon”, ma anche nei bordelli. In alcune città, come Ellsworth, Newton  Abilene e Dodge City, le autorità pubbliche vietavano alle prostitute – chiamate anche “Dirty Dove”, cioè “sporche colombe” – di esercitare la loro  professione nei centri urbani, riservando loro un quartiere periferico che assunse nomi diversi a seconda della località. A Newton l’area in cui sorgeva il bordello ebbe la suggestiva denominazione di Hyde Park.
A Dodge City, una cittadina di tre o quattromila abitanti, tale zona ospitò invece la cosidetta “Casa a Luci Rosse”, perché la porta d’ingresso del fabbricato a due piani in cui lavoravano le “donnine” era provvista di un vetro colorato che, riflettendo la luce dell’interno, assumeva una tinta vermiglia.
In questo bordello ogni prostituta disponeva di una propria stanza (con appesa all’uscio l’etichetta del nome con cui esercitava) di una branda, un piccolo scrittoio, un appendiabiti, un catino, una brocca d’acqua, un pezzo di sapone ed alcune salviette. Il costo di una prestazione sessuale “ordinaria” era di 2-3 dollari, salvo richieste “particolari” che facevano alzare sensibilmente il prezzo.   
La promiscuità della clientela, la scarsa igiene e l’assenza di controlli sanitari favorivano, ovviamente, il diffondersi delle malattie veneree, che colpivano un elevatissimo numero di mandriani, soldati, avventurieri e cittadini “perbene” amanti della trasgressione.

Il primo film western
Meno di un decennio dopo il tramonto della Frontiera, convenzionalmente stabilito nell’anno 1894, comparvero le prime rappresentazioni cinematografiche dedicate alla storia e alla leggenda del  West.
La nascita ufficiale del genere “western” è unanimemente attribuita dalla critica al film “The Great Train Robbery” (L’assalto al treno”) diretto da Edwin S. Porter nell’autunno 1903 e prodotto dalla Edison. In realtà, un’altra opera meno nota – “Kit Carson”, diretto da Wallace Mc Cutcheon per la American Mutoscope e Biograph – lo precedette di pochissimi mesi.
Si trattava di 11 episodi indipendenti, per una durata complessiva di una ventina di minuti, dedicati alle presunte avventure del celebre esploratore, contenenti scene d’azione talvolta violente, come la scotennatura di un Bianco ad opera dei Pellirosse. La maggior parte delle sequenze venne girata in “esterni” con macchine da presa fisse, ma le imprese descritte nel film sono per lo più immaginarie.

Cristopher “Kit” Carson
Cristopher Carson, detto Kit, nacque nel 1809 e si spense nel 1868 a Fort Lyon, Colorado, in seguito ad un colpo apoplettico. A detta di Buffalo Bill – che battezzò Kit Carson Cody uno dei propri figli in suo onore – fu “il più grande esploratore della Frontiera”.

Billy Dixon, tiratore d’eccezione
Gli appassionati del genere western conoscono l’abilità di tiratori come Buffalo Bill Cody e Wild Bill Hickok, gli eroi maggiormente celebrati dalla leggenda, ma non tutti sono a conoscenza delle prodezze compiute da uomini meno noti.
Un ritratto di Billy Dixon
Nel 1874, durante l’assedio alla postazione di Adobe Walls, nel Texas, da parte di una banda mista di Comanche, Cheyenne, Kiowa e Arapaho, 28 cacciatori di bisonti, accompagnati da una donna, dovettero difendersi per alcuni giorni dagli attacchi indiani, che avevano sferrato la prima carica la notte fra il 26 e il 27 giugno.. .
I Bianchi erano quasi tutti armati con carabine Sharps calibro 50, il “buffalo gun” più potente dell’epoca e riuscirono a tenere a debita distanza gli assalitori, infliggendo loro numerose perdite. Alla fine vennero lasciati sul terreno 13 cadaveri indiani, ma almeno altri 10 guerrieri erano stati recuperati dai contribali e portati via moribondi. Mentre i mustang abbattutti risultavano 56, i cacciatori accusarono invece 3 sole perdite.
Durante una pausa del combattimento, il giovane Billy Dixon mise a segno uno dei colpi più formidabili della storia. Senza tenere conto del parere di chi lo sconsigliava di sprecare munizioni, puntò il suo Sharps su un gruppo di 15 cavalieri comanche che sostava immobile a poco meno di un miglio di distanza. Quindi, regolò accuratamente il mirino e si concentrò sul tiro che lo avrebbe reso celebre. Dopo avere esploso il colpo, mentre l’eco dello sparo si era già spento nella vallata, per qualche secondo non si notò alcun movimento nel drappello indiano. Poi, però, un cavaliere scivolò al suolo e rimase immobile. I suoi compagni provvidero quasi subito a raccogliere il corpo e a portarlo via. Secondo alcune testimonianze, il guerriero era stato soltanto ferito e sopravvisse.
In seguito, venne misurata la distanza dalla postazione in cui si trovava Dixon fino al punto in cui il suo bersaglio era stato colpito: risultarono addirittura 1.406 metri. Nessuno, neppure i più famosi Buffalo Bill o la tiratrice Annie Oakley che fece parte del suo Wild West Show, riuscì forse mai a fare meglio di lui.

Sentieri Selvaggi
Fra tutti i film prodotti dalla cinematografia western, “Sentieri selvaggi” di John Ford rimane ancora il capolavoro in assoluto, tant’è che.il regista Martin Scorsese lo definì addirittura “il miglior film americano di tutti i tempi”.
Prodotto nel 1955 dalla C.W. Whitney Pictures e distribuito nel 1956 dalla Warner Bros. (durata 119 minuti) era liberamente ispirato al romanzo di Alan Le May “The Searchers”. Gli esterni furono girati In California e soprattutto nella Monument Valley dell’Arizona, La colonna sonora venne curata da Max Steiner, che incluse motivi tradizionali quali “Shall We Gather At The River”
Gli interpreti principali, oltre al celebre John Wayne nella parte di Ethan Edwards, sono Jeffrey Hunter (Martin Pawley) Vera Miles (Laurie Jorgensen) Ward Bond (reverendo Samuel Clayton) e la giovanissima Nathalie Wood (Debbie).
Benchè accolto tiepidamente dal pubblico agli inizi, assurse in seguito ad una imperitura gloria, che esalta l’indiscutibile bravura di Ford e le grandi capacità recitative di John Wayne, all’epoca già 47 enne. A distanza di mezzo secolo, rivedendo attentamente le sequenze del film, non si possono avere più dubbi che l’attore fosse effettivamente un “colosso” del cinema, come del resto aveva dimostrato in “I cavalieri del Nord-Ovest”. Purtroppo la critica non trovò di meglio che assegnargli un Oscar alla carriera per “El Grinta”, che non è certo la sua pellicola migliore.
Fra le scene più crude e impressionanti di “Sentieri selvaggi”, quella delle donne bianche liberate dall’esercito dopo essere state prigioniere degli Indiani: una sequenza degna di un manicomio, fatta di strilli, urla, risate isteriche e visi stravolti che nessun altro film avrebbe in seguito osato riproporre con tanto drammatico realismo.

