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L’attacco di Pancho Villa a Columbus

A cura di Francesco Lamendola


Un episodio poco conosciuto in Europa è quello dell’attacco lanciato dal rivoluzionario messicano Francisco Villa contro la cittadina statunitense di Columbus, nel New Mexico, la notte del 9 marzo 1916. Tale incursione, che provocò 16 o, secondo altre fonti, 18 morti fra la guarnigione e la popolazione civile, provocò una spedizione punitiva guidata dal generale Pershing che per mesi setacciò le sierras del Messico settentrionale alla vana ricerca di Villa, sulla cui testa era stata posta una taglia di 5.000 dollari.
Alle origini dell’episodio vi furono le ambiguità della politica del presidente Woodrow Wilson, prima amico e sostenitore di Villa ma che poi, bruscamente, riconobbe quale legittimo presidente messicano il suo acerrimo nemico Venustiano Carranza; e, pare, l’avidità di un mercante d’armi americano che, contrariamente ai patti, pretese di esserre pagato dai villisti in oro, e ciò proprio quando le brucianti vittorie militari del generale Obregon sulla “Division del Norte” di Villa avevano inferto a quest’ultimo un colpo dal quale non si sarebbe mai più ripreso.
Gli amanti del cinema che hanno visto “Cordura”, un film di Robert Rossen girato nel 1959 e interpretato da Gary Cooper e Rita Hayworth – film rudemente maltrattato dalla critica (1) e snobbato dal pubblico, tanto che costò una perdita milionaria alla casa produttrice -, forse ricorderanno che il protagonista, il maggiore Thorn, cerca di riscattarsi da un episodio di viltà: la fuga davanti ai Messicani che avevano compiuto una fulminea incursione sulla cittadina di Columbus, infrangendo il mito dell’inviolabilità militare degli Stati Uniti d’America.


Columbus prima dell’attacco di Villa

L’attacco alla cittadina americana non faceva parte della trama, ma veniva solo rievocato nel racconto del protagonista alla sua inattesa compagna di viaggio, una avventuriera sospettata di fare la spia dei Messicani (anch’ella desiderosa di redenzione) interpretata dalla splendida Hayworth.
Ebbene si trattava di un episodio storico assolutamente vero, anche se pochissimo conosciuto, maturato da un lato nel contesto delle complesse vicende della rivoluzione messicana che divampò fra il 1910 e il 1920 circa; dall’altro in quello delle difficili relazioni diplomatiche fra Messico e Stati Uniti, con un presidente Wilson ondeggiante fra il sostegno ai “convenzionalisti” di Villa e Zapata e quello ai “costituzionalisti” di Carranza e Obregon. (2)
Presuntuoso, arrogante, testardo, Wilson mostrò, come diplomatico, gli stessi difetti che sarebbero emersi alla Conferenza di Versailles quando sederà fra i “quattro grandi” vincitori della prima guerra mondiale. In quel caso si sarebbe reso responsabile di almeno due gravi errori: l’aver voluto distruggere l’Austria-Ungheria, lasciandosi influenzare dal neo-presidente ceco Thomas Masaryk, che chiese e ottenne l’annessione dei Sudeti con 3 milioni di cittadini di lingua tedesca; e l’aver scavalcato il governo italiano quando, durante il ritiro di Orlando e Sonnino da Parigi, decise di rivolgersi direttamente al popolo italiano per spiegare il trattamento riservata all’Italia durante la conferenza (anche in questo sotto l’influenza dei nazionalisti croati, da lui ascoltatissimi).


Columbus durante l’attacco di Villa

Entrambi gli errori avrebbero contribuito in larga misura a creare le premesse della seconda guerra mondiale.
L’ultima invasione militare straniera sul territorio degli Stati Uniti d’America non è stata, pertanto – come molti credono – quella inglese a New York e New Orleans, durante la guerra anglo-americana del 1812-15, bensì – esattamente un secolo dopo – quella di Francisco Villa (noto come “Pancho”), alias Doroteo Arango, nel marzo del 1916. Obiettivo: la modesta cittadina di Columbus, nel sud della Nuovo Messico, sede di una guarnigione dell’esercito americano. Sconfitto dall’esercito di Obregon nelle battaglie campali di Celaya, Leon e Agua Prieta nel corso del 1915 e costretto ad abbandonare, dopo Città del Messico, una dopo l’altra tutte le sue posizioni nel nord del Paese, Villa aveva vissuto come un affronto personale la decisione del presidente americano, Woodrow Wilson, di riconoscere Venustiano Carranza quale nuovo presidente del Messico, dopo che, in un primo tempo, era sembrato intenzionato a riconoscere lui stesso, Villa, quale legittimo erede dell’assassinato presidente Francisco Madero.


Una delle immagini di Columbus dopo il passaggio dei guerriglieri

Maturò in questo modo, nell’animo fiero del rivoluzionario messicano e comandante dell’ormai distrutta “Division del Norte”, l’idea di vendicarsi del governo di Washington e, al tempo stesso, di un fornitore d’armi statunitense che non aveva rispettato i patti, negandogli quanto promesso proprio nel momento più critico, e che risiedeva proprio a Columbus, vicino all’incandescente frontiera tra i due Stati. L’attacco durò poche ore ma causò notevoli danni e, soprattutto, provocò una fortissima impressione nell’opinione pubblica americana, che si chiese come fosse stato possibile che un “mexican bandit” (così viene definito, ancor oggi, nella «The American Peolple’s Encyclopedia» potesse impunemente attraversate la frontiera con alcune centinaia di ‘bandidos’, incendiare e saccheggiare una cittadina statunitense presidiata dall’esercito, uccidere poco meno di venti cittadini e poi ritirarsi indisturbato, sparendo altrettanto velocemente di come era apparso.