Titoli assurdi
Com’è noto, l’Italia è uno dei pochi Paesi in cui viene usato il doppiaggio dei film: altrove, si preferisce proiettare la versione in lingua originale, servendosi delle didascalie. Ciò non toglie, che i titoli dei film possano essere cambiati dalla distribuzione: “Sentieri selvaggi”, per esempio, fu distribuito in Francia come “La Prisonnière du Desert”, che rendeva comunque a sufficienza l’idea della vicenda trattata.
Meno pertinenti, invece, i titoli inventati dalla distribuzione italiana per altre pellicole dello stesso genere. “Distant Trumpet” (tromba lontana) un buon film di Raoul Walsh del 1964, diventò banalmente “Far West”; il famoso “Major Dundee” (1965) di Sam Peckinpah prese come titolo il nome del capo indiano – “Sierra Charriba” – inseguito dai soldati americani nel Messico di Massimiliano d’Austria. Per citare un altro caso di cambiamento radicale del titolo, possiamo ricordare il notissimo “Jeremiah Johnson”, di Sidney Pollak (1972) che venne messo in circolazione come “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”.
Ma esistono altre opere alle quali vennero assegnati titoli manifestamente assurdi o fuori luogo. Fra questi, uno dei più clamorosi è “Comanche Station”, di Budd Boetticher (1960) diventato sorprendentemente, in Italia, “La valle dei Mohicani” (forse perché gli Indiani, che sono Comanche, portano la cresta alla “mohicana” ?). Ancora più assurdo il titolo di “Many Rivers to Cross” di Roy Rowland (1955) apparso sugli schermi nazionali come “Un Napoletano nel Far West”, senza che nella versione originale vi fosse neanche l’ombra di persone di orgine partenopea!  Altro titolo campato in aria, quello imposto al film “Chuka” di Gordon Douglas (1967) riciclato come “Vivere da vigliacchi, morire da eroi”.
Ma il peggio doveva arrivare verso la fine degli Anni Sessanta, quando si ebbe il boom dello spaghetti western. Dopo l’ottimo esordio dei film di Leone e Tessari, fu un susseguirsi ininterrotto di pellicole che contribuirono a diminuire la già scarsa attendibilità storica del western. Oltre alla comparsa di nomi inventati e spesso caserecci – Sartana, Django, Sabata, Trinità, Gringo, Mannaja, ecc. – vennero fuori titoli inconsueti, provocatori e a volte ridicoli, come: “Vado, l’ammazzo e torno” (Enzo G. Castellari, 1968) “Oremus, Alleluja e Così Sia” (Alfio Caltabiano, 1972) “Nessuno dei tre era chiamato Trinità” (Pedro Ramirez, 1974) e così proseguendo fino al definitivo tramonto del genere.
Fortunatamente, più avanti, Kevin Costner (“Balla Coi Lupi”, 1990) Clint Eastwood (“Gli Spietati”, 1992) e Michael Mann (“L’ultimo dei Mohicani”, 1992) riuscirono a far dimenticare, almeno per un po’ di tempo, le tristezze del passato.

Presidente per un giorno
Il generale William Henry Harrison (1773-1841) venne eletto alla presidenza degli Stati Uniti nel 1841, ma proprio il giorno dell’insediamento, il 4 marzo, prese una brutta polmonite e trascorse forzatamente a letto, fra inutili cure, il brevissimo tempo del suo mandato. Morì infatti dopo un mese, lasciando la carica al vicepresidente John Tyler.
Harrison era stato governatore dell’Indiana e la vittoria di Tippecanoe, ottenuta nel 1811 contro la potente coalizione pellerossa promossa da Tecumseh costituiva il suo fiore all’occhiello. In seguito si era distinto in alcune battaglia della Guerra Anglo-Americana, nel 1812-14.
La sua successione creò qualche problema di legittimità costituzionale, perché fino a quel momento il vicepresidente poteva subentrare al presidente soltanto in via transitoria e si sarebbero dovute indire nuove elezioni a breve termine. Invece Tyler rimase in carica fino al 1845. Quasi allo scadere del suo mandato, gli Stati Uniti approvarono l’annessione del Texas, resosi indipendente dal Messico nel 1836 .

L’autore di Ben Hur
Lewis Wallace, nato nel 1827, combattente nella Guerra Messicana nel 1846-47 e generale dell’armata nordista durante il conflitto secessionista, coltivava con grande entusiasmo la passione letteraria, che lo portò a scrivere e pubblicare vari romanzi.
La più famosa delle sue opere, conosciuta in tutto il mondo grazie all’invenzione del cinema, fu “Ben Hur”, edita bel 1880, quando Wallace aveva 53 anni ed una buona carriera politica alle spalle. Infatti, dopo la Guerra Civile diventò governatore del New Mexico e dell’Utah e dal 1881 al 1885 fu a Costantinopoli come plenipotenziario. Durante la sua permanenza nel Sud-Ovest, ebbe a che fare con il fuorilegge Billy the Kid e dovette intervenire per porre fine alla cosidetta “Guerra della Contea di Lincoln” fra allevatori che si contendevano i pascoli.
Wallace morì nel 1905, all’età di 78 anni.
La trama del suo libro venne portata in scena fin dal 1899, ma dal 1907 interessò anche il cinema, che ripropose il soggetto nel 1925, girando gli esterni in Italia. L’edizione più conosciuta e di maggior successo fu quella prodotta dalla Metro Goldwyn Mayer nel 1959, sotto la regia di William Wyler e con la superba interpretazione di Charlton Heston nei panni del protagonista Giuda Ben Hur. Il colossal, che si avvaleva di un cast eccezionale formato da Stephen Boyd, Jack Hawkins, Haya Harareet, Cathy O’Donnell e Martha Scott e durava 230 minuti, vinse 11 premi Oscar, mentre “I Dieci Comandamenti”, girato tre anni prima e interpretato dallo stesso Heston (Mosè) ne aveva ottenuto uno solo.

Le mani di Billy the Kid
William Henry Bonney, posto che fosse questo il suo vero nome e comunque noto come Billy the Kid, era abbastanza brutto, con i denti sporgenti, la voce stridula e un aspetto assai meno piacevole di quello presentato nelle finzioni cinematografiche di Arthur Penn (“Furia selvaggia”, interpretato da Paul Newman, 1958) e Sam Peckinpah (“Pat Garrett e Billy the Kid”, con Kris Kristofferson, 1973).


Il famoso ritratto di Billy the Kid

Una delle caratteristiche del ragazzo-criminale, era quella di possedere mani molto piccole e polsi sottili, cosa che il 28 aprile 1881 gli consentì una rocambolesca evasione dall’improvvisato carcere di Lincoln, nel New Mexico. Infatti il Kid arrivò addirittura a sfilarsi le manette da solo, per poi uccidere gli agenti di guardia Jim W. Bell e Bob Ollinger. Dopo aver troncato, con un’ascia, le catene che gli legavano le caviglie, Billy si rese irreperibile, ma la sua libertà non durò molto a lungo. La notte del 14 luglio 1881, Pat Garrett gli tese un agguato nella casa di Pete Maxwell, a Fort Sumner, uccidendolo sul colpo con un preciso colpo di pistola all’altezza del cuore. Il Kid aveva soltanto 21 anni, ma si era macchiato, secondo la tradizione, di almeno 21 omicidi.

Il medaglione di Ethan
Fra i tanti interrogativi che hanno assillato i critici cinematografici nell’analisi del celebre “Sentieri Selvaggi” (la provenienza del protagonista, la sua presunta relazione segreta con la cognata Martha, la condizione di Debbie Edwards (Nathalie Wood) dopo la cattura, ecc.) vi è pure l’origine del medaglione d’argento che Ethan Edwards (John Wayne) mette al collo della nipote Debbie al momento del suo ritorno nella casa del fratello.
In realtà non sembrano esservi troppi dubbi che il dono provenga dall’autorità asburgica che governava il Messico sotto Massimiliano, prima che Benito Juarez portasse a termine la sua vittoriosa insurrezione. E’ infatti noto che, terminata la guerra di secessione, parecchi Sudisti – come appunto Ethan (Wayne) – si trasferirono nel Messico, per tentare un’improbabile riorganizzazione delle loro file con l’aiuto dei Franco-Austriaci. Si trattò di un sogno effimero e irrealizzabile, che si infranse nel 1867 con la fucilazione dell’imperatore per mano dei rivoltosi juaristi. Il protagonista di “Sentieri Selvaggi”, sicuramente texano, ironizza sui cavalleggeri nordisti, proprio per avere militato nella cavalleria confederata prima di schierarsi con le truppe di Massimiliano d’Asburgo, fratello di Francesco Giuseppe.

Bistecche di dinosauro
Durante le corse all’oro nel West, le cronache registrarono ogni sorta di stranezze, occupandosi degli avvenimenti più inconsueti e incredibili. Fra le burle più celebri della “gold-rush” nel Klondike, (1896-98) vi fu quella di un ristoratore di Dawson, infastidito dalla concorrenza, che annunciò la sensazionale scoperta di un dinosauro, perfettamente conservato, nei ghiacci dell’Artide. Pochi giorni dopo, l’uomo espose un cartello nel suo locale, offrendo “bistecche di mastodonte” a 10 dollari l’una. In realtà, nei piatti degli incuriositi clienti finiva della semplice carne di manzo e lo stesso ideatore della burla confessò che si era trattato di uno scherzo.
Fra i personaggi destinati a diventare famosi, che parteciparono all’avventura del Klondike, vi fu un giovane di nome Jack London (1876-1916) assurto poi a fama mondiale con i romanzi “Zanna Bianca” e “Martin Eden”.