I morti di Columbus lungo le strade

L’orgoglio nazionale ferito reclamava vendetta. Così il governo americano, col consenso del neo-presidente Carranza, varcò la frontiera con un massiccio corpo di spedizione, formato da 6 squadroni di cavalleria, quattro reggimenti di fanteria e un distaccamento d’artiglieria, al comando del generale Pershing: lo stesso che, l’anno dopo, sarebbe stato incaricato di guidare il corpo di spedizione in Francia, per partecipare alla prima guerra mondiale contro la Germania.
Per settimane le truppe statunitensi, ben 15.000 uomini in tutto, percorsero vallate e deserti, valicarono montagne e setacciarono villaggi e rifugi naturali, con l’ordine di trovare e catturare, vivo o morto, il famoso capo guerrigliero. Una formidabile taglia di 5.000 dollari venne posta sul suo capo. Ma nessuno riuscì mai a intascarla.
Rimasto praticamente solo, ferito, Pancho Villa non fu tradito dai suoi” peones” e sfuggì alla cattura, tanto che alla fine l’esercito americano, umiliato e sempre più in difficoltà col governo di Carranza, dovette ripassare la frontiera senza nulla avere concluso. L’autore del raid su Columbus rimase impunito. Del resto, ormai gli Stati Uniti avevano ben altro a cui pensare: dopo la decrittazione del famoso “telegramma Zimmermann”, in cui l’ambasciatore tedesco riceveva istruzioni da Berlino di offrire a Carranza armi e denari per cercare di riprendersi le terre perdute del Texas, nel 1836, e dell’Arizona e del Nuovo Messico, nel 1848, con il trattato di Guadalupe-Hidalgo (3), la guerra con la Germania e l’Austria-Ungheria pareva ormai inevitabile. (4)


Le macerie di Columbus

E un milione di soldati americani sarebbero stati gettati sui campi di battaglia francesi per assicurare la vittoria all’Intesa. Anche in questo caso, la storia si ripete: come accadrà di nuovo nel 1941, la finanza americana non poteva certo permettere, nel 1917, che una eventuale sconfitta della Gran Bretagna rendesse inesigibili i cospicui prestiti che Wall Street aveva fatto ai colleghi della City londinese. E ciò a dispetto del fatto che Wilson avesse impostato la campagna elettorale per la sua rielezione alla presidenza sul motivo di un categorico rifiuto a portare gli Stati Uniti nella prima guerra mondiale. (5)

Note

  1. Paolo Mereghetti, lapidariamente, parla di “smitizzazione della retorica militare in un film verboso e con poca azione” (Il Mereghetti, ed. 2.000, Milano, baldini & Castoldi, ) p. 434, giudizio col quale non concordiamo perché l’opera, a nostro avviso, pur con taluni innegabili difetti, svolge una riflessione di ruvida sincerità sul binomio eroismo/vigliaccheria, e sia la sceneggiatura che gli interpreti sono all’altezza del compito che il regista si è dato.
  2. Cfr. Lamendola, Francesco, Un’infamia operaia: i «battaglioni rossi» antizapatisti, 1915-16, in Umanità Nova del 23 aprile 1989; e Lamendola, Francesco, Messico 1915: e se il popolo non ci segue, in Umanità Nova, del 6 maggio 1989.
  3. Sulla vicenda diplomatica del “telegramma di Zimmermann” si veda Silvestri, Mario, La decadenza dell’Europa occidentale, Milano, Rizzoli, 2002 (2 voll.), I, pp. 313-17. Riportiamo qui il testo completo del dispaccio: “Da Berlino a Wahington. W 158, 16 gennaio 1917. Segretissimo. Per informazione personale di vostra Eccellenza [Bernstorff, ambasciatore tedesco a Washington] e per essere trasmesso per la via più sicura al rappresentante imperiale a Mexico [von Eckhardt]. Il 1° febbraio abbiamo intenzione di scatenare la guerra sottomarina a oltranza. Tenteremo, ciò malgrado, di mantenere gli Stati Uniti nella neutralità. In caso contrario, facciamo al Messico una proposta di alleanza sulle basi seguenti: fare insieme la guerra, fare insieme la pace, generoso appoggio finanziario, restando inteso che il Messico debba recuperare i territori perduti del Texas, del Nuovo Messico e dell’Arizona. La definizione dei particolari è lasciata alla sua iniziativa. Lei informerà di quanto sopra il presidente del Messico con la massima segretezza, non appena l’entrata in guerra degli Stati Uniti sarà certa e gli suggerirà inoltre di invitare di sua iniziativa il Giappone a dare la sua adesione, opponendo nel frattempo la sua mediazione fra il Giappone e noi. Voglia attirare l’attenzione del Presidente sul fatto che l’impiego a oltranza dei nostri sottomarini offre ora la possibilità di obbligare l’Inghilterra a deporre le armi in pochi mesi. Accusi ricevuta. (Firmato:) Zimmermann [il ministro degli Esteri tedesco].”
  4. Scrive, un po’ ingenuamente, Renato Rinaldi in Storia degli Stati Uniti d’America, Roma, Armando Curcio Editore, 1963 (2 voll.), I, p. 438: “Il 1° marzo [1917] l’affare era di pubblico dominio. La Germania per suo conto confermò la notizia e non si curò di attutirne gli effetti. L’insidia tedesca scosse profondamente l’opinione pubblica: le reazioni furono tali da travolgere ogni programma prudenziale di Wilson. Il pericolo del militarismo prussiano apparve da vicino nei suoi foschi colori: la Germania era deliberata a reprimere con la forza la libertà dei mari e, in previsione delle naturali reazioni americane, essa preparava l’insidia, la minaccia, profittando di ogni focolaio di discordia per far divampare la guerra. L’ostilità tedesca era rivolta contro i punti più delicati della politica degli Stati Uniti: la libertà dei mari, la Dottrina di Monroe, tradizionalmente contraria a ogni ingerenza europea nel continente americano.” Il minimo che si possa dire di questa prosa è che essa presenta le ragioni particolari dell’imperialismo americano come “verità” storica assolutamente obiettiva. Non si dice che quella famosa “libertà dei mari” significava, in pratica, la libertà della flotta britannica di ridurre alla fame le popolazioni dell’Europa centrale, mediante il blocco marittimo; né che la ‘dottrina di Monroe’ esigeva che solo gli Stati Uniti potessero interferire e spadroneggiare negli affari interni dei Paesi latino-americani. E infatti già nel 1914, durante il breve e sanguinario regime di Victoriano Huerta (succeduto a Madero dopo gli intrighi dell’ambasciatore americano, che ne avevano provocato l’assassinio) l’esercito statunitense era sbarcato a Veracruz, violando la sovranità del Messico.
  5. Perfino gli storici S. E. Morison e H. S. Commager, nella loro tendenziosa Storia degli Stati Uniti d’America (Firenze, La Nuova Italia, 1974, 2 voll., II, p. 629, ammettono che la campagna presidenziale del 1916 fu giocata da Wilson al motto: “è lui che ci ha mantenuti fuori della guerra”, per poi rovesciare tale indirizzo neutralista non appena rieletto.

Riportiamo qui alcuni brani di testi relativi all’attacco di Pancho Villa su Columbus, argomento generalmente poco conosciuto fuori del Messico e degli Stati Uniti e sul quale la bibliografia in lingua italiana è molto limitata. Dal loro confronto il lettore potrà formarsi una propria idea su quel lontano e semi-dimenticato episodio, il cui maggior interesse, oggi, risiede appunto nelle analogie con altri eventi e altri luoghi, a noi più vicini, e negli spunti di attualità che se ne possono ricavare.