Il ranch di Chisum
Le residenze di cacciatori, coloni e militari furono alquanto miserabili almeno fino agli inizi del Novecento, quando il completamento di molte linee ferroviarie verso il West consentì di trasportare grandi carichi di legname e materiale da costruzione anche nelle località più remote. Tuttavia, già nell’Ottocento, vi furono uomini che riuscirono a passarsela abbastanza bene anche nelle aree più inospitali, creando abitazioni confortevoli che rendevano meno dura la difficile vita della Frontiera. Uno di questi fu john Simpson Chisum, vissuto fra il 1824 e il 1884, il primo ranchero che riuscì a trasferire una mandria bovina dal Texas alla Louisiana.


John Wayne interpreta Chisum

All’età di 39 anni, dopo aver costruito un ranch nel Texas nord-occidentale, decise di emigrare verso il Rio Concho, nel Sud-Ovest, dove fece ottimi affari con la guarnigione del nuovo presidio di Fort Concho, rifornendo di carne i militari impegnati nelle campagne contro i Comanche e gli Apache. Nel 1878, Chisum si poteva considerare uno dei più grossi imprenditori dell’Ovest, arrivando a possedere 100.000 capi di bestiame. Svolse un ruolo di primo piano nella tragica Guerra della Contea di Lincoln – durante la quale ebbe alle sue dipendenze anche il famigerato Billy the Kid – ma poi si ritirò in una località del New Mexico, chiamata South Spring, dove si creò una residenza davvero singolare. Benchè la sua fattoria sorgesse nel bel mezzo di una landa desertica e desolata, Chisum la trasformò facendovi crescere intorno un bosco di querce, frutteti e cespugli di rose in quantità, scavando pozzi artesiani fra i più profondi del West per assicurare un’irrigazione costante ai fiori e alle piante. Anche l’interno del ranch venne arredato con gusto e potè vantare un ricco assortimento di oggetti provenienti dalle località più disparate. Per la gente dell’Ovest, John Chisum, morto all’età di 60 anni e sepolto a Paris, nel Texas, divenne il simbolo del vero Americano, che si era procurato ricchezza e agi, contribuendo, nello stesso tempo, alla prosperità economica della nazione. Per gli storici, rimase un personaggio ambiguo ed opportunista, che si era servito anche del Kid per raggiungere i propri scopi.

La moglie di Texas Jack
Il virginiano John B. Omohundro, meglio noto come Texas Jack, avventuriero ed esploratore dell’esercito, combattente confederato con Robert Lee durante la guerra di secessione, fu coetaneo ed amico di Buffalo Bill, insieme al quale contribuì alla pacificazione delle Grandi Pianure, alimentando il mito dei Frontiersmen audaci ed invincibili.
Texas Jack Omohundro
In diverse pubblicazioni a fascicoli di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento, l’eroe venne spesso raffigurato al fianco di Cody in cruenti scontri con le più fiere tribù della prateria. Ma il West, come si è detto più volte, assegnò quasi sempre agli uomini la palma di protagonisti assoluti, dimenticando il contributo dell’elemento femminile. Per questo, pochissime persone hanno sentito parlare della moglie di Texas Jack. Giuseppina Morlacchi, milanese dall’incerta data di nascita (1843 o 1846 le più probabili) aveva frequentato la scuola di ballo della Scala, debuttando sul palcoscenico nel 1856 a Genova. Successivamente si esibì in diverse città italiane ed europee, come Roma, Lisbona e Londra, per trasferirsi a Boston nel 1867, ormai all’apice della popolarità, Conobbe Texas Jack alcuni anni dopo, tramite il giornalista-scrittore Ned Buntline, che aveva organizzato uno spettacolo teatrale in cui la donna avrebbe dovuto interpretare la squaw Occhio di Colomba. Giuseppina, divenuta ormai Josephine, si innamorò del rude esploratore e lo sposò nell’agosto del 1873. Il loro matrimonio durò fino al 1880, quando Texas Jack si ammalò di polmonite nel Colorado e in breve tempo morì. La gente che conosceva bene Josephine raccontò che, da quel momento, la vedova non si riprese più dal dolore per la scomparsa del coniuge, al quale era legatissima. Ritiratasi a vivere in solitudine, la ballerina milanese si spense nel 1886, a soli 39 anni di età, probabilmente di crepacuore.

Cavallo Pazzo
Tashunka Witko, Cavallo Pazzo, uno dei più famosi leader pellirosse della storia del West, occupa una parte preponderante della storia della Frontiera ed è stato per molto tempo il personaggio indiano preferito da studiosi e romanzieri. Al condottiero degli Oglala, vincitore sulle truppe del tenente colonnello William J. Fetterman e dei generali Crook e Custer, sono state dedicate moltissime pubblicazioni storiche, a volte un po’ romantiche ed eccessivamente apologetiche – come “Crazy Horse. The Strange Man of the Oglalas”, di Mari Sandoz – ma più spesso ispirate ad una obiettiva ricostruzione della sua controversa biografia (“Cavallo Pazzo e Custer” di Stephen E. Ambrose; “Gli spiriti non dimenticano”, di Vittorio Zucconi; “Cavallo Pazzo”, di Larry Mc Murtry, ecc.). Incomprensibilmente, il cinema non ha mai mostrato lo stesso riguardo verso l’uomo la cui popolarità, dopo la disfatta inflitta a Custer al Little Big Horn, si era diffusa in tutta l’America. A quanto risulta, l’unico film che lo abbia visto finora come protagonista assoluto è stato “Furia indiana”, girato nel lontano 1955 sotto la regia di George Sherman e interpretato dal bravo Victor Mature. Una pellicola minore, che si perde nella miriade di western dedicati talvolta a personaggi immaginari o assai poco degni di nota. Una celebrazione davvero misera, per un uomo che aveva vissuto la sua breve esistenza ai confini della leggenda ed in onore del quale si sta scolpendo, nel South Dakota, un monumento alto 180 metri!

Cammelli nella prateria
L’acquisto della Grande Louisiana da parte degli Stati Uniti, che nel 1803 pagarono 15.000.000 di dollari alla Francia di Napoleone, non venne condiviso da tutti gli Americani, molti dei quali criticarono l’operazione come inutile e costosa. A dar man forte a costoro, giunsero più tardi le deludenti relazioni del tenente Zebulon M. Pike e soprattutto del maggiore Stephen H. Long, che battezzò le pianure comprese fra il Mississippi e le Montagne Rocciose, “il Gran Deserto Americano”. Long, al termine di una ricognizione compiuta nel 1819-20, sostenne addirittura che l’immensa regione, completamente arida e inospitale, poteva servire al massimo come “barriera contro le incursioni di eventuali nemici provenienti da occidente”.


I famosi cammelli (ma erano dromedari) del west

Qualche anno dopo, un membro del Congresso americano definì il territorio “privo di valore”, essendo una “regione di selvaggi e di belve, di deserti di sabbia e di tempeste di polvere, popolata di cactus e cani della prateria.” Il parlamentare aggiunse che non avrebbe mai votato lo stanziamento di “un solo centesimo, per avvicinare la Costa del Pacifico a Boston”. Invece il Congresso approvò uno stanziamento di 30.000 dollari, ma per acquistare alcuni cammelli, ritenuti indispensabili  ad attraversare questo “Sahara americano”! Prima che il progetto venisse accantonato, una spedizione riuscì a compiere, servendosi di questi animali, il lungo viaggio fino alla California. Tuttavia, il “deserto” non era destinato a rimanere tale. In pochi decenni, debellate le tribù più bellicose, le Grandi Pianure furono invase da migliaia di persone, che aprirono strade e scavarono pozzi e canali, per dedicarsi all’allevamento del bestiame e alla coltivazione del suolo. Nel 1870, dopo il completamento della ferrovia transcontinentale fino al Pacifico, la vasta estensione delle praterie centrali, corrispondente agli attuali Stati del Nebraska, Kansas, Colorado ed Oklahoma, possedeva già oltre 500.000 abitanti, che sono saliti oggi a quasi 13.000.000. Come in altri importanti momenti della storia degli Stati Uniti, l’ottimismo dei pionieri ebbe il sopravvento sulle più pessimistiche valutazioni della gente dotata di poca fantasia.

Le spacconate di Davy Crockett
Davy Crockett (1786-1836) uno dei più popolari eroi della Frontiera, al di là degli effettivi meriti acquisiti e dell’eroica fine nella difesa di Alamo, si guadagnò fama di grande spaccone, amante dei paradossi e delle esagerazioni. Il celebre frontiersman del Tennessee, alto circa 2 metri e fisicamente assai prestante, disprezzava la scrittura e le buone maniere, amava definirsi “mezzo cavallo e mezzo alligatore” e lanciare continue provocazioni, passione che non lo abbandonò neppure quando venne eletto al Congresso degli Stati Uniti.
Durante la campagna elettorale del 1829, esordì in un comizio dicendo: “In tempi di grande fermento politico come quelli che corrono, vi conviene essere ben rappresentati e io non esito a propormi come candidato…” Riferendosi ai suoi detrattori, fece della pesante ironia: “Mi accusano di adulterio: è una balla, perché in vita mia non sono mai scappato con la moglie di un altro, a meno che non fosse d’accordo…” Quanto alle accuse di essere un ubriacone impenitente, Crockett rispose: “E’ una maledetta bugia: il whisky non è mai riuscito ad ubriacarmi.” (da “Old Times in Tennessee”, Memphis, 1873).
Quando diventò membro del Congresso, Crockett si presentò la prima volta in abito da trapper, suscitando ilarità e critiche.


Davy Crockett

Successivamente tenne discorsi che scandalizzarono i colleghi e la stampa, sostenendo: “Sono  un campione di urla, possiedo il cavallo da corsa più veloce, la sorella più graziosa, il fucile più preciso e il cane più brutto di tutto il mio distretto.” Ma lo show di Davy non terminò qui. Durante un intervento, egli chiese addirittura che l’assemblea offrisse whisky ai suoi membri, anziché la consueta limonata, dichiarando di poter bere, come aperitivo, “un barile di acquavite addolcito con lo zolfo, mescolato con una sbarra rovente e sbattuto da un ciclone”.
Tuttavia, la parte più pesante del suo intervento fu la seguente: “Io cammino come un bue, so correre come una volpe, nuoto come un’anguilla, grido come un Indiano, combatto come un demonio, faccio l’amore come un toro scatenato e inghiotto un negro intero senza ingozzarmi, purchè abbia la testa imburrata e le orecchie tirate indietro.” (da “Davy Crockett’s Almanac of Wild Sports in the West”, Nashville 1837).
Neppure nel corso della battaglia di Alamo, dove perse la vita insieme agli altri 186 difensori, Davy Crockett perse la propria verve. Fra le poche persone scampate all’eccidio, qualcuna raccontò che l’eroe del Tennessee si spostava continuamente da una posizione all’altra, infondendo coraggio agli uomini e gridando frasi in spagnolo per sfidare il nemico. Si narra anche che, al termine della battaglia, intorno al suo cadavere giacevano i corpi di 14 soldati messicani del generale Santa Anna.

Il primato di Buffalo Bill
William Frederick Cody (1846-1917) il celebre Buffalo Bill, dovette gran parte della sua popolarità all’abilità con cui cacciava i bisonti al servizio della Union Pacific Railroad, la compagnia ferroviaria che, durante e dopo la Guerra Civile, stendeva verso occidente i binari della prima linea transcontinentale d’America.
Nell’arco dei 17 mesi in cui Cody fu ingaggiato come procacciatore di carne per gli operai, disse di avere abbattuto 4.280 bufali, stabilendo il primato, universalmente riconosciuto, del miglior cacciatore della Frontiera.
In realtà, è probabile che altri personaggi avessero superato questo record senza potersene fare un vanto, semplicemente per non aver tenuto un conto preciso degli animali uccisi nel corso della loro attività.
In proposito, si calcola che Bill Tilghman, cacciatore e uomo della legge, ne avesse uccisi 5.000 in un arco di tempo molto minore.
La fortuna di Cody risiedette soprattutto nell’amicizia con lo scrittore Ned Buntline, che ne esaltò le gesta in molti racconti, il primo dei quali comparve sul “New York Weekly” nel 1869, quando l’eroe era appena ventitreenne.

L’O.K. Corral cinematografico
Le diverse pellicole imperniate sulla famosa Sfida all’O.K. Corral, avvenuta a Tombstone nel 1881, contengono – ad eccezione delle più recenti “Tombstone” e “Wyatt Earp” – una miriade di imprecisioni e deformazioni storiche, da “Sfida infernale” di John Ford (1946) a “Sfida all’O.K. Corral” di John Sturges (1957). Nel primo, compare Old Man Clanton a dar man forte agli scellerati figli Ike e Billy nel fatale confronto con gli Earp, mentre nella realtà il vecchio era già morto. Inoltre, John “Doc” Holliday, che si spense in un sanatorio sei anni dopo, viene fatto cadere nel corso del duello. Il film di Sturges si presenta maggiormente fedele ai fatti, ma incorre in qualche pecca di troppo, attribuendo il motivo della sfida alla proditoria uccisione del più giovane dei fratelli Earp, Morgan, che fu invece assassinato cinque mesi dopo. Inoltre, il famigerato Johnny Ringo viene ucciso durante la sfida da Holliday, mentre il pistolero non partecipò neppure allo scontro e morì tempo dopo in circostanze misteriose.
Quanto alle somiglianze con i personaggi storici, soltanto Kevin Costner (“Wyatt Earp”) e Kirk Douglas (“Sfida all’O.K. Corral”) diedero un volto credibile ai rispettivi personaggi di Earp e Doc Holliday. La parte di Douglas nel film di Sturges fu una dimostrazione di insuperabile bravura, che nessun altro attore impegnato nelle successive pellicole sull’argomento riuscirà mai ad eguagliare.
Un’altra nota curiosa, è che l’attore-caratterista John Ireland interpretò la parte di Ike Clanton in “Sfida infernale” di Ford, mentre in “Sfida all’O.K. Corral” vestì i panni di Johnny Ringo.

Il west di Emilio Salgari
Emilio Salgari, nato nel 1863 a Verona e morto suicida a Torino a soli 48 anni, è universalmente conosciuto come il padre di Sandokan, Tremal Naik, Kammamuri, personaggi orientali di sua creazione, nonché di una serie di celebri scorridori dei mari, fra i quali primeggia il Corsaro Nero. Non tutti sanno che il grande narratore italiano, autore di decine di romanzi, ambientò alcune delle sue avventure nelle praterie del West, servendosi di personaggi immaginari come il colonnello George Devandel e la terribile Minnehaha. I romanzi del ciclo americano furono, nell’ordine, “Sulle frontiere del Farwest”, pubblicato nel 1908, “La scotennatrice” (1909) e “Le selve ardenti” (1910). Ma la Frontiera descritta da Salgari aveva scarse basi storiche e le vicende descritte dallo scrittore veneto non si possono certo annoverare fra i classici del genere. Anche la descrizione della battaglia di Little Big Horn, contenuta nel libro “La scotennatrice”, è soltanto un palcoscenico di fantasia per i suoi personaggi. Quando l’autore diede alle stampe “Le selve ardenti”, la sua meravigliosa escursione nel fantastico volgeva ormai alla fine. Infatti Salgari, oppresso da molti problemi, si suicidò nel 1911, facendosi harakiri con un rasoio.

La 49ª stella dell’Unione
Alaska è la versione russa della parola aleuta “Al-ay-ek-sa” equivalente a “Grande Paese”. Nel 1741, dopo l’esplorazione compiuta dal danese Vitus Bering, ufficiale della marina degli Zar, il territorio venne annesso dalla Russia e nel 1784 Grigor Ivanovic Shelikoff e la moglie Natalia, fondarono la prima colonia nell’isola di Kodiak, insediandovi 190 persone. Quando il governo degli Stati Uniti incominciò ad interessarsi all’immensa regione, le reazioni delle opposizioni e della stampa che le sosteneva furono simili a quelle che nei primi decenni dell’Ottocento avevano criticato l’acquisizione della Louisiana. Un giornalista battezzò ironicamente “Icebergia” (da “iceberg”) l’inospitale paese in cui “gli abitanti si muovono soltanto con i pattini da neve” e “il 99 per cento del territorio è assolutamente improduttivo.” La trattativa per aggiungere all’Unione quella che sarebbe diventata la sua 49° stella, venne definita “La follia di Seward”, dal nome del segretario di Stato che aveva condotti il negoziato per conto del presidente Andrew Johnson, successore di Abraham Lincoln alla Casa Bianca. Si racconta che, per convincere il Congresso del valore dell’affare in corso, William H. Seward dovette pregare gli stessi Russi di persuadere i parlamentari americani più contrari. L’accordo fu perfezionato nel marzo 1867, al prezzo di 7.200.000 dollari. Il nuovo territorio, esteso oltre 1.500.000 chilometri quadrati (cinque volte la superficie dell’Italia) fu interessato dalla corsa all’oro del 1896 e venne innalzato al rango di Stato membro soltanto nel 1959, stabilendo la sua capitale a Juneau. Oggi l’Alaska, ricca di giacimenti minerari e petroliferi, possiede circa 630.000 abitanti.