Pancho Villa ritratto insieme ai suoi uomini

Documento n. 1
William Douglas Lansford, Pancho Villa, 1965; trad it. Milano, Della Volpe Editore, 1967, pp. 237-39.
“Quando la ritirata dei sopravvissuti urlanti e incespicanti fu finita, 2.000 villisti tra morti e feriti giacevano sul campo davanti alle trincee di Agua Prieta. Distrutto con l’aiuto americano, preso di sorpresa dalla crescente potenza delle forze di Obregon nel Sonora, a Villa non rimaneva che un’unica via d’uscita: riprendere ancora una volta la marcia estenuante sulle nevi delle Sierras e, questa volta, nel pieno dell’inverno. Senza indumenti adeguati e senza fuoco per scaldarsi, uccidendo i cavalli esausti per cibarsene, abbandonando le armi e i compagni assiderati dove cadevano, i disgraziati sopravvissuti riuscirono a ritornare a Chihuahua. &.500 uomini erano partiti tre mesi prima per il Sonora. Ne erano tornati meno di 600.
“Credendo che Pancho Villa fosse morto e il suo esercito distrutto dai carranzisti e dai rigori del tempo, il grosso dell’esercito che aveva lasciato dietro di sé si era disperso. Le riserve di rifornimento erano finite. Le sue guarnigioni, una volta potenti roccaforti sparse per tutto il nord, stavano crollando a una a una. I suoi generali Natera, Quijanoi, banda, Limon, Persino Fidel Avila e Joaquin Terrazas avevano trovato condizioni di resa. Le loro brigate e i loro reggimenti non esistevano più. Con un sol colpo gobbo Guadalupe, San Ignacio, Villa Ahumada, guarnigioni di vitale importanza per Villa, erano andate al nemico senza che fosse sparato un colpo, alla notizia della sconfitta di Agua Prieta. Poi era venuta la volta di Chihuahua, di Casas Grandes e di Juarez: 4.000 uomini a Juarez, 85 locomotive e 2.000 vagoni solo a Chihuahua.
“Un anno dopo essersi formata quasi in grazia di un miracolo, la magnifica Division del Norte era di nuovo svanita per un colpo di bacchetta magica. Era tutto finito. Tutto quello per cui Villa aveva combattuto, sofferto, rischiato la vita. Tutto. “La bacchetta magica apparteneva a un mago di nome Woodrow Wilson, un uomo che aveva permesso ai suoi pregiudizi personali di calpestare i pareri dei suoi stessi consiglieri. Fu una scelta di cui un giorno si sarebbe pentito. (…)
“Sconfitto, praticamente solo e tagliato fuori da tutte le fonti di rifornimento, Pancho Villa è stato costretto a dividere i resti della sua un tempo magnifica Division del Norte in piccole bande risolute e indipendenti. “Ogni ‘cabecilla’ (capo di guerriglieri) risponderà delle sue azioni solo a Pancho Villa e nessuno dovrà sapere con quale banda si trova Pancho. Il suo piano è di attaccare piccole città, treni e guarnigioni di minore importanza. Come aveva fatto nel 1911 e nel 1913, cercherà di guadagnare tempo mentre mette insieme un altro esercito. “Ma nei primi giorni del marzo 1916, si è verificato un avvenimento che ha cambiato tutto: prima dell’alba del 9, i ‘cabecillas’ Candelario Cervantes, Pablo Lopez, Francisco Beltran e Martin Lopez hanno riunito i loro 400 uomini, percorso un canale asciutto, oltrepassato un posto di guardia armato e attaccato Columbus nel New Mexico, il che rappresenta la prima invasione del suolo americano dal lontano 1812. “Perché? Qualcuno più tardi dirà che i villisti erano stati costretti a questo dall’embargo di Wilson e dalla caccia spietata di Carranza. Ma i più dicono che è stata una questione di onore. Pancho Villa non ha mai dimenticato quelli che l’hanno tradito. Ed è quello che ha fatto il presidente ‘gringo’. “Nella battaglia tra la guarnigione americana e i villisti, 18 soldati muoiono. Muoiono anche alcuni villisti e altri sono catturati. Ma la maggior parte di essi si dilegua sulle colline di Chihuahua.
“La risposta di Carranza a una severa nota americana è che dal 1880 al 1886, durante i regni di Geronimo e di Vittorio, gli Stati Uniti e il Messico hanno goduto del reciproco ‘privilegio’ di passare le frontiere l’uno dell’altro all’inseguimento di banditi. Perché, suggerisce il ‘señor’ Carranza, non esercitare ora questo privilegio? “Per rendere il suo suggerimento più attraente, il ‘señor’ Carranza dichiara ancora una volta Pancho Villa un fuorilegge. Washington risponde in modo favorevole al ‘Protettore del potere esecutivo del Messico’ e, il 15 marzo 1916, il generale di brigata John J. Pershing attraversa la frontiera messicana alla testa di 15.000 uomini, spiegando la cavalleria, la fanteria e l’artiglieria in sette colonne. Oggetto della sua spedizione punitiva: catturare l”ex generale Francisco Villa divenuto bandito. “Pur avendo proposto egli stesso il piano, il ‘señor’ Carranza protesta ora pubblicamente contro l’entrata degli americani, facendo appello al popolo messicano di sostenerlo e ordinando alle truppe federali di prepararsi ad affrontare gli americani. Per il presidente Wilson, questo fu solo un indizio di quello che si era guadagnato con il tradimento di Villa.”