Le ultime parole famose… in spagnolo!
Cristopher Carson, detto Kit (1809-1868) e William H. Bonney (1859-1881) meglio noto come il terribile Billy the Kid, lasciarono questo mondo pronunciando frasi in spagnolo, lingua che entrambi conoscevano almeno nelle sue espressioni più comuni, avendo vissuto per vario tempo a contatto con i Messicani.
Il grande esploratore del West, protagonista dell’indipendenza della California dal Messico, generale dei Volontari e agente indiano per i Navajo e gli Ute, si spense all’improvviso il 23 maggio 1868 nei pressi di Fort Lyon, nel Colorado, mentre stava conversando con un compagno dei vecchi tempi. Colpito probabilmente da un infarto, non appena si rese conto di essere giunto al termine della sua vita, disse all’amico: “Adios, compadre!”. Secondo il racconto dell’unico testimone, queste furono le ultime parole di Kit Carson prima di spirare.
Billy the Kid, braccato dalla legge nel Territorio del New Mexico, si rifugiò a Fort Sumner, un presidio ormai evacuato dall’esercito, dove viveva un amico di nome Pete Maxwell. Lo sceriffo Pat Garrett  raggiunse la località la sera del 14 luglio 1881 e si appostò, insieme a due uomini, sotto un porticato. Quando il fuorilegge uscì, a piedi nudi, impugnando un coltello da cucina per tagliare della carne da un bue appena macellato, intravide una figura nella penombra e chiese: “Quien es?”. Quindi, avendo scorto una seconda sagoma, arretrò verso l’abitazione di Maxwell e gli chiese a voce alta in spagnolo: “Quienes son, Pete?” La risposta fu quella della Colt 41 di Pat Garrett, che esplose due colpi contro di lui: il primo centrò il Kid poco sopra il cuore, provocandone la morte immediata. Gli uomini della legge erano stati probabilmente informati da Maxwell, un mezzosangue di madre messicana, che disapprovava la relazione della sorella Paulita con Billy. Quest’ultima però, non appena avvenuta la sepoltura del bandito, scrisse sulla sua tomba: “Duerme bien, querido.”

Conquistadores superstiziosi
Durante le prime esplorazioni spagnole del continente nordamericano, i “conquistadores” si lasciarono spesso affascinare da miti e leggende alle quali prestarono fede ingenuamente.
E’ il caso di Juan Ponce de Leòn, sbarcato in Florida con una spedizione proveniente da Cuba per andare alla ricerca della “fonte dell’eterna giovinezza”. Ma, invece della miracolosa acqua che restituiva il vigore degli anni ormai trascorsi, il vecchio condottiero incontrò le frecce degli Indiani, che decimarono la sua spedizione, costringendola a reinbarcarsi. Ponce de Leòn, mortalmente ferito, riuscì a fare ritorno a Cuba, ma sopravvisse soltanto pochi giorni.


Un drappello di Conquistadores

Francisco Vasquez de Coronado, governatore della Nueva Galicia – una regione del Messico conquistato pochi decenni prima da Hernàn Cortès – si lasciò invece convincere dal racconto di un frate francescano – tale Marcos de Niza – circa l’esistenza delle favolose “Sette Città d’oro di Cibola”, che il religioso asseriva di avere visto con i propri occhi in una lontana regione del nord. L’avventuroso “conquistador” partì nel 1540 da Culiacàn con una colonna di 400 uomini e parecchi cavalli e raggiunse la regione chiamata in seguito Arizona. Dopo i disagi, le malattie e le diserzioni che colpirono la spedizione, Coronado scoprì alcuni villaggi di indiani Pueblo, una tribù di lingua uto-azteca e chiese invano informazioni sulle mitiche città, ottenendo soltanto di essere deriso. La leggenda narra che, avendo lo Spagnolo domandato ad un capo-villaggio indigeno dove avesse visto dell’oro, questi, additando i fregi ricamati sull’armatura di Coronado, gli rispose  “Sulla tua corazza”.

Sterminatrice di indiani
Durante il periodo coloniale, uno dei più cruenti massacri compiuti dagli Indiani fra la popolazione civile fu quello di Haverhill, un villaggio inglese del Massachussets. Il 15 marzo 1697 gli Abenaki, alleati dei Francesi, assalirono il villaggio di sorpresa e vi uccisero 40 abitanti, mutilandoli e scotennandoli orrendamente. Fra le vittime vi fu anche la neonata creatura di Hannah Webster Dustin, una signora presa prigioniera insieme alla sua balia Mary Corliss Neff.
Le due donne vennero trasferite al nord e affidate ad una piccola banda indiana, che le portò su un’isola del fiume Contoocook, nel New Hampshire, a non molta distanza dalla cittadina di Concord. Nonostante i maltrattamenti e la fatica per il lungo viaggio, durante il quale gli ostaggi erano stati fustigati e percossi in continuazione, Hannah e Mary escogitarono un progetto di fuga. Assicuratesi l’appoggio di un ragazzo inglese, Samuel Leonardson, catturato un anno prima dagli Indiani, la notte del 30 marzo attesero che tutti i 12 componenti della banda – 2 guerrieri, 3 squaw e 7 bambini –  si fossero addormentati profondamente accanto ai fuochi. Quindi i prigionieri, armati di tomahawk, bastoni e coltelli, si avventarono sugli ignari Abenaki, colpendo spietatamente prima i due guerrieri adulti, poi le donne e infine anche i bambini. Soltanto una delle squaw, benchè ferita, riuscì a fuggire nella foresta. L’ultima operazione ordinata dalla Dustin fu di scotennare i cadaveri, riponendo le loro capigliature in un sacco, per mostrarle a tutti come prova al ritorno nella colonia. Quindi, l’infernale trio si imbarcò su una canoa e navigò verso la salvezza.
In poche settimane la fama di Hannah, la sterminatrice di Indiani, si sparse in tutto il New England, diventando il simbolo delle coraggiose donne della Frontiera. Un anno dopo la donna, all’età di 39 anni e già madre di 12 figli, dei quali 8 viventi, portò felicemente a termine una nuova gravidanza. Hannah Dustin morì nel 1729, all’età di 70 anni.

“Apaci” o “Apasc”?
Gli Apache devono il loro nome ad una deformazione del termine “Apachu”, utilizzato dagli Zuni Pueblo per indicare un gruppo di tribù, appartenenti al ceppo linguistico Athabaska, stanziate in Arizona, New Mexico e Texas sud-occidentale.
I primi uomini bianchi che vennero a contatto con essi furono i “conquistadores” spagnoli Francisco Vasquez de Coronado nel 1541 e Juan Onate da Zacatecas oltre mezzo secolo dopo. In realtà, il loro nome tribale era “Tin-ne-ah” (Il Popolo). Dopo che il Sud-Ovest venne conquistato dagli Americani, la parola “Apachu” fu trasformata in “Apache” (plurale: Apaches) pronunciata “Apaci”, con la seconda “a” molto vicina alla “e” del nostro alfabeto.
La francesizzazione di questo appellativo, che diventò  “Apàsc” anche nel doppiaggio italiano dei film western, è dovuta al fatto che una banda di ladri parigini (“Les Apaches”) lo adottò nel primo Novecento, ispirandosi proprio alla tribù indiana di Cochise, Geronimo e Victorio.

Cow-Girls
Dopo l’indipendenza del Texas dalla Repubblica Messicana nel 1836, i mandriani della regione, fino ad allora chiamati “vaqueros” alla spagnola, diventarono nel linguaggio corrente i “cow-boys”, parola composta da “cow” (mucca) e “boy” (ragazzo). Il durissimo lavoro di accudienza alle mandrie rimase per decenni riservato agli uomini, essendo ritenuto inadatto alle donne, le quali, tuttavia, verso la fine del XIX secolo cominciarono ad apparire  perfino nei “rodeos”.
Durante una di queste competizioni, svoltasi nel 1900, Lucille Mulhall dell’Oklahoma, colpì l’attenzione di un ospite veramente eccezionale, divenuto un anno più tardi il 25° presidente degli Stati Uniti: Theodore Roosevelt. L’uomo che aveva guidato la travolgente carica dei Rough Riders a Cuba nel 1898, diventando poi vicepresidente  degli USA, volle congratularsi personalmente con la spericolata fanciulla, coniando per lei la definizione di “cow-girl”. Il termine divenne poi di uso comune per indicare le donne-mandriano, anche se la professione rimase prevalentemente maschile.

I trichechi di Matagorda
Fra gli uomini turbolenti che lo sceriffo Wyatt Earp arrestò nel corso della sua carriera, vi fu anche un curioso tipaccio, che possedeva un ricco allevamento di bestiame nel Texas meridionale.
Abel Pierce, meglio noto come “Shangai”, era un elemento barbuto alto circa due metri, del peso di un quintale, temuto in tutte le città del Kansas per la sua reiterata inosservanza delle norme che regolavano la pacifica convivenza. Infatti Earp lo arrestò nel 1874 a Wichita per una serie di violazioni delle leggi cittadine, che andavano dall’ubriachezza molesta agli spari in luogo pubblico.
Ma Shangai Pierce era conosciuto anche per un altro motivo. I suoi allevamenti sorgevano nella Baia di Matagorda, nel Golfo del Messico e le vacche del focoso “ranchero” avevano l’abitudine di bagnarsi a migliaia nelle tiepide acque del mare.
Quando un cow-boy riportò la notizia nel Kansas, i “longhorn” di Pierce furono soprannominati “i trichechi di Matagorda” o anche “i trichechi di Shangai”.

Facce da mezzo dollaro al giorno
Il grande regista cinematografico John Ford amava definire i soldati dei suoi celebri western le “facce da mezzo dollaro al giorno”, alludendo alla misera paga di 50 centesimi al giorno corrisposta dal governo americano, oltre al vitto e all’alloggio, ai militari semplici.
Lo stipendio non variava di molto per i caporali e diventava doppio soltanto al raggiungimento del grado successivo, ma la differenza di retribuzione era comunque abissale rispetto agli ufficiali. Infatti, un sottotenente di prima nomina, percepiva già 100 dollari mensili. I graduati di truppa (caporali) potevano proseguire la carriera con l’avanzamento a sergente (nell’esercito statunitense non esistono né il grado di caporalmaggiore, né i vari livelli di maresciallo) che permetteva ulteriori progressioni (primo sergente, sergente maggiore, master-sergeant, ecc.) ma la paga prevista per il più alto grado di sottufficiale non superava, intorno al 1870, i 35 dollari al mese.
Parecchi sceriffi dell’epoca più turbolenta del West guadagnavano invece da 100 a 200 dollari e l’esploratore Buffalo Bill ne percepiva già 150 facendo lo scout dell’esercito nel 1867-68. Nel periodo in cui lavorò come abbattitore di bisonti per i fratelli Goddard di Kansas City, raggiunse addirittura i 500 dollari mensili.

Le “Soddy Houses”
Le linde baracche in legno che compaiono nei film western furono per molto tempo un ’eccezione nei territori in via di colonizzazione, un lusso che soltanto persone benestanti come  gli allevatori John Chisum o Shangai Pierce potevano permettersi.
Le maggior parte delle case costruite dai pionieri nelle praterie comprese fra il fiume Mississippi e le Montagne Rocciose, una regione piuttosto brulla, prendevano solitamente il nome di “soddy-houses”, cioè “case di zolle”.


Una tipica “soddy house”

L’intelaiatura di sostegno era formata da tronchi d’albero ed il pavimento non aveva alcun rivestimento, essendo quasi sempre in terra battuta. Nelle abitazioni con pareti di tronchi allineati e sovrapposti, le fessure dei muri venivano sigillate con fango, argilla o paglia.
Il particolare più curioso riguardava comunque il tetto, ricoperto interamente di zolle erbose, che durante i temporali si inzuppavano, lasciando colare acqua e fanghiglia all’interno dell’abitazione.
Le “soddy- houses” caratterizzarono la vita del colono almeno fino agli inizi del XX secolo. La diffusione delle ferrovie nel West permise infatti, dal 1880 in poi, di trasportare grandi quantità di legname nelle zone che ne erano sprovviste.

Il marmo del Nebraska
I pionieri delle Grandi Pianure, che conducevano un’esistenza misera,  esposti ad ogni genere di pericoli – bufere, attacchi indiani, rapine commesse da bande di malviventi, ecc. – possedevano un notevole senso dell’umorismo: infatti il materiale impiegato per costruire le “soddy-houses”, era chiamato ironicamente “Marmo del Nebraska”. Si trattava di comuni zolle, tagliate e squadrate a forma di mattone e poi sovrapposte in maniera regolare per formare le pareti dell’abitazione.
Nonostante la precaria consistenza del materiale usato, in qualche caso si potevano realizzare costruzioni di dimensioni notevoli, come quella eretta nel 1884 dal belga Isadore Haumont, tanto sicura ed imponente da somigliare ad un piccolo castello.

Winchester fuori luogo
Benchè il cinema western vanti l’indiscusso merito di avere diffuso in tutto il mondo la storia della Frontiera americana, facendo conoscere i suoi celebri protagonisti anche nei paesi più isolati della Terra, ha contributo non poco ad offrire una falsa immagine di quel periodo storico.
L’accusa più frequentemente mossa al genere è di avere romanzato eccessivamente le vicende relative alla conquista del West, alterando  biografie, eventi e date per soddisfare il proprio bisogno di spettacolarità.
In effetti, le inesattezze presenti in numerosi film – talvolta assai noti – danno ragione a chi sostiene che il western fece spesso a pugni con l’autentica storia del West.
“I Comancheros” di Michael Curtiz, per esempio, è uno dei più apprezzati film degli Anni Sessanta, ma contiene un’imprecisione assai grave. John Wayne e i suoi Texas Rangers si servono infatti di fucili a ripetizione con caricamento a leva per fare strage di indiani Comanche.
In realtà, a quell’epoca (i primi Anni Quaranta dell’Ottocento) non esistevano ancora armi di questo tipo, inventate diversi anni dopo.

Sua Maestà George Washington
Pochi giorni dopo la vittoria degli insorti americani contro le truppe inglesi dell’ammiraglio Cornwallis, nell’ottobre 1781, una delegazione di ufficiali dell’armata insurrezionale si recò dal generale George Washington, loro comandante supremo, per congratularsi del brillante successo che coronava la conquista dell’indipendenza. Uno di essi, parlando a nome di tutti, offrì al famoso piantatore virginiano, divenuto eroe nazionale, la corona del nuovo Stato indipendente, chiamandolo “maestà”. Infatti, secondo le aspirazioni di molti politici e militari, Washington avrebbe dovuto diventare il nuovo sovrano delle ex colonie liberate, magari assumendo il nome di Re Giorgio I d’America. Invece, il grande condottiero replicò in maniera del tutto inattesa, chiedendo di essere chiamato semplicemente “Mister Washington”. Alcuni anni dopo, concluso il conflitto e fondati finalmente gli Stati Uniti d’America, l’ex comandante in capo dei ribelli americani accettò di malavoglia di diventare il primo presidente degli Stati Uniti. Washington fu eletto il 16 aprile 1789, all’età di 57 anni e raggiunse in carrozza la capitale di allora, New York. Rieletto nel 1794, si ammalò di una forma influenzale tre anni dopo e morì il 14 dicembre 1797. In suo onore, gli Americani costruirono la nuova capitale – Washington – a poca distanza da Mount Vernon, la località della Virginia dove il padre della patria possedeva la tenuta di famiglia.

Bisonti… esagerati!
Quando ebbe inizio la colonizzazione delle Grandi Pianure situate ad ovest del fiume Mississippi, cacciatori di pellicce, commercianti e militari tentarono più volte di ricavare stime precise sulla consistenza numerica dei bisonti, effettuando appostamenti e rilevazioni in diverse regioni.
Tuttavia, queste statistiche, effettuate in maniera poco sistematica e con metodi abbastanza approssimativi, non diedero quasi mai risultati credibili.