Pancho Villa e la División del Norte

Documento n. 2
Rafael Muñoz, F., Andiamo con Pancho Villa (titolo originale: Vamos con Pancho Villa), trad. it. Milano, Longanesi & C., 1970, pp. 133-141.
“La decisione fu presa al tramonto; la colonna era a una trentina di chilometri da Columbus, ad occidente, sulla strada che da Palomas conduce a Sonora. Pancho Villa riunì i suoi uomini e parlò nella sua solita forma pittoresca; raccontò com’erano morti i diciassette messicani bruciati vivi a El Paso e, dopo averli eccitati a vendicarli all’usanza cinese, terminò con queste parole: «Gli Stati Uniti vogliono divorarsi il Messico; ma vi assicuro che sarà una spina che si fermerà in gola agli americani. Adesso andiamo a Columbus a far bersaglio di quanti americani incontreremo».
“L’aiutante maggiore di Pancho Villa era allora Pablo Lopez, un indigeno dai grossi zigomi sporgenti, coloro olivastro, con una dozzina di peli ritti agli angoli della bocca. Era crudele e deciso e aveva già al suo attivo un altro bel colpo: aveva soppresso diciassette americani nell’assalto a un treno a Santa Isabella. Fu appunto Pablo Lopez che diede a tutti la consegna per la gran battaglia che si stava preparando: «Muoiano gli americani!».
“Dopo una giornata freddissima la notte era gelata e nell’immensa pianura dove soffiavano sempre i più furiosi venti del nord, cento circoli di silenzio circondavano la colonna villista, centro di un ciclone che di lì a qualche ora avrebbe commosso tutto il mondo. All’orizzonte, dove l’oscurità del cielo era anche più fitta di quella della terra, si intravedevano montagne che parevano grosse nuvole e nuvole che parevano montagne. Orientandosi al tenue chiarore delle stelle, Pancho Villa indicò la direzione: al nord! E con Pablo Lopez alla sua sinistra e Leonardo Marquez, la vecchia guida, a destra, si mise alla testa della colonna. dopo qualche ora giunse alla frontiera, segnata da una grossa pietra piramidale, e si rivolse ai suoi uomini con queste parole: «Siamo ormai al confine con gli Stati Uniti, ragazzi! … Da questo momento non possiamo contare che su noi stessi. Ma badate bene a quel che vi dico: a Columbus non ci dovremo fermare tutta la vita; andremo a dare una lezione agli americani e poi ritorneremo subito nel Messico. Di modo che, qualunque cosa succeda, prima dell’alba preparatevi a riunirvi…».
“«A Palomas?»
“«No, meglio che diamo appuntamento un po’ più a sud, in riva al fiume».
“I ribelli attraversarono la frontiera, nel silenzio e nell’oscurità della notte, senza che nessuno si accorgesse di loro, senza un grido o uno sparo. Cinquecento uomini sfilarono accanto alla pietra del confine, animati dai più bellicosi propositi, ma forse ancora più ansiosi di vedere che cosa succedeva. Sedici mule, con quattro mitragliatrici e sessanta casse di munizioni che si trovavano alla retroguardia, vennero fatte avanzare al centro della colonna. Si formarono i gruppi, ciascuno col suo capo, vennero impartite le ultime istruzioni per l’attacco e, dopo un alt di una decina di minuti per riordinare la colonna, gli invasori fecero una conversione a destra. Si trovavano ormai in territorio nemico, non lontani dalla ferrovia El Paso e Southwestern che seguirono al galoppo per un lungo tratto. Dopo tre ore percorsero metà della distanza che li separava da Columbus.
“Verso la mezzanotte passò un treno da oriente a ponente. Doveva essere un treno merci perché tutti i vagoni erano immersi nell’ombra e non si vedeva che l’occhio luminoso della locomotiva. Si udì un fischio lontano che parve tagliare in due il silenzio della notte. Il passaggio di quel treno segnò il limite fra due giorni; fu strappato un figlio dal calendario e i segni segreti delle costellazioni annunciarono la nuova data: giovedì, 9 marzo 1916.
“«Forza, ragazzi, frustate i cavalli! Dobbiamo arrivare in città nel pieno della notte e sorprenderli nel sonno.»
“A galoppo sempre più veloce, come una valanga, l’esercito villista si precipitava su Columbus.
“«Dobbiamo arrivare ben caldi, per cominciare subito la battaglia!».
“«Vedremo quanti ce ne mangiamo!»
“«Se non ci mangiano loro!»