Una mandria di bisonti

Durante una delle rilevazioni, condotte dal generale Philip Henry Sheridan nel 1866, risultò addirittura che nell’area compresa tra Fort Dodge (Kansas) e Camp Supply (Oklahoma) si trovavano 10 miliardi di bufali, cifra poi abbassata ad un miliardo, sebbene ancora enormemente esagerata.
In realtà, al termine della Guerra Civile non erano rimasti, nel territorio degli Stati Uniti d’America, più di 10 o 15 milioni di esemplari, che si ridussero, dopo l’arrivo delle ferrovie nel West, a meno di 1.100 secondo il censimento del dottor W.T. Hornaday, nel 1889. Grazie all’intervento delle autorità governative e soprattutto per merito della Società Americana del Bisonte, mezzo secolo dopo la presenza di questo animale, tanto prezioso per l’economia tribale degli Indiani, aveva raggiunto il rassicurante numero di 25.000 capi.

L’umiliazione di Santa Anna
Antonio Lopez de Santa Anna, nato nel 1795, dominò per mezzo secolo la storia politico-militare del Messico, assurgendo a personaggio di primo piano fin dal 1823, quando la giovane repubblica stava ancora cercando di strappare il cordone ombelicale che la legava alla Spagna. Diventato presidente del nuovo Stato nel 1833, si trovò a dover fronteggiare il problema dell’insurrezione del Texas, incorporato nella regione messicana di Coahuila, ma abitato prevalentemente da coloni di lingua inglese provenienti dal Kentucky e dal Tennessee.?Dopo avere invaso nel 1836, alla testa di 4.000 uomini, il territorio ribelle e distrutto gli avamposti texani di Goliad e Alamo, il generale venne sbaragliato dall’esercito di Sam Houston, in notevole inferiorità numerica, a San Jacinto. La battaglia rappresentò un’umiliazione cocente sia per l’esercito messicano – composto da 1.200 soldati – che per il presidente-dittatore. Infatti, dopo che gli 800 Texani di Houston ebbero sconfitto e messo in fuga l’armata avversaria, Santa Anna venne fatto prigioniero insieme a buona parte delle sue truppe.


La resa del generale Santa Anna

Si narra che, per non essere riconosciuto dalle truppe di Houston, avesse indossato la divisa di un soldato, cercando di mescolarsi agli uomini catturati, ma l’incauta esclamazione di uno di essi – che si lasciò sfuggire, a voce alta: “El Presidente!” – lo tradì. Condotto davanti a Sam Houston ed al suo stato maggiore, cercò poi di sminuire le proprie responsabilità, dicendo di avere agito “per conto del proprio governo”. Naturalmente non venne creduto e il 14 maggio 1836 fu obbligato a riconoscere l’indipendenza formale del Texas, che proclamò la “Repubblica della Stella Solitaria”. Nel dicembre 1845 il nuovo Stato entrò a far parte dell’Unione. Quanto a Santa Anna, sarebbe rimasto sulla scena da protagonista ancora per diverso tempo, partecipando a tutti i maggiori eventi della storia del suo Paese fino al 1867, anno in cui il presidente Benito Juarez lo esiliò per avere complottato contro di lui. Il “massacratore di Alamo”, come la stampa statunitense lo aveva battezzato, potè rientrare in patria nel 1874 e morì due anni dopo, all’età di 81 anni.

Rio Bravo
Uno dei più celebri western di John Ford è “Rio Grande”, prodotto nel 1950 (attori: John Wayne e Maureen O’Hara) e ritenuto il completamento ideale della cosiddetta “trilogia militare”, della quale facevano parte “Il massacro di Fort Apache” (1948) ed “I cavalieri del Nord Ovest” (1948) sempre interpretati da John Wayne.?Poiché in Italia il film venne distribuito con il titolo di “Rio Bravo”, quando Howard Hawks diresse nel 1956 una pellicola con lo stesso titolo, questa venne ribattezzata “Un dollaro d’onore” e fu anch’essa un grande successo. Ancora una volta la parte principale venne interpretata da John Wayne, affiancato da Dean Martin, Walter Brennan e Ricky Nelson, mentre Angie Dickinson – l’attrice proclamata “le gambe d’oro d’America” – recitò il ruolo di una giocatrice professionista innamorata dello sceriffo Chance (Wayne).

Gli indiani di Costner
Kevin Costner balzò prepotentemente alla ribalta nel 1990, con il film “Balla Coi Lupi”, di cui era produttore, regista e interprete principale. L’opera, costata 18 milioni di dollari e vincitrice di ben 7 premi Oscar, venne tratta dal libro “Dances With Wolves”, pubblicata da Michael Blake nel 1988. Il film ricalca abbastanza fedelmente la trama del libro, ma Costner preferì sostituire agli indiani Comanche del lavoro letterario i Lakota Sioux. Per rendere più credibile l’avventura del tenente John W. Dunbar fra i Pellirosse, il regista si avvalse della collaborazione di Albert White Hall, docente di lingua e cultura lakota, che curò la traduzione dei dialoghi nell’idioma tribale originario.

L’albero frusciante
Il “Populus Sargenti”, un pioppo americano dalla chioma più ampia rispetto alla specie europea, veniva indicato dai Lakota con il nome di “Wagachun”, che significa “albero frusciante”. La pianta era inoltre considerata sacra da questi Indiani, perché ritenevano che lo stormire delle sue fronde equivalesse ad una preghiera innalzata al Grande Spirito. Ma vi erano, secondo i Sioux, altri motivi che confermavano la sacralità dell’albero. Le sue foglie ricordavano la forma del “teepee” (la tenda conica) e la sezione del tronco recava un disegno molto simile a quello di una stella a cinque punte.?Il “Wagachun” poteva essere tagliato soltanto con un apposito rituale e veniva eretto al centro della capanna predisposta per la Danza del Sole, cerimonia comune a molte tribù delle praterie occidentali.

Indiani sul grande schermo
Nella cinematografia western tradizionale, le parti di capi o importanti guerrieri indiani furono quasi sempre assunte da attori di razza bianca o, assai più raramente, da meticci, mulatti o uomini dalla pelle nera.?Mentre i vari Anthony Quinn, Victor Mature, Burt Lancaster, Chuck Connors comparivano sullo schermo dei panni di Mano Gialla, Cavallo Pazzo, Massai o Geronimo, il nero Woody Strode, uno degli attori preferiti dal regista John Ford (memorabile la sua interpretazione del sergente Rutledge nel film “I dannati e gli eroi” del 1960) impersonava il capo Comanche Orso di Pietra in “Cavalcarono insieme”, sempre di Ford (1961).?In epoca più recente il western si è invece servito spesso di autentici nativi per i ruoli più significativi. Basti ricordare il celebre “Balla Coi Lupi” di Kevin Costner (1990) nel quale la parte di Uccello Scalciante è interpretata dall’Irochese Graham Greene e quella del capo Dieci Orsi da Floyd Red Crow Westerman, un vero Sioux. In altri due notissimi film moderni – “L’ultimo dei Mohicani” di Michael Mann (1992) e “Geronimo”, di Walter Hill (1993) – l’attore Cherokee Wes Studi ha impersonato rispettivamente il perfido capo-guerriero Urone Magua ed il famoso condottiero Apache Geronimo.

Seminole dimenticati
Nei conflitti contro i Bianchi, i Seminole della Florida furono senz’altro fra gli Indiani più ostinati d’America, sostenendo almeno tre guerre vittoriose contro le truppe statunitensi. La tenace resistenza opposta dalla tribù di Osceola, rifugiatasi all’interno delle paludi dell’Everglades per sfuggire alla serrata caccia degli Americani, non suscitò tuttavia molto interesse nei cineasti, che preferirono più spesso celebrare le gesta dei Sioux, dei Cheyenne o degli Apache.?Tra i pochissimi film dedicati ai Seminole, due meritano una particolare menzione. Il primo, di Raoul Walsh (1951) è “Tamburi Lontani” (titolo originale: “Distant Drums”) che vide l’intensa partecipazione di un Gary Cooper in piena forma (il capitano Quincy Wyatt) affiancato da Mari Aldon, Richard Webb e Arthur Hunnicutt. La storia è ambientata nel 1841, all’epoca della terza guerra seminole. Il secondo, meno conosciuto e intitolato semplicemente “Seminole”, fu girato invece dal regista Budd Boetticher nel 1953 ed ebbe come interpreti Rock Hudson (tenente Caldwell) Barbara Hale ed Anthony Quinn, quest’ultimo nella parte del capo Osceola, che umilia la presunzione degli Americani lanciati alla conquista del suo territorio.