“Dietro la sezione delle mitragliatrici venivano in gruppo Tiburzio Maya, suo figlio e il colonnello Balboa. Il ragazzo, che si era ormai abituato alla dura vita dell’esercito villista, aveva ricevuto la carabina e il suo esile corpo si piegava sotto il peso della croce delle cartucciere. Si preparava a combattere la sua prima battaglia e ripensava alle parole di suo padre: «Un giorno lui tornerà, andremo con lui e al suo fianco non avremo più paura.» Infatti, egli non aveva paura. Paura di che cosa? Del combattimento, dell’incendio, della fuga, della morte? Non aveva nessuna esperienza e nella sua ignoranza di ragazzo, nel fatalismo che gli aveva imposto la vita, non si rendeva conto di nulla. E come lui centinaia di ragazzi, improvvisati soldati, avevano combattuto per la rivoluzione sociale del Messico, solo per istinto ,per il vago presentimento che essi stessi erano un simbolo: il simbolo di un popolo ancora nella sua infanzia, che non sa perché va a combattere. Per un momento gli attraversò la mente il ricordo della madre e un’ombra di tristezza offuscò i suoi occhi.
“«Papà…» disse a bassa voce.
“«Che cosa vuoi?»
“«Mi starai sempre vicino?»
“«Sì.»
“«Dovunque io vada?»
“«Dovunque tu vada.»
Tiburzio però era assorto in altri pensieri e non comprese le parole di suo figlio.
Alle due del mattino il freddo si fece sentire più intenso. Lì uomini e animali si riscaldavano galoppando e nella città abitanti e soldati sene stavano rinchiusi nel tepore delle case. Accucciate nel fondo della garitte, una mezza dozzina di sentinelle dormicchiavano, mentre passavano sul loro capo folate di vento gelido.
“Triste solitudine quella di un paese immerso nel freddo della notte; non si sentiva nessun rumore, neanche l’abbaiar di un cane; l’orologio della City Hall, che suonava le ore e le mezze, disperdeva i rintocchi indolenti fino agli estremi limiti della pianura, senza che gli rispondesse nessuna eco.
“Soltanto in due case si vedeva all’interno un po’ di luce: nella stazione ferroviaria, dove i telegrafisti sonnecchiavano sulle sedie, coi piedi sulla tavola, e in un edificio a due piani, di legno, con una scritta luminosa: ‘Commercial Hotel – A. L. Ritchie, Proprietor’. Attraverso la porta a vetri s’intravedeva il vestibolo, in mezzo al quale si alzava una gigantesca stufa di ferro, rossa e ventruta. “Il tempo procedeva lentissimo; l’intervallo fra le due e mezzo e le tre parve eterno, come se anche l’orologio si fosse fermati nel fondo silenzio della notte; poi, improvvisamente, echeggiò uno sparo: il segnale dell’attacco dei villisti.
“Come si precipitano le acque giù per un terreno inclinato e petroso quando si rompe la diga che le aveva trattenute, e con paurosi muggiti travolgono alberi, case, animali e uomini, non lasciando alla fine che una superficie schiumosa di onde agitate, così, non appena si udì lo sparo che tutti i ribelli aspettavano, si rovesciò sulla cittadina di Columbus la valanga dei soldati di Pancho Villa. I vari gruppi in cui si era divisa la colonna degli assalitori irruppero nelle strade fino allora silenziose e deserte e dappertutto si levarono urla selvagge e raffiche di fucileria. In un attimo la città rimase immersa nel buio:; per qualche tempo non si videro altre luci che le vampe delle fucilate, poi, al centro della città, si levò un bagliore rossastro avvolto da una densa colonna di fumo: era il Commercial Hotel che ardeva, convertito in un rogo per il cadavere del signor ‘A. L. Ritchie, Proprietor’.
“Subito dopo l’albergo fu la volta della farmacia, dove il signor ‘C. C. Miller, draggist’ fu sorpreso dal fuoco mentre, sonnecchiando mezzo vestito, stava preparando una ricetta. “Nelle case di pietra, che non potevano ardere facilmente, i villisti rompevano porte e finestre con le culatte dei fucili e vi sparavano dentro all’impazzata. Ciascuno voleva avere la sua razione: ‘dieci per uno’. Gl’imprudenti che si erano affacciati ai primi urli e ai primi spari, non ebbero neppure il tempo di accorgersi di quel che succedeva; altri che cercavano di fuggire attraverso le fiamme delle loro case, seminudi e pazzi di terrore, cadevano dopo pochi passi crivellati dai proiettili; e in quanto alle sentinelle, furono le prime ad essere massacrate a colpi di pistola nell’interno delle garitte.
“L’assalto era cominciato alle tre del mattino e per più di mezz’ora i villisti poterono scorrazzare per le vie di Columbus, non udendo altri spari e altri scalpitii che quelli dei loro fucili e dei loro cavalli. Nell’interno del forte, infatti, i soldati americani erano rimasti talmente sbalorditi dall’inatteso attacco, che il vecchio colonnello Slocum, veterano della campagna di Cuba, dove aveva passato tre anni, dal 1899 al 1902 a combattere contro gl’insorti, non seppe lì per lì quale decisione prendere. Uscire e battersi per le strade con un nemico di cui non conosceva neppure il numero? Rimanere dentro il forte, mentre la città era in preda alle fiamme, e lasciare gli abitanti esposti alle furie degli assalitori?