Sacajawea
Sacajawea, la giovanissima indiana shoshone sposata al trapper canadese Toussaint Charbonneau, fu la preziosissima guida che permise alla spedizione di Meriwether Lewis e William Clark di portare a termine con successo la prima traversata transcontinentale nel 1804-06, esplorando l’immenso territorio della “Grande Louisiana” ceduto dalla Francia agli Americani nel 1803. Secondo alcune dicerie, la squaw diventò pure, nel corso del lungo viaggio attraverso montagne, praterie e fiumi, l’amante del capitano Clark, che più tardi si sarebbe preso cura di un figlio dell’Indiana.
Ancora più incerta è invece la data della morte di questa coraggiosa Indiana. La maggior parte dei resoconti collocano la sua scomparsa, a causa di un’epidemia, nel 1812, quando Sacajawea doveva avere soltanto 24 anni. Altre fonti sostengono invece che la donna morì di morte naturale molto più tardi, addirittura nel 1884, quando aveva circa 96 anni.
 
Mackenzie, il migliore
Se Ulysses Simpson Grant e George Armstrong Custer ebbero un curriculum militare alquanto discusso – il primo a causa della smodata passione per gli alcolici, il secondo per l’indisciplina – Ranald Slidell Mackenzie venne giudicato dallo stesso Grant “il più promettente giovane ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti”. Nato a New York nel 1840 e classificatosi al primo posto (Custer era stato invece il 34° del suo corso, cioè l’ultimo in assoluto) all’Accademia Militare di West Point, Mackenzie fu colonnello dei Volontari durante la Guerra Civile e comandò il Quarto Cavalleria regolare dopo il conflitto, distinguendosi spesso nelle campagne contro gli Indiani. Determinato fino all’eccesso, causò anche un incidente diplomatico con il governo messicano per avere sconfinato nel 1873 e distrutto, al di là del Rio Grande, un villaggio indiano. Nel 1876, richiamato al nord dal generale Philip Sheridan dopo gli insuccessi di Crook e Custer nella campagna contro Sioux e Cheyenne, distrusse un accampamento di questi ultimi al Willow Creek. Ottenuto il brevetto di maggior generale dei Volontari e più avanti quello di brigadier generale dell’esercito regolare, fu colto da pazzia e collocato a riposo a soli 44 anni. Si spense vicino a Staten Island (New York) nel 1889.

Donne dissolute
Le donne della Frontiera che la leggenda e soprattutto il cinema trasformarono spesso in eroine o presentarono come vittime delle circostanze non furono sempre meritevoli di comprensione, almeno a giudicare dalle numerose prove storiche che le presentano sotto un aspetto assai diverso.
Calamity Jane
Martha Jane Canary, nota come Calamity Jane, fu un personaggio volgare e trasgressivo, dedito all’alcool e alla prostituzione, innamorata soltanto – secondo quanto scrisse lei stessa – del famoso sceriffo James Butler “Wild Bill” Hickok, che peraltro smentì di averla mai frequentata. E’ certo che Calamity ebbe relazioni, più o meno occasionali, con vari uomini e donne che le capitò di conoscere, lavorò in qualche bordello e non pose limiti ai propri eccessi. Morì cieca nel 1903, alla presumibile età di 55 anni. Myra Belle Shirley, nata nel 1860 nel Missouri, fece anche di peggio, ponendosi alla testa di una gang che per alcuni anni imperversò alla Frontiera. Prostituta e poi amante di Coleman Younger, membro della banda di Jesse James, ebbe da lui la figlia Pearl, ma si unì in seguito a Jim Reed, al bandito pellerossa Anatra Blu e al cherokee Sam Starr, partecipando ad una serie di furti e rapine nel Territorio dell’Oklahoma. Incriminata nel 1883 come capobanda della cricca criminale, ottenne una mite condanna a soli nove mesi di reclusione. Di nuovo processata e assolta per insufficienza di prove e rimasta vedova nel 1886, si mise insieme all’indiano creek Jim July, con il quale continuò imperterrita la sua esistenza da fuorilegge, finendo ricercata dagli sceriffi con una taglia di 5.000 dollari sulla sua testa. Ritiratasi, si fa per dire, “a vita privata” Belle fu assassinata a soli 39 anni nel 1889, pare per la vendetta di un vicino di casa con cui aveva litigato. Del delitto venne però sospettato anche il figlio Edward, nato dall’unione di Myra Belle con Reed, che l’avrebbe uccisa perché stanco della relazione incestuosa a cui la madre lo obbligava da tempo.

I neri nel western
Il cinema western nacque per celebrare le gesta degli Americani di razza bianca che colonizzarono la Frontiera, ma si accorse, quand’era ancora agli albori, dei Pellirosse e dei loro problemi, soprattutto per merito di registi come Thomas H. Ince e David W. Griffith. Invece gli uomini dalla pelle nera non diventarono veri e propri protagonisti nel cinema fino agli Anni Sessanta del Novecento, dopo avere fatto in precedenza da contorno alle diverse vicende narrata in “Via col vento”, “Joe Bass, l’implacabile” o “L’uomo che uccise Liberty Valance”. Una delle prime fiction che rese giustizia ai Negri fu il monumentale “I dannati e gli eroi” di John Ford (titolo originale: “Sergeant Rutledge”, 1960) imperniato sul processo a Braxton Rutledge, sottufficiale di colore del Nono Cavalleggeri accusato indiziariamente di avere violentato e ucciso una ragazza bianca in un presidio del West. Il ruolo principale venne assunto dal bravissimo Woody Strode, che interpretò da grandissimo attore il dramma vissuto, con estrema dignità, da una razza discriminata. Per molti aspetti, questo film rappresentò il riscatto degli ex schiavi, disprezzati figli minori di un’America che li arruolava nell’esercito per portare la civiltà nel West. ?Meno apprezzabile il tentativo di Mario Van Peebles, nel 1993, di riportare i Neri alla ribalta con “Posse. La leggenda di Jessie Lee” (titolo originale: “Posse”) interpretato dallo stesso regista ed ambientato subito dopo la Guerra Ispano-Americana del 1898. Benchè spettacolare ed avvincente, il film non raggiunge mai il pathos di “Sergeant Rutledge” e finisce per diventare apologetico e forzatamente celebrativo, quando non scade apertamente nella velleitarietà.

Perché li chiamarono “Yankee”
Molti vocaboli di uso corrente nella lingua americana hanno un’origine incerta, come la parola “yankee”, usata negli Stati del Sud per indicare i Nordisti dell’Unione al tempo della guerra di secessione. I popoli latini, primi fra tutti i Messicani, imitati anche da quelli del Centro e Sud America, battezzarono spregiativamente “yankee” tutti i cittadini degli Stati Uniti, chiamati anche “Americanos” o “Gringos”. Quanto all’origine remota del termine, si sostiene derivi dall’errata pronuncia che qualche tribù algonchina fece della parola “English”, al tempo in cui i Puritani inglesi sbarcarono nel Massachussets.

Gli indiani Kootenay
I Kootenay, di ceppo etnico-linguistico algonchino, si trasferirono dalle loro sedi orientali degli Stati Uniti e del Canada verso occidente intorno al XVIII secolo, come i Cheyenne, i Piedi Neri e gli Arapaho. Insediatisi fra la Columbia Britannica, l’Idaho ed il Montana, assimilarono la cultura del gruppo linguistico salishan, al quale appartenevano i Cayuse, i Flathead, gli Spokane ed un’altra ventina di tribù. In poco tempo, i Kootenay abbandonarono l’idioma degli Algonchini, incominciando a parlare quello dei Salish, tanto da essere spesso confusi con le popolazioni di questa etnia. Nemici dei Piedi Neri, dai quali peraltro discendevano, non superarono mai i 1300 componenti e quando la colonizzazione americana raggiunse il Nord-Ovest, vennero concentrati in una riserva del Montana, insieme ai Flatehead (Teste Piatte).

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