“Finalmente si decise; fece il conto degli uomini di cui disponeva, impartì ordini ai subalterni perché armassero le mitragliatrici e si preparassero ad occupare col proprio reparto ciascuno i punti più strategici della città, si affibbiò il cinturone da cui pendeva una grossa pistola ed uscì a battersi. Era un uomo coraggioso e capiva che era un onore affrontare un nemico come Pancho Villa.
“Suonarono le quattro e cominciavano a spegnersi gli incendi per mancanza di combustibile; per larghi tratti la città era ripiombata nel buio, soltanto qua e là si vedeva ancora il bagliore di qualche fiammata. Cauti e guardinghi ,coi fucili puntati, avvolti in lunghi cappotti azzurri, i soldati americani avanzarono.
“Non molto, perché al primo angolo di strada cominciarono ad essere raggiunti dalle fucilate degli invasori. Si ebbero varie scaramucce e tutte d’esito incerto. Ad ogni modo Pancho Villa , non appena si accorse che il nemico stava per sorprenderli di fronte, sulla sinistra e sulla destra, diede ordine ai suoi uomini di prepararsi alla ritirata, sempre combattendo. Non fu però un combattimento; furono cinquecento duelli; ogni villista si batté con un nemico o con vari; a corpo a corpo, a pistolettate, a pugnalate, con le culatte dei fucili, fra ruggiti e bestemmie.
“Essendo morto un mitragliere, Pancho Villa scese da cavallo e si mise lui all’arma, riuscendo a trattenere, con tiro rapido e preciso, un plotone che avanzava a circa duecento metri di distanza. Attento com’era soltanto a mirare, non si accorse però che, protetto dall’oscurità, un gigantesco caporale americano, che forse non lo aveva nemmeno riconosciuto, gli si era avvicinato cautamente e stava per raggiungerlo alle spalle, col fucile alzato per la canna a guisa di clava. Il colpo stava già per abbattersi sul suo cranio, quando un’altra testa si interpose con la rapidità di un baleno e lo ricevette in pieno. Fu allora che Pancho Villa si accorse dell’aggressore e, prima che potesse rialzare l’arma, lo centrò in fronte con un colpo ben aggiustato della sua pistola. Poi, guardando il caduto, disse: «Chi sarà questo povero diavolo che si è preso la mazzata destinata a me?» Un villista se ne stava immobile, steso per terra, e il generale gli si avvicinò, abbandonando per un momento la mitragliatrice; era curioso di vedere in faccia il soldato che lo aveva salvato da quel colpo da gorilla.
“«To’, Tiburzio…»
“Accostò la faccia a quella del caduto, per sentire se ancora respirasse e in quel mentre udì che la mitragliatrice ,che si trovava a poco più di un metro di distanza, aveva ripreso a sparare, solo che gli spari erano discontinui e intermittenti.
Si voltò a guardare e vide il ragazzo, il figliolo di Tiburzio. «Che razza!»
“Si alzò in piedi e, comprendendo che Tiburzio era solo svenuto, lo alzò fra le braccia e lo portò verso i cavali. Altri uomini gli bendarono la testa.
«Papà! Papà!», si sentì gridare il ragazzo. «Non andartene, resta qui con me!»
“Il generale ritornò verso la mitragliatrice; mentre il padre, sempre senza sensi, veniva trasportato verso il sud, il figliolo era rimasto inchiodato all’arma, con le braccia penzoloni intorno al treppiede e la testa trapassata da una pallottola: un filo di sangue gli scendeva sul petto, lungo la cartucciera.
«Anche tu mi hai salvato. Se io fossi stato lì…»
“Non osò muoverlo. Stendere il cadavere al suolo era come togliere la bellezza della sua morte. Preferì lasciarlo dov’era, abbracciato alla mitragliatrice, perché lo vedessero anche i nemici. Era un monumento.
“Si tolse il sombrero: il bosco dei suoi folti capelli era umido di sudore, sentì negli orecchi il sibilo di alcune pallottole che cercavano un bersaglio, ma non si mosse, gli s’inumidirono anche le guance e i baffi, ma non di sudore e neppure di acqua.
“Tutt’intorno aumentavano le raffiche della fucileria e delle mitragliatrici; ormai il cerchio dei nemici si stava chiudendo. L’alba era prossima e in cielo impallidivano le stelle.
«Andiamo!»,disse ai suoi uomini. «La lezione l’abbiamo data. Torniamo a casa nostra.»
“I superstiti dei vari gruppi si erano già riuniti intorno al loro capo e si ricostituì la colonna che si slanciò al galoppo verso la frontiera messicana, inseguita dai primi squadroni della cavalleria americana. Nessuno però osò passare il confine; non era ancora giunto l’ordine di dare la caccia ai villisti e d’altra parte, quando Pancho Villa correva al galoppo, nessuno poteva raggiungerlo.”


Il famoso poster con la taglia su Pancho Villa

Documento n. 3
Jesus Silva Herzog, Storia della Rivoluzione messicana (titolo originale: Breve Historia de la Rivoluciòn Mexicana), trad.it. Milano, Longanesi & C., 1975, 2 voll., II, pp. 119-122.
“Il 19 ottobre 1915, il governo Wilson riconobbe il costituzionalismo come governo ‘de facto’; notizia questa, si dice, che mandò su tutte le furie il generale Villa e che fece nasce nel suo animo un odio feroce verso i nordamericani, che pure così spesso l’avevano colmato di elogi, svegliando le sue ambizioni di caudillo coraggioso e sagace. Il risultato di questo odio feroce e, aggiungiamo, così irrazionale, presto si trasformò in fatti gravi che apportarono gravissimi problemi alla nazione.
“Il primo fu quello del 10 gennaio 1916,quando i due capi villisti, Rafael Castro e Pablo Lòpez, al comando di un gruppo di veterani della famosa Divisione Nord, fermarono un treno proveniente da Ciudad Juarez, in una località chiamata Santa Isabel, e ne fecero scendere gli stranieri che erano 18 di cui 15 statunitensi, tutti occupati in una compagnia mineraria. Essi vennero schierati e, davanti agli attoniti passeggeri, furono fucilati seduta stante. Solo uno riuscì a scappare approfittando della confusione del momento. Il selvaggio massacro sollevò ondate di indignazione negli Stati Uniti e così come nel Messico e altrove. Quei diciassette uomini non avevano commesso alcuna colpa e neanche avevano nulla a che fare con la lotta tra villisti e carranzisti; furono vittime innocenti del rancore e della malvagità.
“Qualche giorno dopo, il Ministero degli Esteri del governo costituzionalista ricevette una nota dal governo di Washington con la quale si protestava e si chiedeva l’indennizzo alle famiglie delle vittime. Questa protesta, conosciuta come il caso di Santa Isabel, fu alla base di una grave controversia diplomatica a lungo protrattasi.
“Il secondo fatto, di gran lunga più grave, fu l’assalto a Columbus, un paese statunitense, il 9 marzo da parte di una banda di fuoriusciti al comando di Francisco Villa. Essi si presentarono nel paese alle tre di mattina, uccisero tre soldati, ne ferirono altri sette e cinque civili. Vari stabilimenti commerciali furono saccheggiati e incendiati. Due ore dopo i banditi si internarono in territorio messicano.
“Isidro Fabela, trattando del gravissimo fatto, così scrive nel suo Historia diplomatica de la Rivoluciòn mexicana: “«Logicamente, se ne può esser certi, l’infame delitto di Santa Isabel obbediva a un disegno del generale Villa, pur non avendo egli partecipato personalmente ai fatti, ché subito dopo, infatti, Pablo Lòpez gli era al fianco per perpetrare insieme con lui la incursione in territorio messicano con l’assalto al centro abitato di Columbus. Francisco Villa volle castigare, come poteva, gli americani che erano stati fino a poco tempo addietro suoi amici, ma che dalla sera alla mattina lo avevano disconosciuto, e secondo lui lo avevano tradito al punto da meritare la sua terribile vendetta.
“«Per questa ragione non si accontentò che fossero sacrificati crudelmente i 18 immolati di Santa Isabel. Voleva ancora sangue. Il suo odio verso gli Stati Uniti aveva le caratteristiche di una fobia sanguinaria che lo portò al peggiore dei delitti, quello di lesa patria. Perché fu proprio così. Infatti, invadendo il territorio statunitense per saccheggiare e incendiare, per uccidere nordamericani a Columbus, non fece altro che esporci ad una guerra con gli Stati Uniti. Ma questo non gli causava certo rimorso, perché era proprio ciò che voleva.
“«Il suo spirito vendicativo giunse quindi al più feroce rancore fino a voler provocare una guerra che avrebbe potuto costarci la perdita della nostra nazionalità, o il pericolo di collocarci, forse per sempre, tra quei Paesi sottomessi allo staffile della rande potenza nordica.»
“Carranza affrontò la situazione abilmente. Rendendosi conto perfettamente del pericolo che ci minacciava, si appoggiò a un precedente che risaliva alla fine del secolo scorso [cioè, del XIX, nota nostra] e che verteva su una regolamentazione giuridica del passaggio di soldati oltre i confini dell’uno o dell’altro dei due paesi, per poter inseguire bande di malviventi, e propose perciò a Washington di convocare una riunione. Ma il governo del paese vicino, senza aspettare lo svolgimento del convegno proposto, ordinò al generale John J. Pershing di oltrepassare la frontiera in testa ad una potente colonna armata e di inseguire Francisco Villa. Questa terza invasione del Messico da parte degli eserciti statunitensi fu considerata una spedizione punitiva.
“Il Messico protestò con tutta l’energia. Gli Stati Uniti risposero che la spedizione non era contro il Messico o contro il suo popolo, ma soltanto per punire i galeotti di Pancho Villa e particolarmente quest’ultimo, se lo si fosse arrestato. Ci furono due scaramucce tra soldati americani e villisti; ci fu un serio incidente tra soldati yankee e la popolazione di Parral, con morti e feriti d’ambo le parti; ci fu ancora un assalto da parte di banditi messicani al paese di Glenn Springs; e ci fu, infine, un combattimento tra truppe statunitensi e costituzionalisti in una località chiamata El Carrizal. Il generale Félix Gomez, rispettando gli ordini ricevuti, impedì che una colonna militare, comandata dal capitano Charles J. Boyd, si inoltrasse verso il sud. Il capitano, risoluto, ordinò alle sue truppe di avanzare. Si aprì un duro combattimento. Il generale Gomez fu ucciso all’inizio del combattimento e lo sostituì il tenente colonnello Genovevo Rivas Guillén. Gli yankee furono completamente battuti. Il capitano Boyd e altri ufficiali morirono. Il pericolo di guerra ancora apparve incombente; una volta ancora l’abilità di Carranza allontanò il pericolo. Egli ordinò di liberare i prigionieri e di condurli con un treno speciale, insieme con i cadaveri dei loro compagni, fino al El Paso, nel Texas; nello stesso tempo espresse al Dipartimento di Stato, con abile scelta dei tempi, il rincrescimento dei fatti.
“Il governo messicano non smise di chiedere il ritiro della spedizione punitiva al presidente Wilson il quale, con il segretario Lansing, continuava a dichiarare la sua amicizia verso il governo costituzionalista e il popolo messicano. Tuttavia, le azioni del governo americano erano spesso contrarie a quanto esso affermava, alle parole di amicizia del presidente e del suo segretario di stato. La Segreteria messicana per istruzioni avute dal ‘Primer Jefe’ [cioè da Carranza, nota nostra] dell’esercito costituzionalista incaricato del potere esecutivo dell’Unione, in data 22 maggio 1916, diresse una lunga nota al governo americano, chiarendo la situazione; in quella nota, lasciati i convenevoli diplomatici, si espresse una decisa accusa contro il doppio giuoco del potente impero, e particolarmente per la sua politica nei riguardi del Messico. Il doppio giuoco, cioè la divisione netta tra parole e fatti, è sempre stata una regola fissa nella politica internazionale della casa Bianca. E questo è un fatto ben chiario per tutti coloro che sanno quali sono le relazioni tra Stati Uniti e paesi latino-ammericani.
“I due governi continuarono a scambiarsi note. Ci furono conferenze tra delegati dei due paesi, prima, agl’inizi d’agosto, a New London, poi in Atlantic City. Argomento base: il ritiro delle truppe statunitensi dal territorio messicano. Il 24 novembre venne firmata la convenzione che liberava il nostro paese dall’invasione straniera. Ma ciò non avvenne prima del 5 o del 6 febbraio 1917, quando le truppe di Pershing evacuarono il nostro territorio. Questo fiammante generale statunitense, che nulla ottenne con Pancho Villa, visto che non riuscì a mantenere la sua promessa di acchiapparlo e di punirlo, partecipò poco dopo alla prima guerra mondiale; comandava i ‘boys’ statunitensi e se ne tornò dall’Europa con gran prestigio d’eroe e di stratega.
“Il Messico tirò un respiro di sollievo quando gli ultimi yankee se ne andarono, ma continuò a vivere per lunghi mesi sotto la minaccia di guerra degli Stati Uniti.”